I nomi propri e gli uomini medi. Romanzo, scienze umane, democrazia
Il romanzo come forma di espressione inverata della democrazia dove finalmente trovano posto gli umili. Viceversa, il romanzo testimonia anche il relativismo assoluto della società borghese, invocando il bisogno di ricostruire una comunità con valori condivisi e uno spirito politico
di LE PAROLE E LE COSE (Guido Mazzoni)
1. Un’immensa moltitudine di uomini
Nel 2008, quando morì mio padre, cercai di raccogliere le foto che avevo di lui, come succede in questi casi, e, come succede in questi casi, allargai la ricerca alle generazioni precedenti. Le immagini che ritraevano il lato paterno della famiglia erano pochissime. Scoprii che nel 1972, durante un trasloco, mio nonno aveva deciso di buttare via una parte delle poche foto che possedeva. Quando mia madre gli chiese perché lo avesse fatto, lui rispose «tutta roba vecchia, tutta gente morta». Nato contadino in condizioni che non differivano molto da quelle di Ancien Régime, cresciuto in un’epoca nella quale la fotografia era un’arte costosa, complicata ed elitaria, mio nonno paterno pensava di non avere i mezzi e prima ancora il diritto di lasciare tracce. Si considerava una persona di fatica; la sua vita avrebbe avuto un senso solo attraverso il grande corpo allargato della famiglia, lavorando per far vivere i figli meglio dei genitori, com’era accaduto alle generazioni immemorabili di mezzadri da cui discendeva; tutto il resto era irrilevante e soprattutto non faceva per lui, a cominciare dalla conservazione della sua immagine nel tempo.
Negli anni Venti dell’Ottocento Alessandro Manzoni importa nella letteratura italiana il modello di romanzo storico inventato da Walter Scott. Ci mette poco tempo: Waverley esce nel 1814; nel 1821 Manzoni comincia a scrivere il libro che, sei anni dopo, sarebbe uscito col titolo di Promessi sposi. Ha trentasei anni; è uno scrittore di solida formazione classicistica; nell’ultimo decennio ha praticato forme anticlassicistiche di scrittura: ha rifiutato l’uso della mitologia, ha scritto liriche ispirate alla Bibbia, si è dedicato a tragedie in versi sul modello di Shakespeare. Inizia a scrivere i Promessi sposi dopo l’Adelchi e dopo l’opera storica che accompagna la scrittura dell’Adelchi, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Nel secondo capitolo del Discorso Manzoni si sofferma su una lacuna culturale. Studiando le opere di storia, scrive, non c’è modo di sapere come vivesse la popolazione di origine latina conquistata dai Longobardi:
I cronisti del medio evo raccontano per lo più i soli avvenimenti principali o straordinari, e fanno la storia del solo popolo conquistatore, e qualche volta de’ soli re e de’ personaggi primari di quel popolo[1]. Ciò accade per due ragioni: perché la storiografia ufficiale è scritta dai vincitori e perché ignora le masse. Una quantità enorme di esseri transita sulla terra senza lasciare tracce, o perché sono dei vinti o perché sono delle persone private:
Che se le ricerche le più filosofiche e le più accurate su lo stato della popolazione italiana durante il dominio de’ Longobardi, non potessero condurre che alla disperazione di conoscerlo, questa sola dimostrazione sarebbe una delle più gravi e delle più feconde di pensiero che possa offrire la storia. Un’immensa moltitudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarvi un vestigio, è un tristo ma importante fenomeno; e le cagioni d’un tale silenzio possono riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di fatto[2].
La formazione discorsiva nuova, ancora priva di prestigio, che può riempire questo territorio vuoto è il romanzo. I protagonisti dei Promessi sposi appartengono alle moltitudini che passano sulla terra inosservate: sono «genti meccaniche e di piccol affare», la controparte invisibile dei pochissimi «prencipi, potentati et qualificati personaggi» di cui la storia ufficiale si occupa. Attraverso l’invenzione, la fiction, Manzoni garantisce a due individui qualsiasi il diritto di lasciare traccia, di passare sulla terra senza restare impercepiti. La natura irreale, immaginaria, di questi esseri non cambia la novità del gesto, che è anche, com’è evidente, un atto politico.
2. Storia della vita privata
La cosa chiamata novel, roman, Roman, novela e romanzo si forma durante un processo lungo e complicato al termine del quale gruppi di opere molto diverse vengono accorpate sotto famiglie di parole che, per vie tortuose, riprendono e modificano i nomi di due generi letterari medievali, il roman francese e la novella italiana. A partire dalla metà del Cinquecento, questi due insiemi di termini ampliano il proprio spettro semantico e acquistano un significato nuovo. L’oggetto intellettuale che designano si forma fra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Settecento e mette insieme testi eterogenei: i romanzi cortesi medievali, i romanzi greci riscoperti a metà del Cinquecento, i romanzi nati dall’imitazione dei modelli greci, la narrativa pastorale, la narrativa epistolare, il romance comico, i romanzi picareschi spagnoli e la loro tradizione europea, i romanzi epistolari, le nouvelles francesi, le novelas spagnole, il romanzo umoristico settecentesco, le biografie esemplari, le storie di viaggiatori, di peccatori, di criminali. Opere così diverse sono legate da due elementi comuni: la forma narrativa e l’estraneità, parziale o totale, a quei modelli e a quei principi di poetica ereditati dalla poetica antica che costituivano l’architrave del classicismo della prima età moderna, cioè del sistema letterario egemone in Europa fra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento.
L’ascesa del nuovo genere è accompagnata da una quantità enorme di discorsi critici, trattati, prefazioni: non appartenendo alla letteratura legittima e prestigiosa, i testi che finiscono nel territorio del romanzo debbono giustificare la propria esistenza. Fra la fine del Seicento e la fine del Settecento, molti scrittori provano a rivendicare i diritti della nuova forma presentandola come la storia della vita privata. E’ un discorso che emerge negli anni Sessanta e Settanta del Seicento, durante i dibattiti francesi intorno alla nouvelle: lo troviamo nella Bibliothèque françoise di Charles Sorel[3] e nelle conversazioni critiche dell’Abbé de Charnes intorno alla Princesse de Clèves di Mme de Lafayette[4]. Fra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, diventa un topos e transita nella letteratura inglese: Defoe chiama Moll Flanders a private History[5] e la contrappone ai novels e ai romances non storici, cioè finti, di cui è piena la letteratura della sua epoca; Fielding usa la stessa formula nel Tom Jones[6].
Il topos non vale per tutti i testi che confluiscono nel romanzo (la tradizione del romance rimane esclusa), ma è uno dei modi più comuni di legittimare ciò che, a partire dalla fine del Settecento, il sistema letterario inglese chiama novel. L’idea di una «storia della vita privata» si incrocia con un’altra strategia giustificatoria, quella di presentare il testo romanzesco come exemplum di una verità morale. Fanno entrambe parte di uno stesso discorso: il romanzo è un exemplum proprio perché racconta vite simili a quelle puramente private dei lettori; se raccontasse vite speciali non avrebbe la stessa efficacia paradigmatica. Un ragionamento di questo tipo circola nelle nouvelles francesi del Seicento[7] e dilaga ovunque nel corso del Settecento: nella recensione a Clarissa di Albrecht Von Haller[8], nelle riflessioni sul romanzo di John Hawkesworth[9], nell’Eloge de Richardson di Diderot[10].
A cosa rimanda l’idea del romanzo come storia della vita privata? Nel vocabolario critico che vige fino alla seconda metà del Settecento, una formula simile allude anche alla distinzione aristotelica fra componimenti di tipo poetico e componimenti di tipo storico: i primi sono vincolati al verisimile, cioè al convenzionalmente universale, i secondi narrano il vero, cioè il contingente, l’insolito, il particolare. Scrivere che un novel è storia della vita privata significa collocarlo fra le narrazioni che vogliono essere vere, non verisimili. Questa strategia di legittimazione coglie una novità oggettiva: per millenni la cultura europea ha confinato gli individui non rappresentativi in un sottomondo culturale.
È una lacuna discorsiva che riguarda sia la storiografia sia la letteratura. Nella cultura antica e classicistica la storia scritta secondo le regole, la vera historia, parla di figure pubbliche, non di vite private. In questo senso il romanzo riempie davvero uno spazio vuoto: un vocabolario e una logica critica di origine classicistica vengono usati per giustificare un genere che la poetica classica e classicistica non conosceva. Il paradigma storiografico egemone in Occidente fino alla fine del Settecento è quello che discende da Tucidide: la storia non racconta gli usi, i costumi e la vita privata, non è etnografica né antiquaria; la storia racconta le vicende pubbliche e politiche, le res gestae dei grandi[11].
La riscoperta di Erodoto a metà del Cinquecento annuncia una metamorfosi che avrà luogo solo nel corso dell’Ottocento, quando uno storico non potrà più ignorare ciò che Manzoni, nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia,chiamava «lo stato della popolazione», cioè la vita delle masse. Peraltro l’idea del romanzo come genere del privato sarà decisiva per la legittimazione del modello di romanzo inventato da Walter Scott: gli studiosi di cose antiche, si legge nei materiali introduttivi a Ivanhoe (1820), ci hanno lasciato solo poche notizie sulla vita delle persone comuni nate in altre epoche; i romanzi come quelli cui Scott si dedica raccontano ciò che gli storici non hanno raccontato.
Nell’insieme di discorsi che, a partire dal Settecento, viene chiamato letteratura vige la stessa zona d’ombra: le forme nobili del sistema letterario antico e classicistico, l’epos e la tragedia, raccontano storie di eroi, re, figure mitologiche; le storie private degli individui comuni finiscono nei generi di registro comico o intermedio – la commedia antica, il mimo, la commedia nuova, i giambi, l’epigramma, la satira. Questo perché, come sappiamo da Auerbach, il sistema letterario antico e classicistico è strutturato intorno alla regola della divisione degli stili. Il primo testo in cui la Stiltrennung viene esplicitamente formulata è il secondo capitolo della Poetica di Aristotele:
Coloro che imitano imitano uomini che agiscono, e questi, di necessità, sono seri (spoudaious) o di poco conto (phaulous). I caratteri si conformano in effetti quasi sempre a questi soli tipi, perché tutti differiscono per quanto riguarda il carattere in vizio (kakia) o in virtù (arete), e sono dunque migliori di noi, peggiori di noi o simili a noi.[12]
Gli uomini che Aristotele chiama «migliori di noi» sono i semidèi o gli eroi aristocratici dell’epos e della tragedia, e compiono imprese straordinarie o vanno incontro alle sventure eccezionali che i poeti rappresentano con un atteggiamento serio e uno stile alto, conformemente alla dignità delle gesta; gli uomini «peggiori di noi» sono gli schiavi o i personaggi «di poco conto» della commedia: compiono azioni ridicole o leggere che i poeti rappresentano con uno stile adeguati al rango basso. Aristotele sta dando voce a un paradigma che lo precedeva e che sarebbe durato per millenni: la regione più prestigiosa dello spazio letterario antico è occupata dagli individui pubblici; le persone «come noi» finiscono in un territorio minore, intermedio o più spesso comico, sottoposto a regole di genere rigide e stilizzanti. Questo perché nelle letterature antiche e classicistiche la Stiltrennung si rivelò una bipartizione più che una tripartizione: igenera elocutionis erano tre ma i confini fra umile e medio furono sempre piuttosto incerti: lo stile basso poteva comprendere il comico, il satirico, l’erotico-scherzoso, l’osceno, ma anche la vita quotidiana, l’informazione di fatto, il bozzetto, il dato marginale; ne facevano parte il mimo, il giambo e la satira, ma anche i brani di un’orazione giudiziale che si occupavano di argomenti privati o di economia[13].
Qual è la novità che il romanzo ha introdotto nella storia di lunga durata della letteratura occidentale? Le risposte possibili sono molte; se però se ne dovesse scegliere una, io direi questo: il romanzo, come Friedrich Schlegel intuì precocemente, è il primo genere che è arrivato a raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo. Semplificando un tema che si presta a distinzioni innumerevoli, potremmo dire che esistono due grandi famiglie di teorie del romanzo. La prima discende dal Dialogo sulla poesia di Friedrich Schlegel, si diffonde nel corso dell’Ottocento, viene ripresa e sviluppata da Bachtin negli anni Trenta e Quaranta del Novecento e diventa popolare dopo la riscoperta di Bachtin negli anni Settanta. Secondo questa posizione teorica, il romanzo, nel significato moderno del termine, è una forma cangiante e indefinibile, un genere che ingloba gli altri generi e che permette di raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo.
L’altra famiglia discende dall’Estetica di Hegel, viene ripresa e sviluppata nel corso del Novecento da Lukács e da Auerbach. Secondo quest’altra posizione, il romanzo è la moderna epopea borghese o il genere che permette la mimesi seria, tragica e problematica delle persone come noi. Potremmo unirle dicendo quanto segue: il romanzo è il genere che, conquistando la capacità di narrare qualsiasi storia in qualsiasi modo, arriva a raccontare, con una ricchezza e un peso inediti, l’esistenza delle persone come noi, cioè qualcosa che per i moderni è diventato cruciale e che fino a quel momento aveva avuto un posto minore nella società e nella cultura europea. Ciò non significa che la dimensione del privato non fosse mai entrata nello spazio narrativo; vuol dire che non era mai entrata con questa ampiezza e con questa Stimmung.
La letteratura e la storiografia classiche e classicistiche raccontano con serietà e indugio storie di individui pubblici la cui visibilità è garantita dal mito, dalla storia collettiva, dalla leggenda o dalla funzione che questi individui esercitano; il romanzo racconta con serietà e indugio storie di personaggi che, nella sfera pubblica, rappresentano solo se stessi. Altre formazioni discorsive in quegli stessi decenni contribuiscono alla metamorfosi; il giornalismo, l’autobiografia moderna, la poesia lirica moderna sono parti dello stesso processo; nel XIX e nel XX secolo la fotografia, il cinema, i media elettrici completeranno la trasformazione.
In francese le persone private si chiamano particuliers. È un termine rivelatorio: i privati sono coloro che abitano nella dimensione della particolarità, che si muovono nella pluralità del mondo accidentale, che conoscono il suo irriducibile polimorfismo. Raccontare la vita privata significa aprire la letteratura alle singolarità qualunque, reali o immaginarie, e dar loro il diritto di lasciare tracce. Grazie al romanzo (e al giornalismo, all’autobiografia moderna, alla poesia lirica moderna, alla fotografia, al cinema, ai media elettrici) una quantità enorme di esseri, storie, ambienti, fatti singolari viene immessa nella mimesis, rappresentata, riportata alla presenza; grazie al romanzo e agli altri generi della particolarità la democrazia entra nella storia culturale europea.
3. Nomi propri e uomini medi
Ma proprio nell’epoca in cui si afferma la famiglia di giochi linguistici che restituisce le differenze umane in tutta la loro costitutiva anarchia, emerge con forza una famiglia di giochi linguistici, eguale e contraria. La illustro partendo da una coincidenza. Le Confessioni di Rousseau, come si sa, sono un’opera cruciale per la nascita dall’autobiografia moderna e di quel sottogenere romanzesco che Joachim Merlant, all’inizio del Novecento, chiamerà roman personnel[14], e che comprende opere come I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe, Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1817) di Foscolo, Atala (1801) e René (1802) di Chateaubriand, Delphine (1802) e Corinne (1807) di Madame de Staël,Obermann(1804) di Senancour, Valérie (1804) di Madame de Krüdener, Adolphe (1816) di Constant. Nelle prime pagine dell’opera Rousseau giustifica il suo progetto con molti argomenti. Il più famoso cala in forma scritta la pietra angolare della concezione moderna degli individui:
Non sono fatto come nessuno di quelli che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di quelli che esistono. Se non valgo di più, almeno sono diverso[15].
Per la doxa moderna gli individui sono differenze: quando entrano in letteratura i nomi propri non debbono spogliarsi dei tratti contingenti per avvicinarsi a un modello universale, allegorico di individuo; debbono invece conservare la propria idiosincratica singolarità. Il romanzo, l’autobiografia e la poesia moderna nascono da questo presupposto implicito: la comunicazione letteraria va dal lettore in quanto individuo singolare agli individui cartacei singolari di cui parlano i testi; i generi letterari della nostra epoca sono concepiti per lasciar dilagare la differenza, l’idiosincrasia, non per ridurla.
Pochi anni dopo l’uscita delle Confessioni di Rousseau, Buffon pubblica il quarto supplemento alla sua Histoire naturelle(1777). In uno degli scritti che ne fanno parte, l’Essai d’arithmétique morale, usa un’espressione che avrà fortuna –homme moyen[16]. Se l’uomo privato e singolare è la pietra di costruzione dei generi letterari moderni, l’uomo medio è il mattone concettuale che rende possibile una famiglia discorsiva completamente diversa. L’emersione dei generi letterari moderni, incentrati sulla differenza, è contemporanea allo sviluppo di saperi che riportano le differenze all’unità dei concetti, o addirittura dei numeri: il romanzo, la poesia moderna, l’autobiografia moderna emergono nel loro assetto attuale proprio quando si affermano le scienze umane – cioè quando le «scienze dell’anima» cinquecentesche e seicentesche si trasformano, nel corso del Settecento, nella disciplina che viene chiamata ‘psicologia’[17], e quando la riflessione sulla vita sociale cominciata con Montesquieu, e prima ancora con Bodin, fa emergere ciò che Comte, nelCours de philosophie positive, chiamerà ‘sociologia’[18]. Le scienze umane agiscono secondo una logica eguale e contraria a quella che vige nella letteratura moderna: applicano i concetti al mondo degli individui, colgono le costanti, livellano le differenze. Poiché gli esseri di cui parlano non interessano in sé ma per altro, per le regolarità che li attraversano, il centro del discorso non è il singolo individuo empirico, il nome proprio, ma l’essere generico, l’homme moyen, oppure il tipo (il ‘borghese’, l’’impiegato’, l’’isterica’, il ‘nevrotico’, e così via).
In questo senso l’epoca nella quale si affina la rappresentazione artistica delle singolarità e gli scrittori diventano capaci di raccontare i dettagli minimi delle coscienze, dei destini, degli ambienti è la stessa che, applicando il calcolo delle probabilità alla vita, vede nascere la disciplina disumana della statistica[19]. Una delle soglie decisive nella storia del romanzo è il progetto della Comédie humaine, l’opera che cerca di rappresentare la totalità sociale accettando il principio della differenza: ogni classe, ogni ambiente, ogni carattere, ogni costume riceve una rappresentazione peculiare; il diritto democratico a lasciare tracce tocca ogni aspetto della vita, tanto che l’opera rischia di scivolare in quella che Hegel chiamava la cattiva infinità. Balzac conosce per tipi, certo, ma i tipi non vengono fissati nella forma del concetto; si incarnano invece in esseri singolari, personaggi, nomi propri, particuliers. Se lo scopo è affine a quello della sociologia, i mezzi sono opposti.
Negli anni Trenta dell’Ottocento, quando Balzac e Comte danno forma alle loro opere maggiori, Adolphe Quetelet recupera e sviluppa l’espressione homme moyen[20]. Meteorologo di formazione, Quetelet è il primo ad applicare la statistica allo studio della vita umana. Parla di homme moyen nel 1831 in una relazione all’Académie Royale di Bruxelles; quattro anni dopo, nel suo scritto più importante, Sur l’homme et le développement de ses facultés (1835), chiarisce meglio quest’idea. L’uomo medio, scrive Quetelet, nasce dalla cancellazione statistica delle singolarità individuali:
I fenomeni morali, quando si osservano le masse, rientrano in qualche maniera nell’ordine dei fenomeni fisici; e saremmo portati a ammettere, come principio fondamentale nelle ricerche di questa natura, che più grande è il numero degli individui osservati e più le peculiarità individuali, sia fisiche che morali, si cancellano e lasciano predominare i fatti generali[21].
L’uomo medio […] è in una nazione ciò che il centro di gravità è in un corpo[22].
La letteratura europea diventa capace di raccontare le particolarità minute della vita sociale proprio quando, dall’altro lato dello spettro conoscitivo, sorgono scienze fondate sul presupposto che le differenze fra gli individui possono essere cancellate e riportate a centri di gravità, a leggi concettuali e a formule matematiche; l’apertura alla democrazia delle differenze è coeva alla morte delle differenze nella gelida identità dei numeri.
4. Il doppio regime delle verità moderne
L’antitesi fra le formazioni discorsive che mimano la particolarità e le formazioni discorsive che riportano la particolarità al concetto o al numero è una delle strutture profonde che danno forma alla maniera moderna di concepire gli individui e illumina una contraddizione fondamentale della nostra epoca. Da due secoli, per dire qualcosa intorno a una vita, ci affidiamo a due famiglie di discorsi: i primi rappresentano i singoli individui nelle particolarità minute o concedono loro il diritto di lasciare tracce e di esprimersi; i secondi ignorano le differenze e ricercano ciò che è comune, fissano la media.
Da un lato la letteratura moderna, il giornalismo, la fotografia, i video, l’apparato delle attività mimetico-espressive contemporanee; dall’altro, i saperi concettuali sulla vita umana, la riflessione filosofica sul quotidiano, le scienze umane, la statistica: da un lato la singolarità di massa esposta nei dettagli, dall’altro la coscienza che le singolarità, osservate in quanto massa, sono parti di una serie. Da un lato la democrazia come differenza; l’ingresso degli individui qualsiasi nella sfera del dicibile e del visibile; dall’altro la democrazia come livellamento degli individui nell’unità delle forze anonime che agiscono dentro o sopra di loro. È un doppio regime di verità che noi tardo-moderni sperimentiamo ogni giorno. Si pensi ai due siti internet più visitati al mondo, Google e Facebook. Il primo è il più sofisticato dispositivo statistico che sia mai stato inventato: un algoritmo stabilisce quali siti corrispondano meglio alla ricerca digitata sullo schermo e classifica le singolarità sulla base di leggi.
Il secondo è un diario in pubblico di massa che, democratizzando il diritto romantico a esprimere se stessi, invera le riflessioni di Christopher Lasch sul narcisismo di massa e il concetto di espressivismo così come si trova esposto nelle opere di Charles Taylor[23]. Facebook permette a un miliardo e mezzo di utenti attivi di pubblicare massime, aneddoti, riflessioni, storie, immagini, video, musica, di portare all’esterno le particole della propria vita, e in primo luogo di registrarle. Condensa due aspetti della mutazione antropologica di terzo livello che internet ha reso possibile: esprimere pubblicamente la propria ipotetica peculiarità e registrare la pura contingenza, memorizzare il flusso delle esistenze impermanenti.
Considerati in quanto forme simboliche, Google e Facebook generano immagini del mondo in apparenza opposte. Questa antitesi ripete una bipartizione costitutiva della cultura occidentale, quella frattura tra poesia e filosofia, tra mimesi e concetto che emerge al termine di una lunga battaglia discorsiva combattutasi fra il VI e il IV secolo a. C. in Grecia, e sancita da Platone nel II, III e X libro dellaRepubblica. Oltre a ripeterla la porta all’estremo: la mimesis contemporanea scende nei dettagli con una precisione inedita; la riflessione diventa statistica e annulla le differenze nella più gelida delle identità – quella dei numeri. Che cosa significa questo doppio regime?
Gli ultimi due secoli, in Occidente e nei paesi toccati dall’egemonia culturale dell’Occidente, i particuliers si sono moltiplicati. È stata innanzitutto un’espansione quantitativa: il numero dei viventi è esploso, gli spazi fisici e mentali si sono saturati di corpi e di discorsi. Inoltre le masse hanno acquistato il diritto di vedersi riconosciuto uno spazio di autonomia privata, il diritto di avere dei diritti: perseguire i propri interessi, criticare, in teoria, ciò che è stato tramandato, partecipare, in teoria, alla creazione della volontà politica collettiva, costruirsi una sfera di valori. Ma l’epoca che accresce il peso nominale delle singole persone è la stessa che lega gli uomini in sistemi di reciproca dipendenza, moltiplicando le catene di azioni e reazioni reciproche: se i singoli conquistano autonomia e sicurezza all’interno delle piccole sfere che li avvolgono, l’orografia complessiva dei loro territori esistenziali li oltrepassa.
Ciò è sempre accaduto, ma in epoca moderna la dislocazione e lo spossessamento sono cresciuti. Alla crisi delle trascendenze soggettive, cioè dei valori condivisi, corrisponde un rafforzamento delle trascendenze oggettive, cioè la dipendenza degli individui da poteri, reti, meccanismi, mitologie che gli individui non controllano. Trasformando la storia in un’esperienza vissuta dalle masse, la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche inaugurano un tratto tipico della modernità. Nei due secoli successivi i grandi conflitti a coscrizione obbligatoria, i cicli economici mondiali e le mutazioni di costume lo ribadiranno e mostreranno che l’etere nel quale gli individui sono immersi eccede gli individui, sfugge al loro controllo e costituisce il solo vero Evento. La cultura del XIX secolo – da Hegel a Tolstoj, da Marx a Durkheim – declinerà in molti modi la scoperta che la vita sovrapersonale rappresa nella storia e nella società è la vera trascendenza oggettiva, la forma laica e secolarizzata del divino.
Dunque l’epoca in cui si afferma il valore assoluto di ogni individuo è la stessa in cui emerge, con assoluta evidenza, il potere delle grandi forze anonime, nelle guerre planetarie o nelle crisi economiche, nei meccanismi dei mercati o nei cambiamenti dello Zeitgeist. L’antitesi fra il peso nominale delle singole persone e la loro oggettiva irrilevanza si mostra nel conflitto fra le forme di mimesi della singolarità e i giochi linguistici che riportano le esperienze personali ai concetti o ai numeri. Ma la contraddizione, in realtà, è implicita in ogni disciplina. La narrativa moderna, nella fattispecie, affina la rappresentazione artistica della singolarità nello stesso periodo in cui sviluppa la forma del romanzo-saggio; lo sviluppo della tecnica che più di ogni altra dà voce alla frantumazione della vita psichica, il flusso di coscienza, è coeva all’irruzione massiccia della riflessione filosofica nelle opere di narrativa; colui che sfonda la forma tradizionale del romanzo introducendovi una vera e propria filosofia della storia esposta in forma pesantemente concettuale, Tolstoj, è lo stesso scrittore che, un decennio dopo, espande l’introspezione di Anna Karenina e crea un monologo interiore.
5. Democrazia e romanzo
Torniamo agli anni Trenta dell’Ottocento, quando Balzac lavora al progetto della Comédie humaine, Quetelet scrive Sur l’homme et le développement de ses facultés e Comte lavora al Cours de philosophie positive (1830-42). In quello stesso periodo Tocqueville pubblica la Democrazia in America (1835 e 1840). Per Tocqueville il nucleo della democrazia, ciò che la rende irresistibile, non è tanto la gioia di partecipare in modo continuo, emancipato e consapevole alla vita collettiva, quanto la creazione di piccole sfere di benessere e autonomia attorno ai singoli individui: è la divisione del mondo comune in «petites sociétés» poste su un piano di eguaglianza formale, e all’interno delle quali ogni individuo o ogni microgruppo può perseguire i propri scopi, lasciare le proprie tracce, esprimersi. Le nazioni democratiche sono fatte di mondi che soggettivamente si percepiscono come liberi e diversi, ma che oggettivamente si assomigliano, sia perché l’eguaglianza delle condizioni e l’aumento della dipendenza reciproca livellano i comportamenti e i costumi, sia perché il contenuto dei desideri e degli scopi che gli individui e le «petites sociétés» perseguono è solo particolare. Oggettivamente l’uno vale l’altro; soggettivamente la differenza minima che li separa è ciò che ognuno di noi chiama «la mia vita».
Se si oltrepassa la rappresentazione idealizzata che le democrazie liberali danno di se stesse – la retorica della partecipazione collettiva, emancipata, alla vita della polis – e ci si chiede che cosa abbia reso desiderabile questo regime per milioni di contadini europei vissuti in condizioni sostanzialmente feudali fino alla prima metà del Novecento, per le masse del Terzo Mondo o per gli abitanti degli stati totalitari, si vede che la partecipazione politica o il suffragio universale sono valori imprescindibili solo negli stati d’eccezione, cioè quando il piccolo spazio di benessere e autonomia è minacciato: in condizioni ordinarie, la democrazia è un dispositivo fragile, svuotato dall’azione di poteri economici esterni alla politica degli Stati, dalle asimmetrie nell’accesso alla comunicazione di massa, dalla resistenza che le burocrazie oppongono alle decisioni politiche, dall’inerzia delle maggioranze silenziose, dall’azione delle oligarchie.
Che la televisione pubblica e privata di uno stato che si dice democratico sia controllata all’ottanta per cento da un industriale sceso in politica, che la costituzione europea venga approvata con lievissime modifiche di facciata dopo che due stati sovrani la bocciano in un referendum, che il presidente degli Stati Uniti venga eletto in circostanze oscure, grazie ai voti decisivi di uno stato in cui si sospetta che siano avvenuti dei brogli, per giunta governato dal fratello di uno dei due candidati, non suscita rivolte di piazza o domande collettive radicali. Prima che per la propria autorappresentazione enfatica, la ‘democrazia’ resta desiderabile perché costruisce piccole sfere di autonomia attorno agli individui e alle famiglie, perché consente alle persone private di esistere per sé. Benché irrilevanti in rapporto alla totalità, benché marginali, seriali e caduchi, i desideri, gli scopi, le tracce degli individui si vedono attribuire un’importanza soggettiva assoluta. Nessuna stagione della storia umana ha mai dato così tanto peso alle persone qualsiasi: se chiamiamo sacro ciò che non si può trascendere o negoziare, la vita particolare rappresenta l’unico orizzonte di sacralità che la cultura moderna riconosce.
E se è vero, come vuole uno schema di filosofia della storia emerso dalla cultura dell’idealismo tedesco, che l’individualismo moderno nasce sul fondamento della teologia cristiana, per la quale ogni persona rappresenta un valore infinito, essendo creata a immagine e somiglianza di Dio, è altrettanto vero che l’inconscio culturale del mondo moderno rimuove questa genealogia e trasforma la vita ohne Eigenschaften, e senza tutele teologiche, in un valore assoluto. E questa è innanzitutto una conquista: sentirsi autorizzati a perseguire i propri interessi, a esprimere se stessi, avere il diritto esteriore e interiore di conservare le proprie opinioni, parole, foto, è un risultato straordinario. Ma una svolta di tale portata ha il suo rovescio dialettico. Per coglierlo, torniamo al romanzo – il genere che racconta qualsiasi cosa in qualsiasi modo, il genere che rappresenta la pluralità dei mondi, dei desideri, delle «petites sociétés».
Dietro il processo che porta a una simile libertà si cela una trasformazione profonda, nonché l’equivalente letterario di ciò che Tocqueville chiama democrazia. La moderna narrativa in prosa nasce dall’abbattimento di quella scala degli esseri cui il sistema dei generi antico e classicistico implicitamente rimandava attraverso la regola della divisione degli stili. La disinvoltura con la quale il lettore medio si identifica coi mondi di personaggi completamente diversi fra loro, adattando ogni volta il proprio orizzonte di valori a orizzonti sempre nuovi, significa che tutti gli individui hanno conquistato il diritto democratico di lasciare tracce, di diventare, in teoria, interessanti. Ma significa pure che gli scopi da cui gli eroi del romanzo moderno sono mossi hanno perduto ogni valore oggettivo e sostanziale: se i generi nobili della letteratura antica e classicistica, l’epos, la tragedia, comunicavano un’idea precisa della vita buona, un’idea rigida di ciò che era giusto o sbagliato, dignitoso o indegno, nobile o ignobile, il romanzo trasmette un’immagine del mondo costitutivamente relativistica. Nel quarto libro di Guerra e pace Pierre Bezuchov, prigioniero dei francesi, riflette sul significato delle esperienze che ha fatto negli ultimi anni e conclude: «aveva scoperto che […] l’uomo che nel suo letto di rose soffriva perché un petalo si era gualcito, soffriva esattamente come soffriva lui ora, addormentandosi sulla terra nuda e umida, gelando un lato del corpo e scaldando l’altro»[24].
Guerra e pace è il correlativo estetico di queste considerazioni: un romanzo in cui le passioni di Natascia Rostova il giorno del suo primo ballo coesistono, su un piano di sostanziale parità, con le riflessioni di Andrej Bolkonskij sul senso della vita o con i pensieri di Napoleone. L’esistenza stessa di un genere che permette di condividere i desideri degli altri senza giudicarne il significato intrinseco è eloquente: nel romanzo moderno gli individui agiscono per scopi privati all’interno di un mondo privato. Questo spazio ideologico e mentale si regge sulla massima che Thomas Buddenbrook applicava alla propria vita: «ogni attività umana ha un significato solo simbolico»[25]; poiché non esiste più una scala assoluta degli ideali, degli scopi e dei conflitti, «si può essere un Cesare anche in un modesto centro del Baltico»[26]; il destino di un commerciante di Lubecca merita lo stesso interesse che altre culture avrebbero riservato al destino di un principe, perché il contenuto di ciò che si persegue è infinitamente particolare. Ogni lettore è più attratto da certe storie e da certi personaggi che da altri, e tuttavia ciò che è davvero universale non è il contenuto dei desideri e dei mondi individuali, ma la forma del desiderare qualcosa in un piccolo mondo abitato da altri individui che a loro volta desiderano qualcosa di diverso. Il genere che garantisce agli individui il diritto di lasciare tracce scopre alla fine che tutte le vite moderne, nonostante le loro differenze di superficie, ripetono lo stesso schema: uno schema nel quale ciò che importa è la forma del desiderare, non il contenuto dei desideri, e prima ancora l’idea che sia interessante dare spazio agli individui qualsiasi, qualunque sia lo scopo cui tendono.
Il romanzo comunica un’immagine tocquevilliana dello stato di cose presente: racconta un mondo diviso in nicchie poste in un intero che sfugge al controllo, ciascuna soggettivamente singolare nella sua oggettiva serialità, ciascuna assoluta nella sua assoluta relatività. «Mi chiamo Walter Siti, come tutti»[27], si legge nell’incipit di un romanzo che definirà il nostro tempo. Poco più avanti si legge anche «sono l’Occidente perché posso occuparmi di sciocchezze e chiamare sciocchezze le potenze che non controllo»[28], perché mentre stati interi si dissolvono posso postare le foto del mio gatto su Facebook. D’altra parte occuparsi di sciocchezze è stata anche una conquista che molti di noi non baratterebbero mai. I tentativi politici di sovvertire questa condizione sono falliti. Lo dice la storia degli ultimi due secoli, due secoli che si concludono in un punto imprecisato degli anni Ottanta dopo il quale riemerge, come un destino inevitabile, lo stato di cose descritto centocinquant’anni fa da un aristocratico la cui famiglia era fortunosamente sopravvissuta alla Rivoluzione francese.
[1] A. Manzoni, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822, 1847), in Id., Opere, vol. IV, Scritti storici e politici, a cura di L. Badini Confalonieri, Torino, UTET, 2012, p. 121.
[2] Ivi, p. 158.
[3] Ch. Sorel, La Bibliothèque françoise. Seconde édition revue et augmentée (1667), Genève, Slatkine, 1970, p. 178 ss.
[4] J.-A. de Charnes, Conversations sur la critique de la Princesse de Clèves, Paris, Claude Barbin, 1679, pp. 135 ss.
[5] D. Defoe, Moll Flanders (1722), ed. by E. Kelly, New York-London, Norton, 1973, p. 3.
[6] H. Fielding, The History of Tom Jones. A Foundling, ed. by F. Bowers, in The Wesleyan Edition of The Complete Works of Henry Fielding, Oxford, Oxford University Press, 1975, Book II, Chap I and Book VIII, Chap. I.
[7] J.R. de Segrais, Les Nouvelles françaises ou Les divertissements de la Princesse Aurélie, texte établi, présenté et annoté par R. Guichemerre, Paris, Société des textes français modernes, 1990, t. I, p. 21.
[8] A. von Haller, Clarissa, in «Bibliothèque raisonnée des ouvrages des savans de l’Europe», janvier, février, mars 1749, t. XLII, première partie, pp. 326-333.
[9] J. Hawkesworth, in The Adventurer, 4, Saturday, November 18, 1752, p. 20.
[10] D. Diderot, Éloge de Richardson (1762), in Id., Œuvres complètes, t. V, Paris, Le Club Français du Livre, 1970, pp. 128-29.
[11] A. Momigliano, Il posto di Erodoto nella storia della storiografia (1958), in Id., La storiografia greca, Torino, Einaudi, 1982, pp. 138-155, e Id., The Classical Foundations of Modern Historiography, Berkeley-Los Angeles-Oxford, California University Press, 1990, cap. II.
[12] Aristotele, Poetica, 2, 1448 a.
[13] E. Auerbach, Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter (1958); trad. it. Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 43.
[14] Cfr. J. Merlant, Le roman personnel de Rousseau à Fromentin (1901), Genève, Slatkine, 1978.
[15] J.J. Rousseau, Les Confessions (1782), in Id., Œuvres completes, édition publiée sous la direction de Bernard Gagnebin et Marcel Raymond avec la collaboration de Robert Osmont, Paris, Gallimard, 1959, t. I, p. 6.
[16] G.-L. Leclerc de Buffon, Supplément à L’Histoire naturelle, t. IV, Paris, Imprimerie Royale, 1777, p. 57. Sulla nozionehomme moyen nello sviluppo dei saperi statistici moderni, cfr. S.M. Stigler, The History of Statistics. The Measurement of Uncertainty before 1900, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1986, pp. 168 ss.
[17] Cfr. F. Vidal, Les Sciences de l’âme, XVIe-XVIIIe siècle, Paris, Champion, 2006, cap. I.
[18] Cfr. R. Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Paris, Gallimard, 1967.
[19] I. Hacking, The Emergence of Probability: A Philosophical Study of Early Ideas about Probability, Induction and Statistical Inference, Cambridge, Cambridge University Press, 1975; A. Desrosières, La politique des grands nombres. Histoire de la raison statistique, Paris, La Découverte, 1993.
[20] S.M. Stigler, The History of Statistics. The Measurement of Uncertainty before 1900, cit., pp. 161 ss.; S.M. Stigler,Statistics on the Table. The History of Statistical Concepts and Methods, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1999, pp. 59 ss.
[21] A. Quetelet, Sur l’homme et le développement de ses facultés. Essai de physique sociale, Paris, Bachelier, 1835, t. I, p. 12.
[22] A. Quetelet, Sur l’homme et le développement de ses facultés, cit, t. II, p. 251.
[23] Ch. Lasch, The Culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations (1979), trad. it., La cultura del narcisismo, Milano, Bompiani, 2001; Ch. Taylor, Sources of the Self: The Making of the Modern Identity (1989), trad. it.,Radici dell’io, Milano, Feltrinelli, 1993.
[24] L. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. di P. Zveteremich, Milano, Garzanti 1982, VI, iii, xi, p. 1592.
[25] Th. Mann, Buddenbrooks. Verfall einer Familie, Hrsg. von E. Heftrich unter Mitarbeit von S. Stachorski und H. Lehnert, S. Fischer, Frankfurt a. M. 2002, VI, 7, p. 397.
[26] Ivi, V, 4, p. 302-03.
[27] W. Siti, Troppi paradisi, Torino, Einaudi, 2006, p. 3.
[28] Ivi, p. 186.
fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=24142
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