Referendum costituzionale: la posta in gioco non è Renzi, ma demolire il concetto ideologico di "governabilità"
di RICCARDO PACCOSI (FSI Bologna)
La mia posizione sul referendum costituzionale di ottobre, ha poco a che vedere con certa lettura di sinistra che tende a individuare in Matteo Renzi e nel suo governo una sorta di anomalia storica.
Le riforme costituzionali di Renzi, al contrario, non sono altro che l’ultimo capitolo d’un processo di destrutturazione della Repubblica parlamentare che va avanti da oltre un ventennio. Un processo che, da una parte, punta alla demolizione del welfare e del potere contrattuale delle organizzazioni del lavoro attraverso l’espressione ideologica “fare le riforme”; dall’altra, punta al superamento almeno parziale del parlamentarismo e alla riduzione della dialettica democratica, attraverso l’espressione parimenti ideologica detta “governabilità”.
Dunque, le riforme Boschi-Renzi sono l’esito temporaneo di un percorso mirante a modificare la Costituzione al fine di rafforzare il potere esecutivo e consentire a quest’ultimo di modificare più velocemente lo Stato secondo i dettami espressi dal mercato e dal capitalismo finanziario.
Mi riferisco a un percorso che:
– inizia col dibattito avviatosi durante la Prima Repubblica su “costituzione formale” e “costituzione materiale” (Mortati, Bobbio, Negri e altri);
– prosegue coi referendum di Mario Segni dei primi anni ’90, atti a far sì che l’Italia scimmiottasse il modello istituzionale americano;
– si sviluppa coi mai riusciti – ma reiterati – tentativi messi in atto da Berlusconi premier per modificare la Costituzione;
– trova terreno di sperimentazione nel tentativo di Massimo D’Alema noto come Bicamerale;
– trova assist nelle ripetute dichiarazioni rilasciate da Beppe Grillo, fra il 2007 e il 2010, riguardo alla necessità di superare l’attuale Carta;
– ha un momento di piena ed eversiva attuazione con le riforme agli Articoli 81, 117 e 119 realizzate dal Governo Monti;
– esprime uno dei momenti di massima pericolosità per l’ordinamento democratico, col tentativo di modifica dell’Articolo 148 progettato dal Governo Letta.
Dunque, molti fra coloro che sono schierati per il NO, trovano sia naturale difendere oggi la Costituzione da Renzi e, al contempo, avere appoggiato ieri le modifiche – parimenti all’insegna dell’ideologia mercatista – attuate o tentate dai vari Monti e Letta. Se ne evince che, se questi personaggi “di sinistra” dopodomani si ritrovassero al governo, porterebbero avanti ulteriori modifiche costituzionali all’insegna della “governabilità”, dunque riforme volte a potenziare in senso autoritario il potere esecutivo e, quindi, volte a ridimensionare la natura parlamentare della Repubblica.
A differenza che per le riforme del Governo Monti, le circostanze politiche oggi fanno sì che i cittadini possano esprimersi. Dunque voterò NO, così come avrei votato NO – se avessi potuto – a tutte le altre riforme e a tutti gli altri tentativi di riforma sopra elencati.
Quello che c’è in ballo col referendum, quindi, non è affatto una lotta fra Renzi e una “sinistra” che sarebbe pronta a inchinarsi, sin dal giorno dopo, al concetto-feticcio di governabilità.
No, la posta in gioco è invece la lotta fra popolazione italiana da una parte e poteri economici sovranazionali dall’altra. Più precisamente, la posta in gioco consta del far sì che sia imposta una battuta d’arresto a quel processo di modifica in senso liberista della Costituzione e della Repubblica che media, partiti e forze economiche hanno avviato da Tangentopoli in poi. Si tratta di riuscire, per la prima volta, a opporre un rifiuto a categorie ideologiche e de facto eversive come “fare le riforme” e “governabilità”.
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