Alberto Bagnai: "L'Eurozona sta andando a picco. La catastrofe è l'euro, non la Brexit"
di ALBERTO BAGNAI (intervista su Il Populista)
Alberto Bagnai, professore di Politica economica, avanguardia italiana del fronte internazionale di economisti contrari alla moneta unica, già autore in tempi non sospetti del libro “Il tramonto dell’euro”: in Gran Bretagna aumentano i consumi interni e gli investimenti esteri. Non c’è male come inizio dell’apocalisse…
Di questa vicenda mi colpisce il fatto che gli economisti, sia accademici sia appartenenti a istituzioni come il Fondo monetario internazionale, sistematicamente tengano un doppio discorso. Stiamo vedendo che nel breve periodo la Gran Bretagna è ripartita. Non è una sorpresa: il Fondo monetario internazionale aveva detto chiaramente che la sterlina era sopravvalutata. Con la Brexit il Regno Unito è riuscito a far aggiustare il suo cambio senza particolari sforzi aggiuntivi di politica monetaria, ma semplicemente con un effetto psicologico: una mossa da maestro. È schizofrenico il fatto che gli economisti dicano che una moneta è sopravvalutata, cioè che costa troppo, e nel contempo preconizzare catastrofi se quella moneta scende. Ci fosse un po’ più di etica professionale tra gli economisti, molti dei quali agiscono in conflitto di interessi, ci sarebbero meno titoli ad effetto e meno turbolenze di breve periodo su mercati.
Con dati di segno opposto possiamo solo immaginare cosa si sarebbe scatenato sulla stampa italiana e internazionale. Inoltre l’andamento positivo della Gran Bretagna coincide con l’ennesima fase di crisi dell’eurozona.
Siamo ancora nel breve periodo, ma chiedersi se nel lungo periodo la Brexit sarà stata una scelta giusta in termini economici per il Regno Unito non ha molto senso. Perché nel lungo periodo potrebbe succedere di tutto, chessò, potrebbe triplicare il prezzo del petrolio o scoppiare una bolla immobiliare in Cina innescando una recessione mondiale. Fra 3 anni immaginare come sarebbe stata la Gran Bretagna se 3 mesi fa non avesse optato per la Brexit sarà un esercizio speculativo.
Che certezze abbiamo?
L’unica certezza è che l’eurozona sta andando a picco. In termini economici non ha molto senso interrogarsi sulla decisione del Regno Unito. Ha fatto semplicemente una cosa giusta: sganciarsi da una realtà economica fallimentare. Se sei su una nave che affonda cerchi una scialuppa. Poi c’è un tema politico: una delle componenti che ha inciso nella scelta del popolo britannico è stata quella di rivendicare una propria autonomia, una capacità e una possibilità di darsi leggi proprie. Tutto questo non viene raccontato dai nostri media.
Che meccanismo entra in gioco?
I nostri media sono abbastanza opachi da non favorire la nascita di una consapevolezza su certe tematiche, ma questo dipende anche dal comportamento dei miei colleghi. Esiste questa distorsione: non si parla più di Brexit perché i dati sono positivi. Mostrare che chi esce sta meglio, che non esistono apocalissi di sorta, è qualcosa che i nostri media non possono permettersi di raccontare.
Vacilla dunque la bizzarra idea della Brexit come detonatore di catastrofi mondiali. Persino da parte del Governo italiano c’è stato il tentativo di addebitare alla Brexit parte delle sventure economiche del nostro Paese.
Tentativo assurdo. La Gran Bretagna è un’economia relativamente florida rispetto alla nostra, ancor più florida da quando ha manifestato l’intenzione di voler uscire dall’Ue: è bastato questo per scatenare una ventata di ottimismo e di entusiasmo. Non si vede perché il fatto che un nostro vicino, con il quale commerciamo, stia meglio debba far star male noi. È come dire che il panettiere va in dissesto perché i suoi clienti sono più ricchi. Questa è l’applicazione di un sistema illogico, secondo cui il bene dell’Europa si attua facendo il male delle sue componenti.
È il ritornello classico…
Ci dicono che l’Italia o la Spagna o la Grecia devono fare sacrifici, ci dicono che le misure dolorose nel breve periodo ci renderanno virtuosi. Il bene del tutto non si attua facendo il male delle parti. Non c’è nessuna logica economica che stabilisca questo. E infatti chi porta avanti questo discorso fallisce tutte le previsioni. Come il Governo Renzi che toppa le previsioni una dietro l’altra ed è costretto a spiegare i propri fallimenti attraverso fattori esterni come la Brexit e i mercati. Ma la radice del male è da un’altra parte.
La moneta unica, immagino…
Che è l’euro sia la radice del male lo ha autorevolemente detto Stiglitz. Ha spiegato che l’euro è un’istituzione monetaria che ci ha impoverito. Ma nel contempo ha indicato un possibile percorso di soluzione, lo stesso che con altri colleghi come Claudio Borghi avevo indicato da tempo: uno smantellamento controllato dell’euro a partire dai Paesi del Nord. Chi è ricco e stabile si tiene la sua moneta e se ne va accettando un minimo d svalutazione dei suoi crediti, e lasciando ai Paesi del Sud la possibilità di intraprendere un percorso di crescita equilibrato.
Ci sono degli indizi che portano a questi scenari? Dare la parola al popolo può innescare meccanismi inaspettati. Solo un paio d’anni fa nessuno avrebbe immaginato la Gran Bretagna fuori dall’Unione europa.
Gli scenari politici sono interessanti e sono mossi da storture della costruzione europea attuale, riconducibili all’euro. La teoria economica ci dice che la moneta unica crea disoccupazione nei Paesi più deboli in caso di crisi: la crea perché questi Paesi diventano poco competiviti, cioè le loro merci poco domandate sui mercati internazionali. E allora i Paesi deboli devono abbassare i salari, e per abbassare i salari bisogna ricorrere alla disoccupazione. E qui entra in gioco Schengen.
Per quale motivo?
Può sembrare paradossale: noi parliamo di Schengen sempre in rapporto alla questione dei profughi. Ma in realtà la libera circolazione delle persone dentro l’Unione europea è una conseguenza della moneta unica. Perché la rigidità del cambio impone la flessibilità del fattore lavoro: sia nel senso di flessibilità del salario sia nel senso di flessibilità sul territorio, ovvero andare a trovare lavoro dove c’è.
Cosa ci dice il voto in Maclemburgo con il tonfo della Merkel e l’affermazione della AfD?
In Europa l’opinione pubblica può essere colpita dal flusso di migranti, com’è successo in Austria, oppure dalla disoccupazione. Lo si vede dai dati macroeconomici: in Maclemburgo sono “disoccupofobi”. Lì è la “disoccupofobia” il problema, essendo una delle regioni più povere della Germinia. Abbiamo di fronte una serie di appuntamenti politici potenzialmente devastanti per l’euro: le elezioni austriache, quelle francesi dove la Le Pen andrà al secondo turno, poi le elezioni politiche tedesche.
In Germania l’establishment come reagirà?
L’elite politica tedesca si è messa in trappola dando la colpa della situazione a noi. Per consolidare il consenso e prendere voti i politici tedeschi hanno solo una strada da percorrere, che è quella sbagliata: avere un atteggiamento sempre più intransigente nei nostri confronti. È la storia della flessibilità: non possono farlo, altrimenti sarebbero castigati dai loro elettori, che direbbero “ma come quelli sono i pigs, i porci, e voi ora li aiutate?” I politici tedeschi agiranno in una direzione che aumenterà le tensioni politiche legate all’euro. E non è un caso che arrivi proprio ora il libro di Stiglitz.
In che senso?
Il libro di Stiglitz sull’euro è un semaforo verde delle elites americane che segnala l’esistenza di un problema e la necessità di gestirlo. La mia sensazione è che negli Stati Uniti, che sono gli ideatori e i gestori del progetto europeo, stia iniziando una riflessione su quanto questo progetto costi e sia funzionale alle loro strategie.
C’è un interesse degli Stati Uniti circa il futuro dell’euro?
Si è già visto per esempio nel corso della crisi greca, con Tsipras che manifestò interesse a incontrare Putin: poi il quotidiano greco Kathimerini rivelò che durante la crisi Tsipras era costantemente in contatto con gli Stati Uniti. Non solo: dopo il golpe in Turchia Obama immediatamente ha detto alla Germania che occorreva essere più tolleranti con la Grecia. Perché l’euro è la “Nato economica” in qualche modo, ovviamente non tutti i Paesi dell’euro sono Paesi della Nato e viceversa, ma si tratta di uno strumento di coesione economico-politica che in qualche modo si sovrappone alla Nato.
C’è un disegno specifico?
L’idea che si possa sgretolare l’euro agli Stati Uniti fa paura, temono che qualche Paese possa essere attratto nell’orbita russa o medio-orientale. Dall’altra parte però tenere in piedi questa baracca gli costa moltissimi soldi. Il Fondo monetario internazionale nella vicenda greca ha violato tutte le proprie leggi erogando una quantità di soldi spropositata rispetto al peso del Paese. Gli americani da una parte temono che la Grecia possa andarsene con la Turchia e con Putin, dall’altra temono la reazione per esempio di brasiliani e indiani stanchi di vedere quella montagna di denaro, che è anche il loro, buttato in quel modo. Credo che gli Stati Uniti siano arrivati all’idea che bisogna trovare una soluzione concordata.
E l’Italia in tutto questo?
L’Italia è in una situazione molto delicata. La soluzione che descrivevo prima è costosa. Credo in qualche modo che l’Italia, il nostro patrimonio, le nostre case, le nostre banche siano il contentino che il grande capitalismo anglosassone e tedesco vuole spartirsi per sanare i costi di questa evoluzione traumatica verso una nuova flessibilità. In altre parole. È chiaro che le banche tedesche e americane sono molto interconnesse, è chiaro che le banche tedesche vanno a perdere una serie di loro crediti. E in questo processo non è eslcuso che la Troika venga da noi per prendersi tutto quello che può prendere, e tappando queste potenziali perdite, dopo aver risolto una serie di situazioni, avverrebbe lo sganciamento, l’uscita dall’euro.
Lei è ancora di sinistra?
Io non ho mai nascosto di avere un percorso culturale e un’appartenenza di sinistra, con tutte le caratteristiche negative che questo comporta (ride ndr) come quello di sentirmi radicalmente dalla parte del giusto e culturalmente e intellettualemente superiore. Il mio blog è nato perché un mio articolo ha ricevuto un’accoglienza di un certo tipo sul Manifesto, che non mi ha censurato, ma da allora chissà perché non ho più scritto un solo articolo. Poi un altro articolo è stato rifiutato dalla Voce.info, organo di economisti molto preparati che assimilerei a grandi linee a un’area progressista. A destra nessuno mi ha mai detto cosa dovessi dire o non dire. A sinistra sì. E questa per me è stata una grossa sconfitta sul piano umano e culturale.
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