Luciano Canfora: che cos’è la democrazia?

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8 risposte

  1. Eugenio Orso ha detto:

    Le definizioni di democrazia si sprecano, al punto che ci sono libri interi pieni di definizioni, diverse le une dalle altre (ad esempio, quello di Sartori, Democrazia e definizioni). Questa pluralità di sensi non aiuta a dare una chiara definizione di democrazia. Nell'ottocento, i democratici e i liberali erano cose ben diverse, ed in competizione politica, oggi, c'è la liberaldemocrazia che diventa regime imposto dal capitalismo.
    L'unica definizione accettabile (e dinamica) di democrazia l'ha data Costanzo Preve, per il quale la democrazia è il lungo, lunghissimo percorso storico che porterà il popolo al potere.
    Saluti
    Eugenio Orso 

  2. stefano.dandrea ha detto:

    Non so. Come definizione mi sembra molto vaga, essenzialmente una rinuncia. Preve ha detto molto di meglio su tanti argomenti. Canfora mi è sembrato chiaro e acuto. "Saranno cose già sertite e scritte sopra un muro un po' stantio"; ma ormai gli altri queste cose non le dicono. E poi la ricostruzione oggettiva della seconda guerra mondiale. La presa d'atto della dura legge di competizione degli stati. A me l'iontervistya è piaciuta.

  3. Lorenzo ha detto:

    Come tutti i grandi (cioè generici) concetti politici anche quello di democrazia è una vaga dizione che può essere declinata in mille modi diversi.
     
    Come dice Canfora in apertura la parola è un composto delle nozioni di popolo e di potere. A seconda di come si concepisce l’una e l’altra, e di come le si mette in rapporto fra loro, si addiviene ad accezioni diversissime se non contrapposte. Né la chiarezza viene facilitata dall’irresistibile tendenza di chi formula concetti aggregativi (morali, politici o giuridici) a voler convincere, e quindi a distorcerli allo scopo di farli apparire massimamente attraenti o ripugnanti.
     
    Qui si vede come la formula di Eugenio Orso – di cui pure stimo la polemica antiliberista – sia un semplice slogan per non dire una tautologia: il problema è appunto e soltanto cosa voglia dire popolo e cosa voglia dire potere.
     
    L’aspetto perspicuo della situazione odierna, echeggiato da Carl Schmitt già nel periodo fra le due guerre, consiste nella contrapposizione fra democrazia e liberalismo: il secondo, non più frenato dalla necessità di garantire benessere alle masse per contrastare l’Unione sovietica, ed elevato a potenza dalle nuove tecnologie mediatiche, sta distruggendo la prima (per quanto possa parlarsi di democrazia nell’ambito di una società di massa). O meglio, sta distruggendo la nozione stessa di società dotata d’interessi e d’un orizzonte di senso comune, e con questa la possibilità di una qualche mediazione di sapore democratico fra governanti e governati, com’è esistita fino agli anni ottanta.
     
    Devo infine esprimere la mia netta contrarietà all’ultima parte dell’intervista: il neoliberismo non prospera sulla miseria degli extracomunitari che ha esso stesso imposto sulle nostre spalle; proprio al contrario sta riducendo in miseria gli strati piccolo- e presto medioborghesi che costituivano il nerbo morale delle società occidentali. Sta falcidiando i diritti e le prospettive di vita dei lavoratori di ogni ceto. E quindi una sinistra legata ai suoi referenti tradizionali avrebbe avuto tutti i motivi per radicalizzare la propria contrapposizione nei confronti del progetto globalista e neoliberale.
     
    L’uscita di Canfora procede dalle sue simpatie nei confronti delle orde di disperati che bruttiscono le nostre città. Il tradimento della sinistra non deriva dal fatto che non è accorsa a tutelare i loro interessi, ma dal fatto che li ha tutelati, secondando in tutti i modi il progetto neoliberale d’impiantarli in loco per sabotare la forza contrattuale delle maestranze e il potere dei sindacati. La mobilità della popolazione e l'antirazzismo sono una delle armi principali del globalismo, quelle che hanno fornito alla (ex-) sinistra la foglia di fico per consumare il grande voltafaccia. 
     

    Dal che deriva che un serio movimento di opposizione allo sfacelo neoliberale dovrebbe contare fra i propri punti forti e di più immediata presa sulle masse l'opposizione militante al regime antirazzista. Ma questo è un altro discorso.
     
     

  4. stefano.dandrea ha detto:

    Lorenzo "opposizione militante al regime antirazzista" è espressione pericolosa, perché sembrerebbe proporre posizioni razziste o comunque si presta ad essere interpretata anche in questo senso. E non credo che tu abbia inteso la frase in questo significato.

    Il problema che segnali è l'esercito industriale di riserva, costituito dai lavoratori stranieri, voluto dalla classe imprenditoriale, per ragioni economiche, e dalla sinistra per ragioni umanitarie.

    In parte è vero, e credo che sia innegabile, che la deflazione salariale e la diminuzione dei redditi in certi settori commerciali nei quali operano gli stranieri sono dovute alla presenza di tantissimi cittadini stranieri.

    Tuttavia io non credo che la massiccia presenza degli stranieri sia la causa principale dell'impoverimento degli italiani. E' una causa; ma non è tra le principali.

    Euro; autonomia della banca centrale, prima italiana e poi europea, con tassi di interesse a lungo più elevati di quelli statunitensi e superiori alla crescita del pil, con conseguente aumento del debito pubblico nonostante frequentissimi avanzi primari ; promozione legislativa e mediatica dell'acquisto, anche e soprattutto a debito, di beni di consumo che non danno ricchezza; concorrenza degli stranieri che lavorano nella loro madrepatria con i nostri lavoratori, subita per l'impossibilità di ricorrere a una opportuna e necessaria protezione delle imprese e del lavoro degli italiani. In linea di principio, la scelta di stare nell'unione europea, con rinuncia ad ogni possibilità di politica industriale, ecc.ecc..

    Certo, se tutto questo deve ormai essere considerato come un dato, allora assurge a primaria importanza il problema dell'esercito industriale di riserva. Tuttavia, se si comprendono le potenzialità che avremmo se ci sottraessimo all'autonomia della BCE e alla BCE (con ritorno alla banca d'Italia non autonoma); se potessimo tornare ad applicare politiche industriali, investendo, con aiuti di stato, in settori strategici e proteggendone altri da concorrenza straniera insostenibile (non sleale; semplicemente insostenibile), e se potessimo svalutare, a costo di un po' di inflazione, senza essere costretti alla deflazione salariale, il problema dei lavoratori stranieri che vivono in italia sarebbe un problema economico di modeste dimensioni.

    Perciò, non credo che un punto forte di un programma rivoluzionario sia l'opposizione alle politiche di immigrazione fino ad ora applicate. Tuttavia, concordo con te che quella parte dell'Intervista di Canfora è la più debole, perché mediamente, oggi, il senso di frustrazione, di insicurezza, di paura e l'impoverimento oggettivo sono più diffusi in larghe fasce della popolazione italiana che non nei lavoratori stranieri che vivono in Italia. Se si sceglie un punto di vista relativo, che tenga conto delle aspettative e della condizione che gli stranieri e ampie fasce di lavoratori italiani avevano dieci anni fa, allora ci si accorge che stanno molto peggio gli italiani; che sono gli italiani a soffrire; che sono gli italiani ad indietreggiare.

    Aggiungo che pur non essendo mai stato fautore del multiculturalismo (ma non lo ho mai nemmeno avversato) e avendo sempre cercato di interrogarmi con distacco su questi giganteschi fenomeni, la mia esperienza di rapporti con i lavoratori stranieri è complessivamente eccellente. Forse è stato un caso, ma è eccellente. Persino i migliori studenti universitari nella mia università di provincia sono stranieri.

    Piuttosto mi chiedo – e questo è davvero un problema – come è possibile che a nessun precario (magari di quelli che consegnano le pizze da asporto per un euro a viaggio, più mance e meno spese) venga in mente di andare a lavorare la terra, eventualmente allontanandosi dal luogo di residenza? Nei luoghi in cui sono nato, ci sono migliaia di lavoratori stranieri impiegati in agricoltura. Guadagnano 35 euro al giorno, più i contributi. E, se vogliono, possono lavorare sempre (anche il sabato e la domenica). Lavorano sei mesi (il fucino è fertile ma il clima è quello che è). Poi prendono "la disoccupazione" che raggiunge quasi quattro stipendi e, secondo una pratica utilizzata per decenni dai braccianti marsicani, e credo da moltissimi lavoratori del comparto agricolo in Italia, fanno altri lavori in nero (mentre prendono "la disoccupazione"). Inutile dire che i più furbi imparano anche un mestiere nobile.

  5. Lorenzo ha detto:

    Stefano, il concetto di razzismo è uno di quelli enfiati polemicamente fino a fargli perdere ogni determinatezza. Lo si può intendere in chiave cognitiva o etico-politica, nel suo significato originario o allargato. A seconda dell’accezione considerata io sono razzista per convinzione, per esasperazione nei confronti delle ideologie dominanti o non sono razzista affatto.
     
    Rispondo comunque al tuo intervento, in cui più che di razzismo si parla del problema dell’esercito industriale di riserva. Concordo che l’introduzione di orde di disperati sia solo uno degli strumenti del globalismo, ma devi concedermi che è uno dei principali, per importanza e ancor più per invasività.
     
    Anzitutto per una questione di simmetria concettuale: la mobilità della forza lavoro è la controparte speculare della mobilità del capitale. E il pregiudizio antirazzista (nella sua accezione allargata) è il cardine propagandistico creato per agevolarla: il razzismo non ha niente a che vedere coll’avversione nei confronti degli allogeni, alcuni dei quali di razza bianca o addirittura nordica; ma avendo precedentemente mitologizzato il razzismo in marchio d’infamia si è scelto di allargarne il concetto per criminalizzare ogni forma di opposizione all’invasione extracomunitaria.
     
    Poi perché tale manovra ha fornito alla (ex-) sinistra la foglia di fico ideologica per consumare il grande voltafaccia, consentendole di presentare l’appoggio al mondialismo come impegno ‘antirazzista’ anziché come asservimento ai poteri forti. Ogni cedimento sui diritti reali (cioè sociali ed economici) dei lavoratori è stato imboscato da una petizione di principio sui diritti immaginari (cioè: civili e morali) delle minoranze.
     
    Ancora perché la presenza degl’immigrati ha fatto esplodere la piccola e media criminalità e peggiorato drammaticamente le condizioni di vita degl’italiani che si ritrovano a vivere nei quartieri-ghetto. Tale situazione avrebbe da gran tempo causato rivolte senza il quotidiano ottundimento dei media di regime. L’insofferenza verso la presenza extracomunitaria, soprattutto nelle grandi città, è sempre più netta e costituisce una leva efficacissima per mobilitare le masse contro il sistema. La cosa non dovrebbe, mi sembra, essere indifferente ai rivoluzionari.
     
    Taccio qui sulla bruttura umana ed estetica del progetto globalista d’imbastardimento generale, e di quanto questo dovrebbe ripugnare a chi si proponga di ricostruire un senso di identità e di patria (quindi: di specificità) condivisa.
     
    Non condivido infine il tuo accenno agl’italiani che non vogliono fare i lavori agricoli. Premetto che ne so poco e potrei dire sciocchezze. Ma 35 euro sono un’inezia per otto ore di lavoro massacrante nei campi (4, 3 euro all’ora!!!). In più ci saranno pure contributi e disoccupazione, ma solo per gli assunti in via regolare, e dubito che siano la maggioranza. Consegnando pizze si prendono spesso non 1, ma 10 euro a sera (almeno qui al nord), che colle mance arrivano facilmente a 20 o 30 per tre ore di lavoro, senza doversi spaccare la schiena e senza l’umiliazione di confondersi cogli extracomunitari. La verità è che senza di loro il lavoro nei campi costerebbe almeno il doppio, il che renderebbe non competitiva l’agricoltura italiana sui mercati globalizzati: dal che si vede come l’esercito industriale di riserva sia parte integrante e indispensabile del progetto globalista.

  6. Eugenio Orso ha detto:

    Cos'è il popolo e cos'è il potere?
    Ci sono tre definizioni di popolo, che risalgono al mondo culturale degli Elleni: Laos, il popolo prepolitico, Demos, il popolo organizzato in circoscrizioni elettorali e Ethnos, l'etnia, il popolo unito dall'importante elemento linguistico.
    Per quanto riguarda il potere, nel mondo degli Elleni Cratos era una figura mitologica che simboleggiava la potenza, ma il potere è ambivalente perché non significa soltanto coercizione, cioè far fare agli altri ciò che altrimenti non farebbero, ma anche mantenere la propria autonomia e libertà facendo fronte a minacce esterne. Il potere è dunque sia coercizione sia difesa della propria autonomia e della propria libertà.
    Alla luce delle definizioni date, democrazia potrebbe significare il percorso del Demos (del popolo organizzato politicamente, e non di quello "grezzo" e prepolitico) che lo porta alla consapevolezza della propria forza sia in chiave coercitiva sia in chiave di difesa della propria autonomia e libertà, quindi al potere, come sopra definito.
     
     
     

  7. stefano.dandrea ha detto:

    Eugenio, ho cercato invano ieri sera  di inviarti una email; ma l'invio è sempre fallito. Hai per caso un'altro indirizzo di posta elettronica che puoi comunicarmi a appelloalpopolo chiocciola gimail punto com?

  8. Lorenzo ha detto:

    Eugenio, ancora non hai definito cosa sia il popolo. Ad es. il concetto ateniese di popolo come collettività dei cittadini maschi liberi discendenti biologicamente dalle tribù fondatrici (sì che il popolo votante ammontava al 10-15% della popolazione residente) ti starebbe bene?
     
    E cosa accade se il 'popolo' si divide sul cammino da compiere? Si vota a maggioranza? Ammettiamo che il 95% del popolo decida di esiliare o sterminare il rimanente 5% per motivi razziali e religiosi: come gestiresti la situazione alla luce della tua idea di democrazia?
     
    Il 'popolo', come ogni soggetto collettivo, è un'entità fittizia: un costrutto intellettuale. E come tale risponde ai parametri che noi stessi gli attribuiamo.

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