L’eurozona non si cambia dall’interno: è progettata per produrre disuguaglianza
di VOCI DALL’ESTERO (intervista a Elias Ioakimoglou)
Riportiamo un ampio estratto di un’intervista dal sito americano di sinistra Jacobin. L’economista Ioakimoglou spiega come Syriza si è trasformata da salvatrice a boia del popolo greco, e come l’eurozona sia uno strumento di disuguaglianza sociale impossibile da “riformare”, perché costruito proprio a questo scopo. Nonostante i danni compiuti, ancora oggi la salvezza potrebbe arrivare dall’uscita da questa macchina infernale, mettendo in atto i giusti strumenti di tutela delle classi più colpite dalla crisi, grazie al recupero dei propri strumenti di politica economica, a partire dalla flessibilità del tasso di cambio.
Ormai, la storia della resa incondizionata di Syriza alle istituzioni creditrici europee è arcinota.
Syriza è arrivata al potere nel gennaio 2015 col mandato di resistere all’austerità. Al contrario, il partito ha ceduto alle pressioni della troika, e ha accettato misure di austerità più dure, distruggendo le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista con George Souvlis, l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a tormentare la Grecia più di un anno dopo. […]
Il Governo Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è rivelato assolutamente incapace di invertire l’austerità — al contrario, le politiche neoliberiste sono continuate e perfino intensificate. Aveva ragione il primo ministro Alexis Tsipras quando sosteneva che non c’è alternativa alla costante austerità in Grecia?
Non era compito di Tsipras decidere se ci fosse un’alternativa. Il referendum è avvenuto al momento cruciale dei negoziati, che dovevano decidere se proseguire con l’austerità – una via che aveva aumentato la disuguaglianza, distrutto il welfare e ridotto drammaticamente i salari e le pensioni mentre distruggeva le protezioni sociali.
La risposta del popolo greco è stata chiara quanto la domanda – il 61,5% ha votato contro l’austerità. Disponendo ora di analisi statistiche, sappiamo ormai che molti settori della società greca hanno votato “no” compatti: i lavoratori del settore “business”, i dipendenti pubblici, i lavoratori precari, i disoccupati, i giovani e i poveri. Tutte queste categorie sociali hanno votato “no” con percentuali tra l’80 e il 90%.
D’altro canto, le categorie sociali ad alto reddito – che possiedono capitali e ricchezza – hanno votato a grande maggioranza “sì”.
In breve, coloro che traevano beneficio dall’austerità e dalle riforme strutturali hanno votato “sì”, mentre coloro che ne subivano le conseguenze hanno votato “no”. C’è stata una divisione molto netta: la settimana prima del referendum è stata uno di quei momenti storici dove la scissione tra classi sociali era materialmente visibile, perfino ad occhio nudo.
Il blocco di classi sociali al potere è entrato nell’arena elettorale per difendere apertamente, senza alcun paravento ideologico, il proprio immediato interesse di classe – il “diritto” di vivere di rendita, di vivere sfruttando il lavoro altrui.
Questo blocco include i grandi capitalisti, i banchieri, gli industriali e gli azionisti, i dirigenti delle grandi aziende e delle grandi imprese finanziari, così come i proprietari di aziende più modeste che ora possono pagare stipendi dimezzati rispetto al 2010 grazie alla svalutazione interna e alle riforme del mercato del lavoro; le persone anziane che si affidano alla loro ricchezza accumulata. In questo gruppo ci sono anche i giornalisti della grande stampa, i burocrati di alto livello, coloro che vivono di rendita, e gli intellettuali e artisti neoliberisti.
La presenza di questo potente blocco sociale si è fatta parecchio sentire, non solo con dimostrazioni e alla TV ma anche sui posti di lavoro – gli impiegati sono stati spesso minacciati apertamente di poter perdere il lavoro se il “no” avesse prevalso.
Questa palese esibizione di interessi e forza bruta da parte dei capitalisti ha coagulato la formazione di un blocco sociale anti-austerità molto unito, composto dalla classe dei lavoratori, dei precari, e dei disoccupati – in pratica, i giovani e i poveri. […]
Questo blocco anti-austerità ha votato “no” nonostante tutte le minacce e prepotenze, sfidando il rischio di essere licenziati e gettati nella miseria di un paese espulso da un’ambiente economico ritenuto stabile e sicuro come l’eurozona.
Il compito di Tsipras era di seguire il volere della maggioranza, non di decidere se esistesse o no un’alternativa. Invece ha condotto il suo paese alla prigionia debitoria. Aveva promesso di vincere la battaglia all’austerità europea, ma ha dimostrato di non essere l’eroe, né della sua gente, né della sinistra europea. […]
A partire da luglio 2016, la classe dominata deve affrontare nuovi attacchi ai suoi redditi, proprietà, sicurezza, libertà e diritti sociali. Continua il vergognoso saccheggio. Ma questa volta è la stessa Syriza a organizzarlo ed eseguirlo. Le prospettive di lavorare a un’alternativa all’austerità, alla schiavitù del debito, alla svalutazione interna e alla catastrofe sociale non fanno più parte del programma di Syriza. […]
Qualcuno sostiene che la crisi economica greca sia un caso eccezionale, derivante dallo Stato greco clientelare. Quali sono le origini strutturali della crisi secondo lei?
A partire dal 1995, fino alle Olimpiadi del 2004, la Grecia ha vissuto un decennio di crescita e prosperità eccezionali.
Più di mezzo milione di Grecia, in gran parte donne, hanno trovato lavoro durante gli “anni d’oro” dell’economia greca. I flussi di capitali provenienti dalle nazioni risparmiatrici sono giunti in Grecia, dove i profitti erano più alti, spingendo la crescita del PIL, gli investimenti e l’occupazione.
Ma d’altronde (e in parte a causa di quanto sopra), il deficit commerciale di beni e servizi è drammaticamente aumentato a partire dal 1999.
Nell’euforia del momento, pochissimi ne erano preoccupati. Dopo tutto, la teoria che regge l’Unione Monetaria Europea (EMU) dice che i grandi deficit commerciali tendono semplicemente ad autocorreggersi, perché mettono in moto processi di aggiustamento guidati dal mercato ritenuti molto potenti.
Ma questi processi non sono avvenuti. L’esperienza greca mostra che i mercati da soli non compensano gli squilibri degli assetti istituzionali EMU – perlomeno non sempre.
Utilizzando gli strumenti dell’aggiustamento fiscale e della riforma strutturale del mercato di lavoro, la strategia della svalutazione interna provoca un cambiamento radicale nel rapporto di forze tra lavoratori e imprese, tra lavoro e capitale.
Di conseguenza, in Grecia è avvenuta un’enorme redistribuzione di redditi durante i 7 anni di svalutazione interna – tra il 2010 e il 2016, gli impiegati hanno perso circa il 40% del loro potere di acquisto, mentre il rapporto tra i profitti delle aziende e i salari andava ai massimi storici.
L’economia greca si trova in uno stato di recessione permanente dal 2010. Quali sono le cause del fenomeno e come le varie forze hanno tentato di correggerlo?
La depressione greca non è un incidente, né il semplice risultato di politiche sbagliate o idee errate. E’ il risultato di una strategia elaborata meticolosamente – ossia la svalutazione interna, una forma radicale di disinflazione competitiva.
La strategia della svalutazione interna è stata applicata ferocemente in Grecia per sette anni consecutivi. Secondo i proponenti, la strategia punta a migliorare la competitività e a trasformare la Grecia in una economia trainata dall’export in grado di ripagare i suoi debiti. Secondo questa teoria, la crescita del PIL e dell’occupazione sono naturali conseguenze dell’aver costruito con successo un’economia basata sull’export.
Per ottenere questi risultati, la strategia si concentra sul legame tra costi del lavoro e competitività: salari più bassi dovrebbero portare a prezzi inferiori e quindi a migliori risultati dell’export. Di conseguenza, gli interventi del governo sono stati orientati a rendere i salari più flessibili e i lavoratori più vulnerabili alla disoccupazione.
I leader politici hanno giustificato questa linea sostenendo che fosse nell’interesse generale.
Ma nel frattempo è avvenuta in Grecia un’enorme redistribuzione di redditi durante i 7 anni di svalutazione interna – tra il 2010 e il 2016, gli impiegati hanno perso circa il 40% del loro potere di acquisto, mentre il rapporto tra i profitti delle aziende e i salari andava ai massimi storici.
La ridistribuzione del reddito è stata accompagnata da politiche fiscali che hanno accollato il peso del debito sulla gente comune e, a partire da luglio 2016, da un processo di accumulo-tramite-pignoramento attraverso il trasferimento delle proprietà individuali dei debitori alle banche.
La combinazione di queste politiche è stata un sistema vergognoso di saccheggio mai visto finora in tempo di pace.
Val la pena sottolineare che la strategia della ridistribuzione del reddito dal lavoro al capitale ha fallito perfino i suoi obiettivi dichiarati – anziché rivitalizzare l’economia greca, ha avuto effetti devastanti sul PIL e sull’occupazione.
Anche se il termine “svalutazione interna” viene in genere inteso come una riduzione dei prezzi interni rispetto ai concorrenti esteri, in Grecia essa si è rivelata una metafora per mascherare una drammatica riduzione degli stipendi.
Possiamo quindi concludere che l’obiettivo della strategia della svalutazione competitiva è semplicemente questo: la svalutazione del lavoro stipendiato, la sua sottomissione al dispotismo del capitale, e la ridistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale. Ogni altro obiettivo dichiarato – migliorare la competitività e le performance dell’export, la crescita del PIL e dell’occupazione – sono solo ornamenti ideologici per rendere la strategia politicamente accettabile.
Ciò spiega perché gli economisti mainstream, la troika, i governi e la classe dominante non sono preoccupati dal fatto che il drammatico crollo del costo del lavoro non ha migliorato la competitività ma ha aumentato i margini di profitto.
E’ facile spiegare perché il processo di svalutazione interna porta alla depressione. La Grecia è un’economia trainata dai salari, e la brusca caduta del loro potere d’acquisto ha ridotto drasticamente i consumi, e quindi il PIL e l’occupazione, e infine l’utilizzo della capacità produttiva e gli investimenti, senza avere un effetto positivo apprezzabile sulle performance dell’export (perché i prezzi dell’export non seguono il costo del lavoro, ma i prezzi dei concorrenti).
Quindi, le svalutazioni interne portano automaticamente a depressione economica – disoccupazione di massa (25% totale, 50% per gli under 25); crollo degli investimenti; grosse perdite nella capacità produttiva; deprivazione materiale e povertà in aumento; obsolescenza delle infrastrutture; distruzione dei servizi sociali; debito pubblico in aumento; e un numero sempre maggiore di prestiti non rimborsabili.
La Depressione Greca è ormai nella storia perché più profonda e più lunga della Grande Depressione Americana degli anni ’30. […]
Cosa mi dice dell’uscita della Grecia dall’UE? Potrebbe ancora essere una soluzione?
Una Grexit sarebbe accompagnata da una svalutazione della nuova moneta, la nuova dracma. Ciò potrebbe avere effetti misti che dipendono dalle condizioni a contorno.
Nel momento in cui avvenisse tale svalutazione, ci dovrebbe essere una grande capacità produttiva inutilizzata del sistema per poter tramutare la domanda che si verrebbe a creare in un incremento dei volumi di prodotto. Altrimenti, la svalutazione incrementerebbe i prezzi e potrebbe forse portare a una svalutazione dei salari reali, a seconda della capacità dei lavoratori di difendere il proprio potere d’acquisto.
Nel 2013, la Grecia avrebbe potuto recuperare il 40% della produzione persa dal 2008, se il governo fosse uscito dall’eurozona e avesse applicato una politica brillante di svalutazione della moneta. Oggi invece potrebbe recuperare solo il 15% della produzione perduta, perché la capacità produttiva è stata distrutta di un ammontare tale da poterlo paragonare solo con la situazione dell’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale.
Una Grexit che avvenisse con le politiche in atto attualmente si tradurrebbe in un nuovo giro di svalutazione dei salari. Però, se il governo mettesse in atto le condizioni appropriate, in un contesto eterodosso di politiche economiche, la Grexit potrebbe essere parte di una soluzione di sinistra al problema greco.
L’Unione Europea può essere “cambiata dall’interno”, come sostiene l’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis?
E’ proprio questa idea – che l’eurozona ha un semplice problema, e quindi può essere sistemata aggiungendo qualche regola strutturale – che ha messo Syriza sul sentiero della disfatta nelle negoziazioni con la Troika.
L’eurozona non è difettosa – è stata concepita per produrre i risultati che vediamo. Qualsiasi squilibrio macroeconomico all’interno degli assetti istituzionali EMU deve essere corretto a spese dei redditi da lavoro, delle protezioni dell’occupazione, dei servizi sociali, attraverso riforme del mercato del lavoro e distruzione del welfare.
L’eurozona non è semplicemente un’area valutaria, è un regime di accumulo del capitale in cui certe tendenze prevalgono – inclusa la tendenza a rimuovere le protezioni sociali, a ridurre i salari, e ad abolire i diritti sociali e civili che stanno alla base della cittadinanza. Questi effetti sono congeniti nell’architettura e nel funzionamento dell’eurozona. E’ stata fatta così. Quindi, non può essere “sistemata”.
Molti commentatori sostengono che le attuali élite europee, specialmente tedesche, non hanno un piano per il futuro dell’Europa e, agendo irresponsabilmente, stanno compromettendo il progetto dell’Unione Europea. Lei crede che esista un piano a lungo termine nella loro mente o stanno solo agendo irrazionalmente?
Certo che hanno un piano per il futuro dell’Europa. Esso è già stato implementato, testato, e calibrato in Grecia, che è stata la cavia e ora diventa il paradigma.
Considerate le tattiche di Hollande e del Governo francese per contrastare il movimento francese che si oppone alla nuova legge sul lavoro – tattiche testate in Grecia durante le enormi e lunghe dimostrazioni del 2011-2012.
Tuttavia, nonostante le classi dominanti abbiano un piano per il futuro dell’Unione Europea, non hanno un piano per affrontare la crisi del neoliberismo. […]
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