Francesco Lomonaco, Al cittadino Carnot
“Popolo futuro! Se noi travagliamo in seminare nel campo della felicità, tu, profittando de’ nostri sudori, ne riporterai un’ampia messe; se noi ci troviamo in mezzo alle spine della libertà, tu gusterai la soave gioia di coglierne le rose nel giardino della morale, del costume e della virtù. Addio” (Francesco Lomonaco, Al cittadino Carnot, 1800).
AL CITTADINO CARNOT
MINISTRO DELLA GUERRA
FRANCESCO LOMONACO,
PATRIOTA NAPOLETANO RIFUGGITO
Cittadino Ministro!
Voi avete mostrato del dispiacere di non essere a giorno degli avvenimenti che ebbero luogo in Napoli dopo la partenza delle truppe francesi, e d’ignorare chi fu principalmente il perfido, il quale, dando gli ultimi colpi all’edificio eretto dal prode Championnet, scavò la tomba della libertà napoletana. Un tenente d’infanteria, il cittadino Bocquet, penetrato di patriotismo, ha fatto un ampio quadro di tali vicende, ed ha denunciato il colpevole, che facendo alleanza colla perfidia degl’inglesi, ardì di mettere a traffico col loro metallo la più bella delle cause, di esporre l’esistenza di un immenso numero di repubblicani al pugnale della tirannia, di far succedere le scene patetiche, che han rivoltato l’umanità e la natura, di denigrare il nome e la gloria della grande nazione francese.
Il colpevole è appunto il cittadino Méjan o, per meglio dice, Méchant, il quale si dice essere stato educato nella scuola dei Foissac-Latour. Questi è quel Méjan, il quale, colmo di ignominia e di obbrobri, invece d’interdirsi volontariamente dal seno delle società umane, osa calpestare ancora la terra sacra; osa, di più, comparire innanzi all’areopago, che gli deve fulminare la sentenza di morte per ispargere le ombre della più nera calunnia sull’orizzonte della verità. Ma invano, malvagio, invano ti sforzi di cangiare il delitto in virtù, la corruzione in magnanimità, le maledizioni di un intero popolo in voce de’ tuoi privati affetti!…
L’apologia di Méjan, che ha per oggetto di dare all’accusa di Bocquet il colorito della calunnia, è rimasta senza risposta. Sicché io, armato del santo zelo della verità, imprendo a dimostrare la falsità delle sue asserzioni. Non crediate, cittadino Ministro, che nella breve storia de’ fatti, de’ quali farò l’analisi, io voglia improntare i fiori dell’eloquenza. Non farò altri sforzi che quelli di mettere in prospettiva, con franchezza e con coraggio, i reali e principali anelli della catena degli avvenimenti;
e mi protesto innanzi al cielo ed alla terra che, conservando il posto di repubblicano, non mi avvilirò a profferire la menoma menzogna. E’ la lingua di Catilina traditore quella che vacilla e palpita innanzi al senato; ma Cicerone, agguerrito degli augusti sentimenti de’ quali è infiammato, è chiaro ed ardito nell’esporre le trame dell’empio parricida. Si scusa in sulle prime Méjan di non aver potuto dare aiuto ai patrioti napolitani, quando lottavano cogl’insorgenti, per essergli di ostacolo le istruzioni di Macdonald, che lo avea, secondo egli dice, incaricato della semplice e sola difesa del forte Sant’Elmo. Io non cerco di penetrare i segreti di Macdonald.
So solamente che, quando questo generale partì di Napoli, assicurò il governo che la repubblica restava sicura sotto la salvaguardia de’ francesi. Abrial tenne lo stesso linguaggio; anzi soggiunse che, nel caso di un rovescio, i francesi avrebbero trasportati sulle loro spalle i repubblicani. Queste parole enfatiche confermarono vie più tutti nella certa idea che, nel dilu vio delle calamità, l’arca della salute era affidata a Méjan.
Ma si ammettano in suo favore le intenzioni di Macdonald; io gli ricordo ch’egli trasgredì una volta le pretese istruzioni, quando, per mettere un pugno di francesi alla testa de’ patrioti che andavano a spargere il sangue per la salute della patria, volle in prezzo del beneficio la somma di quattordicimila ducati.
Perché non s’interessò per lo appresso a porgere la benefica mano ai repubblicani, precisamente allorché gl’insorgenti minacciavano le porte della capitale? La soluzione del problema è chiara. Non era la forza imponente del nemico quella che facea paura a Méjan.
Questa era la spossatezza della repubblica, la quale, ristretta nel recinto delle mura della capitale, essendo ridotta all’orlo della miseria, non potea prestare nuovi alimenti all’ingordigia del piccolo Verre.
Quale fu dunque l’origine della di lui criminosa apatia? Fu il superstizioso scrupolo di eseguire i comandi del generale Macdonald, o pure fu la mancanza dell’oro, che non poté spegnere la sua sete inestinguibile?… Si scusa, di più, di non aver ben munito il forte Sant’Elmo, perché i governanti, i quali mancavano di energia, si erano opposti alle sue misure.
Infame Clodio! osi calunniare i fondatori della libertà, i difensori de’ diritti del popolo! Vivi, non hai voluto proteggerli; morti vuoi insultarli!… Vile insetto dell’aristocrazia! cessa di mordere quei cadaveri, che la stessa mano profana del dispotismo non ha il potere di turbare nel santuario dell’immortalità.
Come! Gli eroi che si erano gettati nel fuoco della rivoluzione in mezzo a’ trasporti della gioia la più sensibile; quei che, sacrificando i loro più cari interessi privati, non si occupavano che della patria; non respiravano che per la patria; quei che negli ultimi momenti della loro esistenza non si dimenticarono, sotto la scure de’ carnefici, di essere i Timoleoni e i Trasibuli di Napoli, erano uomini freddi e senza energia!
Come si può mai concepire che, trascurando eglino la causa pubblica, volessero a bella posta procurare il martirio di loro stessi, la distruzione delle loro case, l’esterminio delle loro famiglie, la perdita di tutto ciò ch’è più caro a’ mortali? …
Quale logica, eccetto che l’enormità del tuo delitto, può mai farti così stranamente combinare le idee? Vedremo fra poco quale fu l’energia che tu spiegasti, quando si approssimò l’occasione in cui dovevi fare il proprio dovere. Vedremo come eseguisti le istruzioni di Macdonald.
Ma, dato che le autorità costituite, immerse nel più profondo letargo, non fossero concorse a munire, come conveniva, il forte; conceduta la bizzaria di questa ipotesi, che non può entrare nella linea de’ fenomeni umani, Méjan non potea destare il governo dal letargo, in seno di cui era seppellito?
Non poteva, armata manu , provvedersi di un numero maggiore di cannoni, di òbizzi, di mortai, ecc., e rendere così Sant’Elmo un baluardo inespugnabile di difesa? Ma quali dati, qual’ipotesi io cerco ammettere! Chi non vede i miserabili sotterfugii, i ripieghi della perfidia?…
Se si volesse credere all’amico di Foissac, bisognerebbe rinunciare a tutte le regole della critica, opporsi al buon senso, dare una direzione diametralmente opposta al pendìo del cuore umano, insomma bisognerebbe rovesciare il mondo morale, ed entrare nel caos dell’inverisimile.
Ma Méjan era necessitato di ricorrere a questi ripieghi, altrimenti non potea spiegare l’intero piano della sua condotta. Infatti, allorché i venti del regalismo, soffiando alle gole di Napoli, minacciavano il naufragio del vascello repubblicano;
allorché il sacrilego cardinal Ruffo, accerchiato dalle orde selvagge della tirannia e colle fiaccole accese della religione, dopo aver portato il ferro e il fuoco, la devastazione e l’eccidio ne’ dipartimenti a nome di un Dio di pace, dopo di avere Ferdinando, dietro i successi degli alleati in Italia e della partenza di Macdonald, riorganizzò quegli stessi assassini, quegli scellerati che aveano già gustato il piacere dell’anarchia, aggiungendo a’ medesimi un gran numero di galeotti concentrati in Sicilia, che fece sbarcare in diversi luoghi del continente napoletano.
Destinò generale in capo di quell’armata cattolica e regale il cardinal Fabrizio Ruffo, il quale, secondo lo stesso suo promotore Pio VI, non era stato mai né canonista, né dottore, e avea prostituita la porpora nella Corte e nel serraglio di S. Leucio.
Si assegnarono al porporato per luogotenenti generali Pronio, Sciarpa e fra Diavolo: il primo, fuorgiudicato e adorno delI’insigne ordine del guidatico, il secondo, birro dell’udienza di Salerno, il terzo scorridor di campagna, mostro che facea pompa di una tazza, ov’era solito di abbeverarsi di sangue umano.
Adescate dal saccheggio, si arrolarono sotto l’infame vessillo orribili ciurme. Sbarcò dunque Ruffo nelle coste della Calabria Ulteriore alla testa di un piccolo numero di siciliani. Ivi, con proclami del re, colle promesse del paradiso e con altri mezzi che suggeriscono l’ambizione e l’ipocrisia, fece una gran quantità di proseliti, i quali erano ben assoldati e promossi agli impieghi.
Per meglio riuscire nelle sue misure si proclamò papa, dando così maggior credito alle indulgenze, le quali spargeva a larga mano.
Benché quel dipartimemo stava molto scontento del nuovo sistema, giacché i governanti imprudentemente aveano loro fatto l’invito di soddisfare le contribuzioni attrassate e di disporsi a sopportarne un maggior peso per l’avvenire, pure Monteleone, Cotrone, Catanzaro ed altre città si opposero alle misure del cardinale, e fecero per lungo tempo una valida difesa.
Non poterono però sostenersi, giacché non avevano mezzi opportuni. Mancando loro fra le altre cose l’artiglieria e la truppa regolare, cedettero alla preponderanza delle forze nemiche.
Malgrado che fosse stata promessa l’indulgenza in forza delle capitolazioni, pure non si risparmiò alcun partigiano della gran causa. Il saccheggio e la morte portarono il lutto e la desolazione dentro le mura delle case repubblicane.
Quei che scamparono i furori del pio prelato, essendosi dati alla fuga, furono colpiti di anatemi e della pena del taglione, furono dichiarati nemici di Dio e dello Stato; e chiunque li sterminava, era colmato di doni, ed aveva innalzate innumerevoli ecatombi nelle Calabrie, nella Puglia, nella Campania; un brevetto di santo. Cotesta crociata quali effetti non dovea produrre presso un popolo infangato ne’ pregiudizi?
Presso un popolo che allora, guardando per la prima volta la luce raggiosa della libertà, ne restava abbagliato, senza rischiararsi su’ futuri vantaggi? Ruffo, riuscito a rendersi padrone di tutta la Calabria Ulteriore, penetrò nell’altra, seguendo le stesse misure, cioè portando la croce in una mano e il pugnale nell’altra.
Ciò non ostante, gli abitanti sostennero i loro diritti col massimo coraggio: si vide un gran numero di patrioti battersi in campagna aperta contro gl’insorgenti; si videro i figli venire a tenzone co’ loro padri nel conflitto delle opinioni che li dividevano.
Non si sapeva se dovevano essere più care le affezioni della natura o le voci e gl’interessi della patria. Roma vantava i suoi Bruti e i suoi Manli, e Napoli nella culla della libertà vanta maggiori eroi. Il furore di Ruffo aumentava in proporzione de’ successi, mentre veniva irritato dagli ostacoli.
Quei paesi che presentarono uno scoglio alla irruzione furono soggettati al saccheggio. Paola, Rossano, Cosenza ed altre città principali divennero preda delle fiamme, per aver mostrato un attaccamento deciso alla repubblica, senza farsi quartiere a’ patrioti, di qualunque età e sesso si fossero.
Tra le altre famiglie, quelle di Labonia e Grisolia furono più disgraziate delle altre, giacché dal 1794 i loro individui erano stati il bersaglio della corte per motivo delle nuove opinioni. Così gl’insorgenti invasero anche la Calabria Citeriore. Il piano di Ruffo doveva essere sconcertato se la previdenza de’ francesi fosse occorsa a tempo proprio.
Tardi si pensò alla spedizione delle Calabrie.
Un pugno di patrioti, sotto il comando di Schipani, fu destinato ad andare a combattere le coorti del nuovo Pietro l’Eremita. Disgraziatamente Schipani si trovava alla testa di una legione composta di soli patrioti, i quali erano poco avvezzi al mestiere delle armi e sforniti di disciplina militare.
Ciò non ostante, eglino in diversi combattimenti risultarono vittoriosi; ma soggiacquero a delle perdite, le quali furono fatali alla picciolezza del loro numero. Si dové passare il ponte di Campestrino, dove si annidava Sciarpa, condottiere di molti assassini di campagna, muniti di cannoni e di altre armi. Il passo era difficile; sicché Schipani vi restò inviluppato.
I briganti, avendo riportata la vittoria nell’attacco, si resero così audaci, che, malgrado gli ulteriori tentativi, non abbandonarono mai il posto, anche perché Torrusio, vescovo di Capaccio, fomentò la rivolta ne’ vicini paesi colle minacce della superstizione.
Sicché la strada tra il Principato Citeriore e le Calabrie restò ostrutta, e Sciarpa ebbe un campo aperto ad infestare tutte le vicine comuni, le quali erano fedeli al nuovo governo. Picerno, Balvano, Avigliano furono desolate, malgrado l’eroica energia de’ loro abitanti.
In uno degli attacchi morirono, fra tanti altri bravi i fratelli Vaccaro, giovani incomparabili per le loro qualità morali e per la sublimità de’ talenti. Cotesti awenimenti diedero luogo a Ruffo di fare una irruzione nella Puglia, dove fu soccorso da’ russi, i quali sbarcarono sulle spiagge dell’Adriatico.
Allora l’audacia de’ nemici crébbe, il terrorismo pesò con più forza su quella provincia, le concussioni furono eccessive e le forche vennero innalzate in tutte le città accanto alla croce. Bari, Barletta, Foggia, Cirignola furono principalmente l’oggetto dello sdegno e delle crudeltà de’ regalisti, e soffersero danni incalcolabili.
Intanto Gravina ed Altamura si accinsero a combattere le orde della tirannia. Il combattimento fu ostinato per più giorni, e la vittoria si mostrava amica de’ repubblicani; giacché gli abitanti di coteste due comuni si batterono in massa sino all’ultima goccia di sangue, impiegarono le private sostanze a profitto della patria, e non risparmiarono alcun mezzo umano onde trionfare delle forze liberticide, eglino in ultimo, vedendosi privi di mitraglia, misero anche la moneta di rame e di argento ne’ cannoni.
Ma le forze de’ patrioti a fronte di quelle di Ruffo essendo infinitesimali, produssero la caduta delle due città. Ecco il rovescio di tutta la Puglia. Quelli che sanno l’indole del fanatismo, e del fanatismo sdegnato, possono figurarsi quali furono le triste vicende di quelle due città, quale fu la miserabile condizione di quelle due benemerite popolazioni.
Non ci sono colori, non ci è pennello che possa descrivere le tirannie che ivi si esercitarono. Anche i monasteri delle monache vennero incendiati, ed altro non vi restò che pietra sopra pietra…
Il governo, prevedendo sì fatta catastrofe, avea destinata una spedizione. Ma essendovi insorta una briga riguardo al comando tra Federici, Francesco Pignatelli e Matera, non solo non si andò innanzi ma si rinculò; ed i nemici si avanzarono, fecero rapidi progressi e consumarono tutto sotto i loro passi incendiari.
Allora l’oscillazione contro-rivoluzionaria fu più forte e più estesa. Schipani e Muscari combatterono come leoni alla testa delle loro colonne nella Torre dell’Annunziata; ma inutilmente, giacché le loro falangi erano poco numerose. Sicché Ruffo penetrò sino alle porte di Napoli, non abbandonando mai il sistema di distruzione. Il numero de’ disgraziati, che in quell’epoca furono divorati dalla rabbia degli insorgenti è incalcolabile; come lo è eziandio quello degli altri infelici, che per lo appresso sono stati sacrificati ne’ dipartimenti dalla ferocia degl’inquisitori di Stato.
Dopo di aver commesse le scelleraggini, che sono sconosciute anche da’ cannibali, ne’ luoghi i quali percorse; dopo di averli convertiti in vasti cimiteri; allorché questo boia inviato dal paradiso affrontò nelle pianure del ponte della Maddalena i patrioti, che non erano allora molto inferiori in numero, Méjan poteva mandare in soccorso loro almeno un pugno di francesi.
Ma qual soccorso! Egli divenne inesorabile alle istanze le più vive, alle premure le più calde del governo. Di già le sue mani, imbrattate del lucido fango degl’inglesi, di già si disponevano ad ergere il trono sulla bara funebre ed insanguinata della repubblica… Truce idea! amara rimembranza!
Nell’attacco essendo stati respinti i patrioti, i quali allora davano i primi passi nella carriera delle armi, i nemici ebbero campo ad entrare nella città, ed occupare i forti del Carmine, di Pizzofalcone, di Posilipo.
Sicché la plebaglia, per ordine dell’esecrabile Ruffo, si diede in preda al saccheggio, alle rapine, ed a tutti gli eccessi dell’anarchia. Non si risparmiarono neppure le case de’ regalisti i più forsennati.
Tante sciagurate famiglie, ridotte all’orlo della disperazione, non trovarono ricovero che nelle grotte, nelle caverne e nelle stalle, in mezzo al letame. Molti volontariamente si diedero la morte per isfuggire il flagello. Si videro i padri ammazzare i figli, per non conservare loro un’esistenza penosa e miserabile. Altri si gettò nel mare, volendo divenire piuttosto preda de’pesci, che de’ carnivori satelliti di Carolina.
Ciò non fu tutto: la vita d’ogni onesto cittadino venne minacciata dalla spada dell’insurrezione.
Mentre gli abitanti delle coste marittime, senza eccezione d’età, divenivano olocausti della ferocia inglese armata di tutti i suoi furori; mentre ad Ischia, a Procida, a Sorrento i repubblicani erano mutilati dal ferro liberticida o vivi venivano buttati nelle onde del mare; ne’ luoghi mediterranei il nemico di una spia o di un “crocesignato”, un possessore, di qualunque partito si fosse, in mezzo alle battiture, alle ferite, agl’insulti, era menato in giudizio, dove gli oltraggi si moltiplicavano, e dove il decreto di morte gli s’intonava in ogni istante.
Ad un repubblicano conosciuto si strappava il cuore, le unghie, gli si cavavano gli occhi, gli si mutilavano le altre membra, e così a poco a poco gli si toglieva l’esistenza.
Quelli che erano meno a giorno nella sfera delle loro opinioni, erano spogliati ed esposti agli strazi i più ignominiosi, semivivi venivano strascinati per i luoghi i più cospicui della capitale, e poscia confinati nelle fetide carceri, dove perivano senza punto scuotere le anime, che avevano impietrito il dolce sentimento della pietà.
Che orrore!… che barbarie!…
Così le strade delle città, e massime quelle di Napoli, comparivano un letto di cadaveri, in cui si vedeva il figliuolo cadere esangue a’ piedi del genitore, la moglie prima violentata spirare tra le braccia del marito, l’amico in mezzo alle angosce della morte dare gli ultimi amplessi all’amico…; e, nella mischia spaventevole de’ sicari e delle vittime infelici accatastate, non si sentiva altro che Fremiti di furor, mormorii d’ira.
Gemiti di chi langue e di chi spira.
Allora Méjan poteva scagliare i fulmini della vendetta nazionale dalla cima di una rocca, la quale domina Napoli; poteva, senza essere offeso, ridurre in un mucchio di ceneri quelli posti che stavano sotto il tiro del cannone di Sant’Elmo.
Se Méjan soccorreva allora i repubblicani, la causa della nostra libertà sarebbe stata guadagnata. Bastava il solo nome francese a spargere il terrore nella vile anima del ladro insorgente.
Al semplice suono della tromba repubblicana, il nemico si sarebbe certamente dato alla fuga.
Altronde, i patrioti, mossi dalle molle della bravura del soldato francese, si sarebbero viepiù incoraggiati, e l’ostinatezza del coraggio sostenuto dal numero avrebbe fissata la vittoria sotto la bandiera tricolore.
Né si dovea temere delle province, giacché vi erano penetrate le leggi dell’abolizione de’ fendi, del testatico, delle gabelle, ecc., leggi che Macdonald, non si sa per qual politica, avea prima proibito di promulgare.
Per queste sagge ma tarde disposizioni, tutti quei popoli che l’idra feudale a cento teste divorava, cantavano inni di gloria e colmavano di benedizioni il nuovo governo.
Se dunque in quell’epoca opportuna si fossero riportati i sospirati trofei, tutte le anime sarebbero state elettrizzate dal genio della libertà, e l’impero della repubblica si sarebbe fondato.
Ma Méjan, assiso sul letto delle delizie e delle rapine, offuscato da’ profumi del vino e de’ cibi i più deliziosi, Méjan guardava col riso dell’impudenza i roghi su’ quali fumavano le palpitanti membra de’ difensori della patria. Mejan, allo stridore delle ossa degli incalcolabili martiri, a’ lamenti ed a’ singhiozzi delle loro famiglie, avea del tutto otturate le orecchie.
Méjan non era affatto commosso all’aspetto tragico delle lagrime e del sangue che aveva allagate le strade della città…
La di lui anima di ferro non era alterata dallo spettacolo delle crudeltà rivoltanti, e de’ tratti di barbarie, che il feroce nemico esercitava sulle mogli, sulle sorelle, sulle figlie de’ partigiani della gran causa.
Questo mostro mi sembra Nerone, il quale, alla vista dell’incendio di Roma, suonava la cetra. Oh cielo, oh dei! a che soffrir quest’empii Fulminar poi le torri, e i sacri tempii?
Conveniva però buttare un po’ di polvere agli occhi degli officiali probi, per nascondere la sua perfidia. La virtù ama la schiettezza, ma la perversità vuole improntare la maschera per non manifestare le sue bruttezze.
Prima che Sant’Elmo fosse attaccato, spesso spesso Méjan facea discendere (troppo tardi se n’era accorto), contro gli ordini di Macdonald, alcune numerose pattuglie nel cuore della città, sicché quei soldati i quali, in circostanze meno critiche, a tempo proprio, potevano consacrarsi alla difesa della libertà, mentre le forze nemiche si eranraddoppiate, erano costretti dal loro capo a discendere nell’arena. Quale dovea essere il risultato?
La morte de’ francesi ed il discapito della guarnigione.
Ma questi sacrifici, questi macelli di carne umana sono calcolati da Méjan, com’era calcolato il massacro di tante migliaia di uomini, che l’infamia di Scherer immolava alla ferocia delle tigri settentrionali dirette da Suwarow.
Consideriamo la tragedia da un altro lato. I patrioti, per non essere interamente inghiottiti dalla voragine, non potendo più sostenere la patria agonizzante, che già dava l’ultimo sospiro, si rinchiusero insieme co’ rappresentanti ne’ castelli Nuovo e dell’Ovo.
Ogni individuo mise allora la sua fiducia ne’ soliti miracoli che opera la libertà. Chi non si sovvenne in quell’istante de’ greci alle Termopili, de’ romani al Campidoglio, degli abitanti della Carolina al forte di Wilson?
Durante lo spazio di molti giorni essi operarono prodigi di valore, che gettarono lo spavento negli animi de’ turchi, de’ russi, de’ siciliani e degl’insorgenti; in maniera che costoro non si azzardarono ad assalire i deboli asili del patriotismo.
Al fuoco perenne dell’artiglieria che agiva di giorno, si aggiungevano le sortite notturne de’ patrioti. Ma, accortisi di un fermento del popolo fanatizzato, assicurati dall’avvicinamento di una flotta inglese e ridotti all’estremo delle munizioni, essi deliberarono di intavolare una capitolazione onorevole.
Si stipulò dunque il trattato esotto la garanzia di Méjan. I generali de’ despoti coalizzati lo sottoscrissero; e, per la pronta e fedele esecuzione, si diedero nelle di lui mani cinque ostaggi.
Allora fu che, secondo il principale articolo della negoziazione, nell’alternativa o di restare impunemente ne’ propri focolai o pure di essere gettati nudi e miseri sulle coste di Francia, ognuno, resistendo alle tenerezze della sposa, ai gemiti ed ai singhiozzi del fratello, del genitore, del figlio, alle attrattive de’ beni di fortuna, ognuno fece la ferma risoluzione di non vedere il funerale della repubblica, e gettarsi piuttosto in un oceano di calamità, di miserie e di pene, deliberando di ritornare a tempo opportuno a sottrarre da’ ceppi l’incatenata patria…
Ecco i Pelopidi, che la sfrontatezza di Méjan accusa di cicisbeatura e d’imbecillità.
La stessa perfidia condanna all’obblio quei prodi del forte di Viglieno, i quali, sopraffatti dal torrente delle forze nemiche, diedero fuoco alla polvere, contenti piuttosto di essere divorati dalle fiamme, e restar seppelliti sotto le rovine della patria, che cadere nelle mani della schiavitù.
Fra le tante altre sono degne di essere nominate la madre de’ fratelli Serra, la madre e la sorella di Ettore Carafa, la cittadina Laurent Prota, mia grande amica, la Sanfelice, la Fasulo, ecc. rispetto del genere umano, e l’ammirazione de’ secoli, se ai vostri tempi si fosse trovato un Méjan, egli non vi avrebbe coverti di disprezzo, come i bravi di Viglieno, vostri emuli?
In vigore del trattato, i repubblicani furono menati sulle polacche; ma, invece di mettersi alla vela, restarono inchiodati nella rada di Napoli. E si vide il fenomeno, che una immensità di persone, in maggior parte ignote fra loro, stavano unite insieme, dividendo le stesse angustie e soggettate alle stesse sofferenze, come se avessero scampato un tremuoto o qualche altra crisi della natura.
Allora Méjan dovea obbligare lo spergiuro Ruffo a far partire senza dilazione alcuna i capitolati.
Dovea minacciare la distruzione di Napoli, se in un termine prescritto la loro partenza non si fosse effettuata, e se la capitolazione non si fosse eseguita in tutti gli altri articoli.
Sant’Elmo potea essere per quella città ciò ch’è il Vesuvio nelle sue eruzioni. Ma il perfido non prese alcun interesse per un affare di tanta importanza. Sicché gli Ercoli della rivoluzione, carichi di ferri, vennero gettati nel fondo delle sepolture, che si chiamano “criminali”, e tutti gli altri restarono su’ legni. In questo stadio di tempo, Sant’Elmo fu assediato, e Méjan, pieno di quella energia di cui mancava il governo, si fa ergere le batterie nemiche a tiro di cannone, senza impedirne i travagli.
A misura che l’attività del nemico si raddoppia, così la stessa sua energia cresce di giorno in giorno. Sicché, dopo lo spazio di poco tempo, si abbandona il castello in potere degli schiavi attaccati al carro della coalizione.
Il moderno Dionigi viene a tempo a godere del dono di Méjan ed a nuotare colla famosa prostituta di Albione, lady Hamilton, in un mare di sangue, che sgorgava dalle ferite de’ repubblicani.
Viene ad essere spettatore di una nuova tragedia, dopo di aver guardate con ciglio sereno le beccherie d’Ischia e Procida. Egli desidera che il repubblicanismo avesse una sola testa, per troncarla a un tratto. Tant’odio, tanta stizza contro gli amici dell’uomo annida ne’ cuori de’ re forsennati, che hanno la follia di credersi simulacri della divinità, mentre sono esseri maligni vomitati dal Tartaro!…
Involata così innanzi a’ nostri sguardi la libertà, le lave vulcaniche della controrivoluzione allagano Napoli, i vapori della tirannia ingombrano da per tutto l’atmosfera di quella regione, e il sole della libertà italiana resta ecclissato. In questa lugubre catastrofe, qual eterna notte sopravviene per noi!
Da quali dolori sono rose le nostre anime riempiute di lutto e di tenebre! Come il passato si desidera e non si ardisce di sperare! Come il presente ci opprime, l’awenire ci spaventa!…
Compagni! voi che divideste i pericoli della patria e che ora siete a parte dell’infelice ma glorioso esilio, voi potete ricordarvi dell’abbattimento e della desolazione che in quell’epoca agghiacciò i cuori di tutti noi.
Voi che, inviluppati nei cenci della miseria, ad onta delle procelle del mare, dell’urto degli elementi, dell’ira dell’avversa sorte e dell’oppressione de’ potenti, non cessate di rinnovare sull’altare della virtù il giuramento della futura rivendicazione; voi vi potete sovvenire come la crisi fatale versò a piene mani nella tazza de’ nostri piaceri le amare angosce, che minacciavano gettarci nel regno della morte!…
Il primo che innalzò lo stendardo dell’eroismo fu Francesco Martelli.
Costui, quando vide che il forte non potea più resistere, disse a’ suoi compagni:
“ Bisogna morire liberi piuttosto che sopravvivere alla servitù”. Sicché egli stesso accese la polvere, la quale colla sua esplosione rovesciò le mura della rocca.
Chi guardando le rovine di Viglieno, non sarà preso di ammirazione, è un essere che non è nato per la gloria; è un uomo a cui la schiavitù ha tolta la facoltà di pensare e di sentire.
Io farei imprimere su’ rottami di quel forte l’iscrizione:
“Passaggiero, annunzia a tutt’ i nemici della tirannia, a tutte le anime libere, che imitino il nostro esempio, piuttosto anziché vegetare all’ombra del dispotismo ”.
La caduta di Napoli produsse quella di tutta l’Italia. Né poteva altrimenti accadere.
Questa parte dell’Europa, ch’è l’oggetto de’ desideri e delle conquiste delle altre potenze, non può essere al coverto delle invasioni, se non acquista energia e forza.
Or il territorio napoletano è il più rispettabile per la sua estensione, per la fertilità, per gli tre mari da cui è circondato, per lo numero, carattere ed energia degli abitanti.
Conseguentemente non vi può essere libertà a Milano, a Torino, a Genova, a Roma, ecc., se Napoli è schiava. Napoli, centro del patriotismo, è fatta per esser la sede della libertà italiana. Io non sono militare, cittadino ministro, per poter decidere sulla legittimità della resa di Sant’Elmo.
Queste ricerche appartengono al Consiglio di guerra. Io solo incolpo a Méjan la maniera con cui intraprese e continuò la difesa del forte. Io solamente fo il parallelo tra lui e ‘l comandante di Ancona. Chi non sa che il coraggio, l’ostinazione, il fervore con cui costui sostenne quella piazza, sono divenuti il patrimonio de’ fasti dell’eroismo, il deposito il più sacro dell’immortalità?
Ma, con tutte le risorse dell’astuzia di un ser Ciappelletti, quali scuse può ritrovare Méjan nell’antro della calunnia, quando di buona voglia libera i patrioti rinchiusi nel forte agli avoltoi del dispotismo, mentre ha presso di sé gli ostaggi? quando scovre anche quei che, vestiti da soldati, e confusi co’ francesi, non erano conosciuti? quando consegna ancora due offiziali, i quali, benché napoletani, da più anni stavano al servigio francese?
Ombre di Vitaliani e Matera, voi ancora gridate dal fondo della tomba contro l’amico di Capeto, che vi liberò alle di lui furie…
La vostra spoglia, ancora fumante di sangue, farà più impressione alle future generazioni di quella che fece il cadavere di Lucrezia al popolo di Roma.
Quali armi di difesa può usare Méjan, allorché consegna gli ostaggi agli agenti del despota, contro le deliberazioni del Consiglio di guerra, e non fa istanze per l’esecuzione del trattato, per l’invio de’ patrioti in Francia?
Per qual motivo, quando discende da Sant’Elmo, va a sedere nella mensa imbandita del tiranno, che lo colma di ringraziamenti e doni, i quali mettono il suggello alla sua depravazione?
Come può ripetere la necessità della resa del forte dalla penuria delle derrate, mentre le truppe nemiche, impadronitesene, per più giorni vendono al popolo a vil prezzo una immensa quantità di generi di ogni sorta? Perché si trovano le bombe da dodici e i mortai da nove? Questo giuoco fu opera del governo?… Veramente lo esigeva il suo interesse; il senso comune ci forza a crederlo.
Ma, traditore! non voglio più stancarmi in disseppellire tutti i minuti aneddoti de’ tuoi misfatti. Indarno cerchi nasconderli. Indarno cerchi di covrire la perfidia col velo della menzogna.
Già le fila della tua rea condotta sono nelle mani di tutto il mondo; i cammini della tua cospirazione sono aperti ad ognuno.
Ognuno sa che la politica antisociale di Pitt, di questo disertore del genere umano, di questo schiavo ribellato contro la sovranità de’ popoli, questa politica liberticida avea di già nell’anno scorso attaccata la testa del colosso repubblicano ed alcune delle sue membra.
Infelicemente per noi, uno di queste membra fosti tu; sì tu, che, corrotto dall’oro inglese, non ti facesti alcuno scrupolo di slanciare una repubblica sul cratere di un vulcano.
Scellerato! Sei scomparso da Napoli, ma le vestigia de’ tuoi delitti sono restate impresse nella memoria di quella desolata popolazione, nel cuore di tutti gli amici della filosofia, che, carichi di ferri, nel fondo delle prigioni, bagnano col pianto l’ammuffito pane. Sei scomparso!
Ma l’infamia ti seguirà da per tutto su quella terra, che abbomina la tua presenza. Sei scomparso! ma il tribunale della storia esaminerà il processo delle tue azioni, e la posterità, pronunciando il tuo nome, lo metterà accanto a quello di Erostrato, che per rendersi famoso incendiò il tempio di Delfo.
Da quest’abbozzatura, che io ho avuto l’onore di presentare a’ vostri sguardi, voi comprenderete, cittadino ministro, come Méjan nella sua apologia abbia immersa la penna nel fiele della calunnia la più assurda, della satira la più incoerente.
Io dunque a ragione lo accuso innanzi alla vostra giustizia in nome della mia afflitta patria, dell’umanità, della natura.
Io son sicuro che, facendosi omaggio alla virtù di Bocquet ed al mio zelo, i delitti di Méjan non resteranno impuniti, l’intrigo non trionferà della giustizia.
Io ne ho per garante, cittadino ministro, il vostro genio, quel genio che insegnò la strada della vittoria a quattordici armate ed incatenò il mostro della coalizione; ne ho per garante quella sublimità di anima, quella fermezza di sentimenti che mostraste nel seno della Convenzione, quando gettaste le fondamenta dell’indipendenza nazionale e prendeste l’iniziativa della libertà del genere umano. Questi è quel Matera ch’era stato in Italia aiutante di Berthier e Joubert, a cui salvò la vita nel Piemonte.
Dopo la partenza de’ francesi, suonò l’ora della distruzione de’ repubblicani. Il despota della Sicilia, non incontrando argini a violare, contro i principi del gius delle genti, la più solenne delle capitolazioni,7 giacché gli ostaggi erano stati.
La buona fede de’ patti è uno de’ gran legami delle società civili. Tolta questa buona fede, se ne rovesciano le basi, e gli uomini ritornano nello stato della collisione, cioè dell’anarchia. I rapporti che passano tra gli individui di uno Stato sono gli stessi che quei di un popolo relativamente all’altro. Le relazioni diplomatiche, le negoziazioni ed i trattati son fatti per mantenere la concordia tra le nazioni, la stabilità degli imperi, la conservazione dell’uman genere.
Essi dunque sono sacri ed inviolabili; altrimenti gli individui della specie errerebbero nelle foreste, e lo stato di guerra, cioè di distruzione, desolerebbe il globo.
Per questo motivo, non solo i popoli civilizzati, ma ancora i barbari sono fedeli osservatori de’ pubblici patti. I selvaggi si piccano eziandio di fedeltà nelle loro convenzioni: anzi fanno intervenire una divinità, sotto il cui patrocinio e garanzia i contraenti debbono riposare.
Il solo re di Sicilia, oltre le altre infrazioni, ne ha commessa una, ch’è la più funesta e la più prava di tutte le altre, calpestando le leggi, le usanze ed i costumi di tutte le popolazioni.
Le capitolazioni delle guarnigioni de’ castelli di Baia, Ischia, Castellammare furono richieste e trattate dagl’inglesi.
Quella de’ forti di Napoli fu preceduta da un solenne proclama di Ruffo, generale in capo ed agente plenipotenziario di Ferdinando; proclama stampato ed affisso in tutti gli angoli della città, con cui s’inculcava al popolo, sotto pena di morte, di rispettare i parlamentari, che da lui si spedivano a’ castelli, o che da essi si mandavano a lui, a fin di capitolare per potersi quindi eseguire fedelmente tutto ciò che si sarebbe convenuto. Si passò indi al trattato, ch’è il seguente:
REPUBBLICA
NAPOLETANA
Oronzio Massa generale d’artiglieria e comandante del Castel Nuovo.
Essendosi dal comandante della flotta inglese Food intimata la resa al castel dell’Ovo, e dal cardinal Ruffo vicario generale del regno di Napoli, dal cavalier Micheroux, ministro plenipotenziario di S.M. il re delle due Sicilie presso la flotta russo-ottomana, dal comandante in capo delle truppe di S.M. I’imperatore di tutte le Russie, e dal comandante delle truppe ottomane a questo Castel Nuovo;
il consiglio di guerra del Castel Nuovo si è adunato, ed avendo deliberato sulle suddette intimazioni, ha risoluto che i suddetti forti sieno rimessi ai comandanti delle truppe di sopra enunciate per avere una capitolazione onorevole, e dopo di aver fatto conoscere al comandante del forte di S. Elmo i motivi di questa resa, in seguito di che il suddetto Consiglio ha redatti gli articoli della capitolazione seguente, senza l’accettazione de’ quali la reddizione de’ forti non potrà aver luogo.
Articolo I. Il Castel Nuovo, ed il Castel dell’Ovo saranno rimessi nelle mani del comandante delle truppe di S.M. il re delle due Sicilie, e di quello de’ suoi alleati il re d’Inghilterra, I’imperatore di tutte le Russie, e la Porta Ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca,
artiglieria ed effetti di ogni specie, esistenti ne’ magazzini, di cui si formerà inventario dai commissari rispettivi dopo la firma della presente capitolazione.
II. Le truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti sino a che i bastimenti, di cui si parlerà qui appresso, destinati a trasportar gl’individui, che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.
III. Le guarnigioni usciranno cogli onori di guerra, armi, bagagli, tamburo battente, bandiera spiegata, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse deporranno le armi sul lido.
IV. Le persone e le proprietà mobili ed immobili di tutti gl’individui componenti le due guarnigioni saranno rispettate e garantite.
V. Tutti gli suddetti individui potranno scegliere d’imbarcarsi sopra i bastimenti
parlamentari, che saranno loro presentati per condursi a Tolone, o di restare in Napoli senza
essere inquietati né essi, né le loro famiglie.
VI. Le condizioni contenute nella presente capitolazione son comuni a tutte le persone de’ due sessi rinchiuse ne’ forti.
VII. Le stesse condizioni avran luogo riguardo a tutti i prigionieri fatti sulle truppe repubblicane dalle truppe di S.M. il re delle due Sicilie, e quelle de’ suoi alleati ne’ diversi combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco de’ forti.
VIII. I signori arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon, ed il vescovo di Avellino saranno rimessi al comandante del forte di S. Elmo, ove resteranno in ostaggio, fino a che sia assicurato l’arrivo a Tolone degl’individui, che vi si mandano. restituiti, disegnò, ad insinuazione del crudele Nelson e della Taide di Londra, di fare la Saint-Barthélemy, ed una Saint-Barthélemy la più orribile, di tutti quei che aveano posto il dito nella coppa della rivoluzione;
simile ad una bestia feroce, che ha nelle branche la preda, su cui avea gettato lo sguardo, l’atterra, la sbrana e fa strage, scempio e rovina delle sue carni. La Svizzera, l’Olanda, l’Inghilterra medesima, la Francia, e tutte le nazioni civilizzate si raccapricciarono al racconto delle crudeltà e del terrorismo che spiegò il mostro di Sicilia dopo il suo ritorno in Napoli.
Fox e Sheridan, questi fermi avvocati della gran causa, fecero le più acri invettive contro quel re insensato, e ne proposero l’accusa innanzi all’immensa assemblea del genere umano.
Arena, Briot ed altri legislatori tuonarono sulla tribuna del Consiglio de’ Cinquecento in Parigi contro gli stessi attentati. Ecco un pezzo dell’arringa: “ E tu, re perfido e crudele, che segnali il tuo ritorno in Napoli con eccessi i più inuditi, e che hai convertito il suo vasto recinto in un più vasto feretro, trema per la seconda volta. I tuoi nuovi delitti, uniti a quelli che hanno reso famoso il troppo lungo corso del tuo regno, saran puniti ancora, senza che ti resti più la speranza di rinnovare le tue vili proscrizioni, ed i tuoi spietati massacri ”.
Allorché i tedeschi nell’anno scorso penetrarono nella Svizzera, istallarono a Zurigo la commissione del governo, i di cui membri essendo caduti nelle forze francesi, quando l’invincibil Massena sconfisse gli austro-russi, si disputò nel Consiglio elvetico sulla loro sorte.
Un consigliere opinò che loro si togliesse la vita, citando l’esempio di Ferdinando, il quale avea trucidato i potestà costituiti da Championnet ed Abrial. “Come – disse un altro, pieno di sorpresa – come si.
IX. Tutti gli altri ostaggi e prigionieri di Stato rinchiusi ne’ due forti saranno rimessi in libertà subito dopo la firma della presente capitolazione.
X. Tutti gli articoli della presente capitolazione non potranno eseguirsi, se non dopo che saranno stati interamente approvati dal comandante del forte di S. Elmo.
Méjan approvò la convenzione, la quale venne eseguita dai repubblicani in tutt’ i suoi articoli: si dovea osservare solamente dalla corte di Sicilia e da’ suoi alleati; ma Ferdinando, per dare un colorito all’attentato della violazione del patto, trovò il pretesto che non era stata mai sua volontà di negoziare con sudditi ribelli. Sudditi ribelli!
Ecco il linguaggio de’ re, ossia degli usurpatori della sovranità popolare. Una nazione che o sola, o coll’aiuto d’un altra potenza si solleva contro il suo oppressore, contro colui che, lungi di essere il magistrato, n’è il despota, non è ribelle. Essa al contrario usa il principale de’ suoi diritti, ch’è quello di riagire contro la violenza. Tal è l’indole del contratto sociale.
Ma, ammessa la strana idea che contro i principi del gius pubblico si volessero considerare ribelli i patrioti, perché Ruffo si induce a capitolare, quel Ruffo ch’era un plenipotenziario del re?
Essendo egli entrato in trattato, egli riconobbe una potenza nei patrioti, e questa potenza scomparisce, quando si viene all’esecuzione?
Da cotesto assurdo come se ne sviluppano gli avvocati della causa della tirannia? Nel solo interesse del despota dunque, nel suo capriccio si può trovare la ragione della violazione del più solenne de’ patti: e tale è il carattere del potere arbitrario.
Gl’inglesi, che si obbligarono co’ generali delle altre potenze di far osservare il trattato; gl’inglesi, che disponevano della volontà del re di Sicilia, il quale in tutti gli affari dipendeva da’ loro cenni, potevano garantire il patto, potevano opporsi alla violazione la più manifesta del gius delle genti; ma pretendere ciò da’ vili isolani, da quelle anime metalliche, sarebbe lo stesso che domandare lealtà dalla volpe.
Gl’inglesi da otto anni vie più hanno cancellate in tutte le loro azioni le tracce della giustizia universale, ed hanno commessi quelli attentati e quei tratti di pefidia, ch’erano degni di Attila.
Il furto della flotta olandese, l’alleanza sulle coste della Siria di Achmet, il supplizio del gran Volstonn e di altri bravi irlandesi, gli ostacoli opposti alla esecuzione del trattato conchiuso tra Kléber e la Porta ottomana, non sono bastanti testimonianze della loro cattiva fede e barbarie?
Nelson, che tenea Ferdinando prigioniero al suo bordo e che era circondato da’ legni de’ capitolati che doveano far vela, abbagliato dall’oro di Sicilia e dal pomposo titolo offertogli di duca di Bronte, ardì di rispondere a’ patrioti stessi, allorché si dolsero dell’indugio della loro partenza convenuta nella capitolazione, ardì di rispondere che al re si apparteneva di premiare il merito e dipunire i delitti de’suoi sudditi.
Crudele pirata! se l’intrepido Fox ha invano declamato nel Parlamento di Londra contro la tua nera perfidia, non creder già che il ducato di Bronte e l’oro e le gemme de’ despoti, delle quali fai un’impudente pompa, ti involeranno all’esecrazione del genere umano ed all’infamia che i posteri imparziali spargeranno sulla tua abbominevole memoria. ardisce in questo santuario ricorrere all’autorità di un empio, il quale profanando le leggi divine ed umane e commettendo i delitti i più atroci, è incorso nell’indignazione del cielo e della terra?
Il quale nella sua ferocia sorpassa gli orsi, le tigri e tutte le altre fiere del mondo? il quale recherà orrore a’ secoli a venire ed alla più remota posterità?”
Queste parole, pronunciate con entusiasmo, fecero le più vive impressioni negli animi de’ giudici; ed i governanti austriaci furono liberati. Io non discenderò, cittadino ministro, a descrivere uno per uno gli orrori che si sono commessi su la più bella contrada della terra, e a dettagliare le calamità che son gravitate sulle teste di tanti infelici.
La mano mi trema, ed il cuore non regge a questa pittura patetica… Basta dire che, dopo l’invasione de’ briganti regalisti non si risparmiò né l’innocenza dell’infanzia, né l’impotenza della vecchiaia, né gl’incanti del sesso, né l’eminenza del merito e del talento.
Basta dire, che nel secolo decimottavo, Scotti, Ciaja, Caracciolo, Pagano, Cirillo, Conforti, Russo. Conviene accennare qualche cosa su’ cinque ultimi personaggi, giacché eglino non appartengono alle circostanze, ma alla posterità. La loro esistenza non è stato un atomo impercettibile nell’oceano de’ secoli; ella ha lasciato delle tracce profonde, che resisteranno all’urto del tempo e delle convulsioni cosmiche.
Io mi figuro i grandi uomini attaccati alla ruota della Fama. Chi sta sulla circonferenza, chi siede sull’asse. I primi sono soggetti ad avere delle vicende, a rovesciare da su in giù e perdersi nella polvere dell’obblio; gli altri sono sempre stabili, e nel girar della rúota non lasciano mai di conservare il medesimo posto.
Uno di questi ultimi è il gran Caracciolo. Si sa ch’egli era uno de’ più grandi ammiragli del secolo, talché i superbi isolani non ne presentano un simile. Caracciolo, che in tempo della repubblica si trovava in Sicilia, ebbe a rossore d’impiegare i suoi talenti in favore del dispotismo. Rinunciò al posto, e volò in Napoli libera, dove fu fatto ammiraglio.
Nel porto della città vi erano alcune poche barche cannoniere, le quali erano state scampate dall’incendio per essere vecchie ed inservibili.
Il genio di Caracciolo le utilizza, le agguerrisce, va con esse ad affrontar a Procida gl’inglesi, i quali batte, spargendo ne’ loro animi il terrore.
Ecco il Duilio della repubblica napoletana. Per lo appresso egli fece altri prodigi non meno sorprendenti: e per ricompensa n’ebbe la morte, piuttosto per gelosia del barbaro Nelson che per odio della corte.
Io farei imprimere sulla tomba dell’illustre Caracciolo le seguenti parole: Qui riposa colui che vegliò sempre per la gloria della sua nazione.
Il nome solo di Mario Pagano è un dominio della storia della filosofia. Ognuno conosce il celebre autore de’ Saggi politici e del Processo criminale. La prima opera, che racchiude in sé i semi e le lezioni della felicità sociale, è il risultato di una profonda analisi dell’uomo e delle ostituzioni de’ popoli.
L’altra, in cui i principi della ragion criminale sono esposti con tanto ordine e sublimità, in cui si abbatte il colosso della barbarie e de’ pregiudizi sulla libertà civile del cittadino, è un prodotto del genio. Beccaria era stato il Colombo della scienza, ma Pagano ha trovato nel paese scoverto da Beccaria le auree miniere delle più utili e più astruse verità. Pagano non è stato solamente uno scrittore: egli merita di essere considerato sotto il rapporto di uomo e di cittadino.
Modesto, placido, probo, sensibile, era amato da tutti, giacché era l’amico di ognuno.
Nella cattedra si sforzava di dar l’anima al cadavere della barbarie col soffio della filosofia e della ragione; nel foro, quando era avvocato, era il disinteressato difensore de’ diritti dell’umanità; quando fu investito della toga, fu l’organo delle leggi, e non disunì mai la giustizia dalla moderazione.
Carcerato a cagione de’ suoi principi repubblicani, fu tranquillo come Epitteto. Ricuperata ch’ebbe la libertà individuale, non poté soffrire l’aspetto del governo tirannico, ed affrontò un volontario esilio.
Fondata la repubblica, ritornò in Napoli, dove, condotto in seno della rappresentazione nazionale, si consacrò con fervore ai sacri interessi della patria ed alla causa della libertà. La costituzione, che diede fuori, era il capo d’opera della politica, giacché rácchiudeva tutt’ i vantaggi delle altre, senza averne i difetti. Egli considerava che il vizio, il quale faceva traballare le moderne repubbliche, era appunto che non vi era una barriera tra il potere esecutivo e il legislativo.
Sicché un terzo potere egl’immaginò, che opponesse un argine alle usurpazioni dell’uno e dell’altro, e mantenesse l’equilibrio della macchina politica, servendo come di sentinella alla libertà.
Pagano solea dire che la libertà è il risultato di tutte le idee ed i principi della morale, e ch’ella è la mezza proporzionale tra’ due estremi, la licenza e la servitù.
Egli desiderava che le cariche rilevanti non si fossero accordate a persone prive di probità e di talenti; che la santa morale ed il costume fossero la dote del moderno patriotismo, come lo erano dell’antico; che le risoluzioni della tribuna pubblica, figlie dell’effervescenza, dell’entusiasmo, non attraversassero i passi del governo, i quali dovevano essere guidati dalla fredda ragione.
Non so se le sue grida furono ascoltate tra le grida volgari… La repubblica giunse all’orlo del precipizio, e la di lui anima si abbandonò al più profondo dolore…
La tristezza si vedeva dipinta sul suo viso, e gli accenti della collera erano spesso interrotti dalle lagrime. Intanto negli estremi pericoli della patria egli non mancò di prendere le armi, rinserrandosi in uno de’ forti.
Così, passando dal senato al campo, il Solone di Napoli ne divenne il Curzio. La repubblica cade… Pagano, ad onta della capitolazione e malgrado le sue virtù, è gettato nella più orrida prigione dagli spietati agenti di Carolina, da’ quali in seguito viene strascinato al palco in uno stato di pura impassibilità, tributando gli ultimi suoi sospiri alla patria.
La natura avea sbagliato di produrre Domenico Cirillo in Napoli e in questo secolo.
Egli dovea nascere nell’antica Roma ventidue in ventitré secoli addietro. Le qualità eminenti, che lo adornavano, erano in gran numero, ed ognuna di esse sarebbe stata sufficiente a formare un grand’uomo.
Cirillo avea idee le più nette e le più sublimi della morale, la quale ravvisandosi nella sua fisonomia caratteristica e nel suo portamento, era praticata dal suo cuore, sempre aperto ai sentimenti della pietà e della beneficenza verso altrui.
Questi era un Catone che si trovava in mezzo alla feccia di Romolo. Egli solea dire: – Io avrei soggiornato in Londra o in Parigi, se l’amore di mia madre non mi avesse costretto ad abitare questa terra di oppressione. – Qual rispetto per questa vecchia madre! qual tenerezza! qual venerazione ei le prestava! La di lui professione era la medicina, ch’egli conosceva a fondo. La sfigmica, che s’ignora in Europa e che nella Cina è così ben conosciuta, facea parte del tesoro delle di lui conoscenze.
Uno studio lungo, un corso non interrotto di osservazioni di venti anni gli fecero acquistare la vera cognizione de’ polsi. Era grande nella chimica, ma era un genio nella botanica, la quale non avea studiata ne’ libri degli uomini, che spesso son bugiardi, ma nella natura, che non inganna mai i suoi veri e fedeli interpreti.
L’Inghilterra, la Francia, le Alpi, i Pirenei, il Vesuvio, l’Etna erano state la scuola, in cui aveva appresa questa benefica facoltà. Quanto era più ammirabile nell’esercizio della scienza della salute!
Le sue cure estendendosi egualmente sul ricco che sul povero, egli versava sull’ultimo il balsamo della pietà, sovente a discapito della sua borsa.
Per i suoi rari talenti venne eletto medico della corte, ma l’austera sublimità delle sue virtù non si volle abbassare alle viltà di un cortigiano.
Egli trovava nell’oscurità della vita privata un incanto ed una gioia, che non si gusta a traverso il vano splendore della grandezza, e massime vicino al trono.
Egli non sapendo né elevarsi né abbassarsi dal suo livello, verificava la massima: che i grandi cessano di esserlo, quando non si sta ginocchioni innanzi a loro.
Penetrate in Napoli le armi repubblicane, tutti gli sguardi e de’ francesi e de’ suoi concittadini si rivolsero nel fondo della sua solitudine.
A voti universali egli venne eletto membro del governo provvisorio.
La sua modestia però non gli permise di accettare la carica. Vi fu costretto la seconda volta; e Cirillo, facendosi un dovere di rendersi utile alla patria, imprese a percorrere la carriera difficile della legislazione.
Sempre eguale a se stesso, sempre semplice, giusto ed umano, si sforzava di medicare le ferite e le piaghe dello Stato, nel medesimo tempo che non trascurava di frequentare gli ospedali e gli asili dell’indigenza. La macchina politica si scompone, e la sua vecchiaia co’ capelli canuti non è rispettata da’ barbari.
Cirillo vien posto nelle catene; a capo di tempo i carnefici gli dicono che, s’egli volea sfuggire la morte, bisognava che in tuono di pentimento avesse chiesto la grazia a S.M.; ma egli, non volendo accattare la vita a prezzo di una viltà, rispose: – Io non domando grazia alla tirannia.
La giustizia della mia causa e di quella di tutt’ i miei fratelli, è riposta nella capitolazione -.
Ecco un nuovo Trasea, più grande e più forte del primo. Fu condotto a fare il costituto innanzi a Speziale. Interrogato del suo nome, rispose: Domenico Cirillo. Che eravate in tempo del re? Medico. In tempo della repubblica, Rappresentante del popolo. Ed ora in faccia a me? In faccia a te sono un eroe. E come un eroe morì.
Il pretismo è stato sempre la tazza di Pandora, da cui sono usciti i tanti mali che hanno affflitto il genere umano.
Si prendano le società nell’epoca della loro infanzia, si accompagnino ne’ periodi della puerizia, dell’adolescenza, virilità, vecchiaia, e si osserverà che costantemente i preti, sotto la denominazione di druidi, di maghi, di gerofanti, di brammani, ecc., languendo in seno di un ozio contemplativo ed abbrutendo lo spirito de’ popoli, hanno esatto da costoro il tributo della stima e della venerazione col frutto de’ loro travagli. Il cattolicismo è stato più fortunato nelle sue intraprese, come più funesto ne’ suoi risultati, di tutti gli altri culti.
I di lui ministri, più furbi, più ipocriti, più magici, più ambiziosi, più intolleranti di tutti gli altri, hanno sparso con maggior impegno il veleno della religione, menando l’errore e la miseria colla schiavitù.
Se ne contano pochi, i quali, disertandosi dalle loro coorti, hanno battuto un altro sentiero, hanno combattuto a favore della specie, impugnando le armi della filosofia contro gli apostoli del fanatismo.
Nel numero di cotesti esseri benefici si deve arrolare il celebre Francesco Conforti. Questi era un prete, il quale, elevato sulla cima delle conoscenze umane, ha predicato con instancabil fermezza il vangelo della ragione.
Riempito di pene all’aspetto dell’infelicità universale, ha fatto continui sforzi, onde chiuderne la sorgente, ch’è riposta nell’ignoranza e nell’errore.
Tal era il suo voto e il suo oggetto fisso. Nella pubblica cattedra, sviluppando la storia de’ concili, de’ canoni, mostrava agli occhi di tutti il monumento delle usurpazioni, de’ delitti, delle ingiustizie de’ pontefici.
Colla fiaccola della critica e delI’erudizione, dileguando le tenebre che covrono la faccia de’ secoli mostrava come il vecchio mondo è stato incatenato dalle barbare istituzioni della corte di Roma, e come il nuovo è stato coverto dalle ossa di cinque in sei milioni di uomini.
Nello studio privato, insegnando il gius di natura e il gius civile, mentre analizzava i diritti primitivi dell’uomo ed i precetti della legislatrice dell’universo, la natura, esponeva l’informe ammasso di tanti stabilimenti di principi ora umani, ora crudeli, ora rischiarati, ora barbari, che, malgrado la contrarietà degl’interessi, degli usi e de’ governi, servono ancora di norma a gran parte dell’Europa.
La maniera, con cui estrinsecava le sue sublimi idee, era amnirabile, giacché la sua eloquenza incantatrice veniva accompagnata da un tuono di voce il più piacevole, per cui il concorso della gioventù era immenso.
Il di lui cuore, essendo inaccessibile all’interesse quando si trattava di diffondere i lumi, facea sì che le porte del suo ginnasio non erano mai chiuse all’indigenza.
Nella famosa quistione se il regno di Napoli dovesse essere considerato un feudo pontificio, Conforti, come teologo della corte, fu destinato a rispondere alla controversia. Sicch’egli. con argomenti incontrastabili ne sostenne l’indipendenza; e confutando le ridicole pretensioni della Corte di Roma, mostrò destramente le occulte fondamenta della libertà nazionale. Così, mentre con una mano abbatté il mostro religioso, coll’altra ferì il dispotismo politico.
Conforti ha dato fuori molte produzioni, le quali annunziano un ingegno elevato e profondo; ma l’opera, che più l’onora, è l’Antigrozio. Grozio nelle sue concezioni ha commesso il difetto di ricorrere alla memoria, quando bisognava implorar soccorso alla ragione; dotato di una vasta lettura, ha voluto far pompa di erudizione a spese delI’analisi e della facoltà riflessiva; nell’Antigrozio si tiene un metodo tutto contrario.
Grozio è incorso nella disgrazia di fare la causa de’ re e de’ preti; ognuno congettura qual causa, qual nobile causa deve perorare l’autore dell’Antigrozio. Come revisore di libri, Conforti ebbe ordine di non far penetrare in Napoli le produzioni del buon senso, gli scritti, che, svelando all’uomo la sua dignità, gli additano i suoi implacabili nemici.
Ma un tal incarico era incompatibile col suo carattere e colle sue vedute. Sicché, cozzando colla potenza del despota, non potea dispensarsi a far circolare nelle mani della gioventù tutti quei libri, i quali sono per lo spirito umano degradato ciocché alcuni rimedi corroboranti sono per gl’infermi acciaccati di languore.
Un tal uomo straordinario, quanto pieno di talenti, altrettanto colmo di virtù, che teneva un piano di condotta, il quale sarebbe degno di elogi e di ammirazione in Berna o in Ginevra, doveva necessariamente essere sacrificato in Napoli; e non altrimenti avvenne. Conforti venne prima privato della cattedra e degli altri impieghi pubblici, e quindi imprigionato.
Tutt’i giovani furono così inconsolabili come se avessero perduto il loro padre, giacché Conforti dava senso, vita e moto alla gioventù. Imperturbabile e tranquillo visse nella carcere come se fosse stato in sua propria casa, o elevandosi con Platone, o conversando con Plutarco, o approfondendosi con Locke e Leibnitz, o istruendosi nella scuola delle sue riflessioni.
Fu liberato pochi mesi prima dell’arrivo de’ francesi, senza dar segni manifesti di gioia viva e di letizia gestiente.
Dichiarata repubblica Napoli, fu investito della carica di ministro dell’interno, e consacrò il suo zelo, le sue cure, la sublimità del suo pensare al benessere della patria, in maniera che sembrava essere egli solo capace di un tal posto. V
enne poscia eletto rappresentante, e si distinse in grado eminente in mezzo alla folla, giacch’egli era dotto senza pedanteria, virtuoso senza orgoglio, semplice senza affettazione, probo senza ipocrisia.
Nel tempo della resa di Capua, dov’era andato a rifuggirsi fu condotto in Napoli; e, posto in prigione, soggiacque al decreto di morte. Dopo la pena irrogatagli, gl’inquisitori di Stato gli promisero la vita, purché scrivesse su di alcune pretensioni che il re vantava su lo Stato romano.
Conforti scrisse, e malgrado le promesse fu menato al patibolo, che fu per lui l’ultimo gradino, il quale lo slancio all’immortalità. Possa l’ombra del mio precettore sorridere a questo elogio, ch’è il pegno della mia riconoscenza e l’omaggio che la verità rende alla virtù! Possa egli, simile a’ Dei, ascoltare nel suo celeste soggiorno i voti, che un mortale, ravvolto nella polvere di questa bassa terra profanata dal delitto, gli porge relativamente al riposo ed alla felicità degli uomini!
Vincenzio Russo è uno di quei personaggi straordinari i quali onorano non solamente la nazione a cui appartengono, ma l’umanità; non una sola generazione, ma tutte prese insieme.
Questi era un giovane, il quale all’estensione accoppiava la profondità delle idee, alla vivezza della fantasia e del sentimento (ciò ch’è raro) la profondità del calcolo e della ragione, ad una sterminata lettura la forza creatrice del genio. Egli univa in grado eminente l’energia dello stile col talento della parola, con una eloquenza senza esempio.
Quando aringava al pubblico, alle volte era un fiume vasto, immenso, placido, che scorre sul campo dorato di Cerere e su l’erbe verdeggianti del prato: alle volte un torrente, che cade dalla cima delle montagne, supera gli argini che incontra, e fa rimbombare all’eco del suo strepito i boschi e le foreste vicine. Quando parlava in privato, era un ruscelletto di nettare, che ricrea chi lo gusta.
Il foro di Napoli, a cui egli si era consacrato, quanto doveva essere orgoglioso di un filosofo e di un oratore di tal fatta! Giudici, avvocati, uomini di lettere, tutti ammiratori della superiorità del suo genio, idolatravano il moderno Demostene.
Una volta, mentre egli tuonava in tribunale a pro di un infelice accusato di omicidio, un ministro disse al padre, che gli stava vicino:—Gloriati, amico, gloriati di avere questo grande uomo per figlio! – .
Cosa dirò della sua morale? Bisognerebbe godere tutta la purità dell’innocenza, essere acceso da tutto il fuoco della sensibilità e di tutte le affezioni filantropiche, avere la tempra dell’anima di un Focione, per poterne fare il ritratto.
Chi si può mai lusingare di giungere all’apice delle sue virtù?… Egli era un essere disceso dal cielo per fare gl’incanti della terra e la felicità della specie umana. Chi lo conosceva, amava la sua pura amicizia e n’era pago del possesso; chi non ne avea idea, voleva conoscerlo. Vincenzio Russo dunque non era destinato a vivere in un paese, in cui la virtù era menata al patibolo.
Infatti la regina lo adocchia, e cerca tirarlo nella rete della perdizione. Russo fugge, e dove va? Egli non va a cercare ospitalità in Francia… I francesi per lui sono corrotti. Va a ritrovare ne’ monti dell’Elvezia la povertà, la frugalità e la semplicità de’ costumi! – Lo svizzero, egli mi dicea, lo svizzero solamente è capace di libertà nell’Europa – .
Dalla Svizzera passò nella Cisalpina, dove sparse gran lumi ed acquistò un nome immortale. Quindi andò in Roma libera, dove diede alla luce i suoi Pensieri politici, opera in cui domina uno spirito di originalità, in cui si ravvisa un certo carattere di grandezza. Felici quei popoli che possono profittare delle sue lezioni!
Felici gli uomini che possono vedere realizzati i suoi progetti! Liberata Napoli, egli ritornò in seno della patria, la quale si pose a servire in qualità di semplice soldato.
Ma Russo non era fatto per agire colla mano: egli aveva un gran capitale nella mente e nel cuore, per poterlo impiegare a beneficio della nazione. Sicché sul principio fu eletto commissario di dipartimento, e poscia rappresentante.
Non volle mai ricever paga o compensazione alcuna delle sue fatiche e fece replicate mozioni nel governo sulla diminuzione de’ soldi delle persone impiegate. Tutte le sue misure tendevano a compiere la grande opera della rivoluzione, di cui i francesi ne avevano fatto il semplice getto.
Il regno della libertà non poteva ergersi sul solo rovescio del trono. Fondare la morale, creare lo spirito nazionale, estirpare gli abusi, i cattivi abiti e gli errori per mezzo della educazione, combattere il lusso e la corruzione con ispargere i semi dell’amor della virtù e della patria, animar l’agricoltura, fare scomparire la sproporzione de’ beni, accendere un fuoco marziale nella massa del popolo, agguerrendolo, custodire il palladiodell’indipendenza sotto l’egida delle forze nazionali, senza addormentarsi in seno della protezione dello straniero, era appunto fare una rivoluzione, ed una rivoluzione attiva.
Un tal sistema necessariamente gli dovea procurare dei nemici, e così accadde: il serpe dell’invidia incominciò a fischiare contro di lui. La mediocrità, di concerto con l’interesse privato, si sollevò contro i di lui progetti di riforma, e per riuscire implorò soccorso dalla calunnia, la quale fece i maggiori sforzi per profanare il tempio della saggezza. Russo si avvide della tempesta, e cercò salvarsi nel porto del silenzio, prendendo congedo dal governo.
Ma i sentimenti patriotici, dai quali era acceso, non lo fecero stare nell’inazione. Non potendo più sulla tribuna spezzare le baionette della tirannia co’ dardi dell’eloquenza, entra nelle file della guardia nazionale, si trova pronto in tutte le spedizioni, e si batte come un leone per la causa comune.
Nell’ultimo combattimento del ponte della Maddalena, il gran Russo cade nelle mani de’ nemici. Ah, accideme fatale!… Qui incomincia la di lui penosa agonia.
Io non posso, senza che l’avvoltoio del dolore mi laceri il petto, farne la descrizione; io non posso esporre quest’articolo tragico della sua vita, senza essere assalito dalla più triste melanconia.
Come avrei il coraggio di guardare curvato sotto una verga di ferro e colmo di strazi e di ferite un amico, a cui io innumerevoli altri non meno celebri spirarono sotto i colpi del dispotismo, come i Gracchi, Barnevelt e Sidney, per oggetto della felicità umana. Basta dire, in una parola, che in Napoli la tirannia andò a galla sul sangue di mezza generazione; e che una zona torrida racchiuse nel suo vortice infuocato l’intero territorio napoletano.
Mentre la capitale e le provincie, cadute in potere de’ nemici, presentavano lo spettacolo il più tragico, esistevano ancora tre piazze che formavano l’ultimo baluardo della libertà, simili a quelle colonne ed a quei macigni, che il passeggiero incontra tra i balzi e le rovine di un paese distrutto.
Capua, Gaeta, Pescara, che stavano in possesso de’ francesi, dopo la resa di Sant’Elmo, continuavano a destare un raggio di speranza ne’ cuori desolati de’ figli della patria.
La ricca provvisione di cui erano fornite, il numero sufficiente di soldati che ne sostenevano la difesa, non facevano all’in tutto scomparire l’idea della esistenza della repubblica. Ma quale idea!
Noi eravano allora degl’infermi, che, languenti nel letto della morte, si lusingano tuttavia di rinascere alla vita. Reso Sant’Elmo, gl’insorgenti, diretti dal disleale Roccaromana, gl’inglesi ed i russi rivolsero le loro forze sopra Capua, il di cui comandante, benché avesse potuto fare una lunga resistenza, pure dopo lo spazio di pochi giorni aprì le porte al nemico.
I patrioti non furono compresi nella capitolazione; onde per iscampare una sicura morte, si travestirono da cisalpini; ma giunti in Napoli furono scoverti e subirono il comune destino, cioè il destino della distruzione.
Quei che sono periti della tattica militare sanno che Gaeta è inaccessibile per la parte di terra, giacché non vi può agire il cannone. Ciò non ostante, gli anelli delle disgrazie si comunicavano; uno chiamava l’altro; Gaeta anche cadde.
Così, la cangrena, che aveva assalita la parte superiore dell’Italia, depascendo, giunse sino all’estremità, e la rose. Non vi restava che Pescara.
Questa è la più debole di tutte e tre; eppure il prode Ettore Carafa, che la custodiva, la sostenne sin dopo aver esauriti tutti gli umani soccorsi, sin dopo aver impiegati tutti i mezzi di difesa, in una parola, sino all’ultimo respiro. Egli cedé, e cedé facendo una onorevole capitolazione.
Ma come si può patteggiare colla perfidia? Gli agenti del despota, e fra gli altri Pronio, dopo di aver giurata fedeltà a Carafa, commettendo il più vile de’ tradimenti, lo incatenarono e lo condussero in Napoli, dove fu decollato.
Questa fu la fine di uno de’ Tesei della libertà napoletana. prestava una certa specie di culto? Come una tanta perdita, fatale alla patria, all’umanità, alla filosofia, potrebbe essere da me guardata ad occhio asciutto!…
Solo rammento per sua gloria, ch’egli in mezzo a’ tormenti non si turbò affatto; le violenze e le crudeltà erano dirette contro la sua polvere mortale; ma non arrivavano sino alla sede della sua sublime anima.
Condotto innanzi alle due tigri Speziale e Guidobaldi, che, colle mascelle ripiene di carne umana, rigurgitavano sangue, egli oppose alla viltà de’ loro oltraggi la fermezza del repubblicano, l’elevatezza dello stoicismo.
Il decreto di morte non lo commosse né punto, né poco. Questo fu per lui la sentenza di una vita più durevole del marmo e del bronzo, di una vita adorna del manto dell’immortalità.
Strascinato al patibolo, pieno di entusiasmo, disse al popolo: – Questo luogo per me è il letto della gloria; qui l’imparziale posterità innalzerà il mausoleo, che verrà collocato sulla tomba della sapienza… Popolo! calcola bene i tuoi interessi, e lacera la benda fatale, che il fanatismo e la tirannia ti han posto innanzi agli occhi.
Sappi che il sangue de’ martiri della patria, che ora tramanda vortici di fumo, fermenterà, e la fermentazione ne produrrà un maggior numero: sicché la repubblica risorgerà più bella dalle sue rovine, come la fenice dalle proprie ceneri. – Utinam!
Io direi che Ettore Carafa era un nobile di prima classe, se il far pompa di nascita non fosse proprio degli schiavi e degl’imbecilli, i quali ripongono tutta la loro grandezza in una croce, in un cordone o altre vili insegne; ma debbo dirlo per mettere in prospettiva il carattere di un personaggio, il quale, disprezzando nel governo monarchico, in cui vivea, gli omaggi, i titoli e le ricchezze, non soffriva di veder gemere la patria sotto una verga di ferro, per cui congiurò di emanciparla dalla più dura delle servitù.
La storia pochi esempi simili ce ne offre, e questi pochi sono registrati nei fasti dell’eroismo. Carafa fu carcerato in S. Elmo, donde fuggì dopo avervi languito per molto tempo. Andò a trovare asilo a Roma, e quindi a Milano dove a sue spese organizzò una legione.
Penetrate in Napoli le armi francesi, egli ne divise la gloria con tante gesta, in cui si segnalò il patriotismo.
Prima della caduta di codeste tre piazze, con mano tremante ed in mezzo a’ palpiti, si eseguiva l’universale spoglio e carnaggio umano; ma dopo il regalismo alzò la fronte, e non ondeggiando più nel dubbio di una riazione, devastò tutto ciò che gli si parava d’innanzi, a guisa di quei soldati, i quali prendendo di assalto una città, la mettono a saccomanno, e ad occhi chiusi dirigono i loro pugnali insanguinati contro tutti gli esseri a figura umana, non muovendosi a pietà a fronte dell’innocenza, né rispettando la virtù.
Da una estremità all’altra de’ dipartimenti si fece sentire la mania che già era divenuta epidemica; e non vi fu angolo di quelle contrade che non fosse stato a parte della tragedia, la più orribile di quelle che si siano rappresentate sul nostro emisfero.
E Ruffo? Ruffo suggeriva, approvava simili orrori, e destinava, mediante le sue benedizioni, un luogo nell’Olimpo agli autori de’ mali.
Mentre a tale stato lagrimevole erano ridotti i dipartimenti, in Napoli i membri della giunta di Stato, uomini quanto privi di nome e di fama, altrettanto colmi di turpitudine ed ignominia,10 facevano giuridicamente innalzare al patibolo dieci o dodici personaggi al giorno, non compresivi quelli che scannavano i barbari agenti di Carolina. In tal guisa la falce controrivoluzionaria mieté le teste di tutti i cittadini probi e virtuosi. In tal guisa, il regalismo, simile all’idropico, più ingoiava sangue umano, e più ne accresceva l’ingordigia…
Il tribunale omicida attentò anche sulla vita di Vincenzio Troisi, personaggio distinto per i talenti e per la morale.
Un sì fatto delitto produsse il fremito e l’indignazione negli animi di tutto il popolo e de’ nemici i più accaniti del sistema repubblicano.
Nel momento dell’esecuzione essendo sopravvenuta una inaspettata pioggia accompagnata da tuoni e baleni, il volgo credé che la divinità non avesse approvata una tal morte.
Onde nella città vi fu una sorda esplosione unito alla bravura. Dal governo fu mandato in Puglia ad estinguere un piccolo vulcano d’insorgenza, che vi era scoppiato. Invano si frapposero argini innanzi a lui. Ettore era fatto per eseguire prodigi.
Giunse ad Andria, suo proprio feudo. Quegli abitanti erano sordi alla voce della ragione. Sicché egli tenne la strada della moderazione; ma, avvedendosi che non potea riuscire, suo malgrado fece uso della forza.
Dopo altre prodezze fu mandato in Abruzzo, che fu il teatro della di lui gloria e della di lui catastrofe. L’assenza di Carafa dalla Puglia divenne funesta a quel dipartimento giacché i generali francesi, che gli succedettero, come Serrazin e Duhesme, si diedero in preda alle concussioni, le quali disgustarono gli abitanti.
I principali organi del tribunale di sangue sono Speziale e Guidobaldi. Il primo, uomo di ventura, era l’ultimo tra gli avvocati siciliani. Occupava la carica di giudice della Gran Corte pretoriale in Palermo; carica la quale non si dà se non agli uomini che hanno poco merito e molta miseria.
In tempi in cui la corte avea bisogno di uno scellerato, lo ricercò tra la feccia del popolo, e lo ritrovò in Speziale. Guidobaldi era un uomo miserabile; inetto procuratore in Teramo. Ivi s’introdusse nella casa di Ruggiero, uditore allora della provincia e fu l’amante della moglie. Ruggiero passò consigliere in Napoli, e la di lui moglie condusse seco l’amante, che protesse nell’avvocheria.
Ruggiero morì. La sua vedova rimase nella miseria, e Guidobaldi la obbliò. Fu veduta nelle di lui sale chieder la limosina, e riceverla per mezzo de’ domestici, giacché egli sdegnava di vederla.
Appena incominciò l’inquisizione di Stato, Guidobaldi divenne delatore. Fra gli altri tradimenti commise eziandio quello di denunziare un suo amico e cliente insieme, che lo consultava sulle accuse che temeva. Egli fu che fece cadere i maggiori sospetti contro Carafa. E questa infamia ebbe per ricompensa la toga. Si elevò sulla rovina di Giaquinto e Pignatelli, che eran stati i di lui protettori. In seguito distrusse anche Vanni, che lo avea difeso contro Pignatelli e Giaquinto.
Spinse la ferocia oltre la linea in cui l’avea portata Vanni. Fu più crudele e più vile. Si son ritrovate lettere sue, nelle quali prometteva premi e cariche ad alcuni, per indurli a deporre contro i pretesi rei d’opinione.
Fu tanto riputato in questo ramo, che la corte lo scelse direttore del tribunale di polizia o sia di pubblico spionaggio. Avvicinatisi i francesi, fuggì, e ricomparve coll’armata cristianissima.
Portò tant’oltre le sue idee di crudeltà, che, immaginando il gran numero di impiccati che vi sarebbero, i quali, secondo lui, dovevano oltrepassare quello di duemila solamente nella capitale, per far un beneficio al fisco, fece una transazione col boia, a cui invece di ducati sei ad operazione, che prima esigeva, stabilì una mesata fissa.
Soleva dire a’ suoi favoriti ch’egli allora pranzava con giubilo, quando piovevano le teste de’ giacobini nella piazza del Mercato. D’ira e di sdegno contro i manigoldi della virtù.
Si sospese dunque il martirio per alcuni giorni, ma poscia ricominciò con maggior vigore, senza rispettarsi né la volontà della nazione, né il corruccio del cielo.
Sicché la tavola necrologica degl’infelici napoletani divenne ben lunga. Io questa tavola di morte presento innanzi a voi, cittadino ministro, innanzi al genere umano, innanzi a’ secoli, affinché s’inorridisca al nome di “re”, affinché si pesino sulla bilancia delle infelicità umane le sciagure ed i mali che producono lo scettro e la corona.
Nel numero delle vittime, che giuridicamente sonostate immolate dalla tirannia nella sola città di Napoli dal mese di messifero anno VII sino a nevoso anno VIII, si contano i seguenti:
COMMISSIONE ESECUTIVA
Oltre Ciaja, di cui si è fatta menzione, sono stati impiccati;
Ercole d’Agnese, cittadino francese, oriundo napoletano.
Giuseppe Luogoteta, dottissimo e virtuosissimo soggetto.
Giuseppe Albanese.
Giuseppe Abbamonte, a cui è stata accordata la bella grazia della commuta-zione della pena di morte in quella de’ perpetui
ferri nella fossa della Favignana.
COMMISSIONE LEGISLATIVA
Oltre Pagano, Cirillo, Conforti, Russo, Scotti, de’ quali altrove si è parlato, si debbono annoverare:
Raffaele Doria.
Niccola Magliano, uomo rischiarato.
Giovan Leonardo Palomba.
EX-RAPPRESENTANTI
Prosdocimo Rotondo, ottimo avvocato.
Domenico Bisceglia.
Pasquale Baffi, eruditissimo e virtuosissimo soggetto, uno de’ primi grecisti del suo tempo.
Niccola Fasulo.
Leopoldo de Renzis.
Giovanni Riario, degli ex-nobili di prim’ordine.
Diego Pignatelli, ex-duca di Monteleone.
Vincenzio Porta, matematico.
A questi tre ultimi soggetti si è fatta l’istessa grazia della commutazione della pena di morte in quella della fossa della Favignana in vita.
MINISTRI
Gabriele Manthoné, ministro della guerra.
Vincenzio de Philippis, ministro dell’interno ed insigne matematico.
Giorgio Pigliaceli, ministro di polizia generale, avvocato celebre.
GENERALI ED OFFICIALI
Francesco Federici, antico maresciallo, uomo di genio, che all’elevatezza de’ talenti militari aggiungeva le cognizioni politiche, e che morì con la massima presenza di spirito.
Gennaro Serra, degli ex-duchi di Cassano.
Oronzio Massa.
Pasquale Matera, aiutante di campo di Joubert, al servizio francese.
Agamennone Spanò.
Giuseppe Schipani.
Carlo Mauri, ex-marchese di Polvica.
Carlo Muscari.
Michele lo Pazzo, capo di brigata al servigio francese.
Ferdinando Pignatelli,ex-principe di Strongoli.
Clino Roselli, letterato.
Niccolò Pacifico, gran botanico, matematico, letterato insigne e uomo dotato di una rara probità.
Niccolò Vitagliani, meccanico al servigio francese.
Giuseppe Riario, ex-nobile di prim’ordine.
Eleuterio Ruggiero.
Giuliano Colonna, fglio dell’ex-principe di Stigliano Colonna.
Francesco Grimaldi.
Francesco Guardati.
Niccola Fiani, di cui si racconta che mentre stava per morire sul patibolo, alcunistipendiati di Carolina si lanciarono addosso
a lui, lo fecero in pezzi, gli strapparono il cuore, e portarono quindi in trionfo le membra per la città.
Luigi Bozzauti.
Domenico Pagano.
Niccola Ricciardi. Giuseppe Cotitto, e
Domenico [Perla] di lui cognato.
Gaetano de Marco.
Melchiorre Maffei.
Pasquale Battistessa, di cui si sa con certezza, ch’essendo stato impiccato, fu portato inchiesa, dove diede segni di vita.
Fu narrato l’avvenimento a Speziale, che ordinò che si fosse terminato di uccidere in chiesa stessa: come si eseguì“.
Francesco Buonocore.
Michele Giampriani.
Gaetano Rossi.
Mario Pignatelli, fratello dell’ex-principe di Strongoli.
Colombo Andreassi.
Ignazio Falconieri, letterato.
Luigi Granalé, officiale di marina.
Raffaele Montemayor, officiale di marina.
Giambattista de Simone.
Andrea Mazzitelli.
Filippo Marini, ex-marchese di Genzano.
Giuseppe Cammarota.
Antonio Tocco. Felice Mastrangelo, memorabile per la sua morte intrepida e coraggiosa.
Antonio Tremaglia.
Pasquale Assisa.
Vincenzo Ischia.
Giovanni Varanese.
Raffaele Jossa.
IMPIEGATI CIVILI ED ALTRI PATRIOTI
Vincenzio Lupo, commissario del governo nell’alta commissione militare.
Onofrio Colace, ex-consigliere.
Luigi Rossi, giudice dell’alta commissione militare, felice ingegno e celebre poeta.
Gregorio Mattei, celebre letterato.
Antonio Sardella.
Niccolò Carlomagno, commissario del governo nella commissione di poli-zia.
Niccolò Palomba.
Niccolò Neri, letterato.
Gaetano Morgera.
Antonio e Ferdinando Ruggi.
Antonio Avella, alias Pagliuchella.
Severo Caputo, ex-nob1le, amministratore del dipartimento del Vesuvio.
Giuseppe Belloni, grande oratore e virtuoso, soggetto.
Eleonora Fonseca-Pimentel, celebre letterata. compilatrice del “Monitore”.
… Morglies.
Antonio Perna.
[Michele] Natali, vescovo di Vico, dotto uomo e spregiudicato ecclesiastico.
Gregorio Mancini, avvocato.
Pietro Nicoletti.
Francesco Astore, giudice di pace, quanto ricco di cognizioni, altrettanto po-vero di beni di fortuna.
Niccola Maria Rossi.
[Niccola] de Meo.
Antonio Piatti.
Domenico Piatti.
Pasquale Syes, proconsole francese.
Niccola Fiorentino, letterato ed ottimo giureconsulto.
[Michele] Granata.
Francesco Bagno, cattedratico di medicina nell’Università, uomo probo e disinteressato.
Niccola Mazzola.
Michelangelo Ciccone, poeta ed improvvisante celebre.
Giacomo Antonio Gualzetti, poeta.
Gennaro Arcucci, buon medico.
Niccola Lubrano, curato, pieno di dottrina e di probità.
Andrea Fiorentino.
Bernardo Alberini.
Antonio Scialoja.
Antonio de Luca.
Aniello Calisi.
[Cesare Albano di] Spaccone.
Antonio Coppola.
Onofrio e
Salvatore Schiano.
I1 figlio del castellano di Ponza.
Vincenzio Assanti.
Michele Castagliola.
Francesco Feola.
Giuseppe Cacace.
Leopoldo di Gennaro, aiutante del castello d’Ischia.
Giuseppe Vatilla.
Domenicantonio Ragni.
Gaspare Lucci.
[Antonio] Velasco, essendo stato minacciato da Speciale di fargli depositare la vita sulpalco, gli disse: – Non disporrai tu, vile carnefice, della mia esistenza, – si precipitò da una loggia e morì.
I seguenti condannati a morte hanno ottenuta l’istessa grazia della commu-tazione della pena di morte in quella della fossa della Favignana.
Emmanuele Borga.
Francesco Bassetti e
Annibale Giordano sono stati i soli vili che indultaronsi e scovrirono i pa-trioti occulti.
Pietro Mattia Grutther. Giuseppe Laghezza.
L’ex-principe di Torella.
Gregorio Ciccopiedi.
Luisa Sanfelice.
Giuseppe Albarella.
Giuseppe Fasulo.
Giuseppe Poerio, giovane di gran talento ed ottimo oratore
Rocco Lentini, modello di probità e di virtù.
Vincenzio Pignatelli di Marsico.
Tutti costoro soffersero l’iniqua sentenza con coraggio e senza smentire il loro sistema; tanto il desiderio di essere utili alla patria era divenuto per essi un bisogno ed un sentimento indelebile!
Tutti perirono sotto la scure del dispotismo, come quei quaranta cittadini de’ contadi occidentali di Scozia, i quali, disfatti a Pentland, vollero piuttosto morire col loro capo Mac-Cail, che rinunciare alla costituzione.
L’opinione universale de’ popoli ha tanto declamato contro Cristierno, quando, dopo la fuga di Gustavo, impadronitosi della Svezia, trucidò tutti i senatori ed i nobili di Stoccolma.
La stessa opinione ha tanto biasimata la barbara condotta di Carlo II, che, salito al trono dell’Inghilterra, mandò a morte Arrigo Wane, il virtuoso generale Lambert, Harrison, Scrope, Hackes e pochi altri; fece disumare i cadaveri d’Ireton, di Cromwell e di Bradshaw, che ordinò di sospendersi al patibolo.
Quanto codesto rispettabile censore dell’opinione, quanto la filosofia e la ragione debbono fremere contro le grandi stragi eseguite da Ferdinando, che nontrovano un parallelo nelle memorie della tirranide umana, e che deporrannocontro di lui sino alla fine del mondo? Qual anima apata e sragionata, scorrendo la tavola luttuosa che io ho presentata, potrà far di meno a non bagnarla di copiose lagrime, e di lagrime di sangue?
Io son sicuro che, se si strappa la lingua al genere umano, e ci resta un solo uomo che possa parlare, costui colmerà d’imprecazioni quel rettile coronato, e non cesserà mai di recitargli delle filippiche.
Credete forse, cittadino ministro, che i fulmini, i quali il braccio della tiranniascagliò sopra un intero popolo, dopo l’epoca della catastrofe si fossero esauriti?
Credete che il tempo avesse alquanto mitigata la ferocia di un mostro macchiato di sangue umano?
No. Dopo un anno di flagelli e di vessazioni, dopo tante scene di mali e di sciagure, il territorio napoletano continua ad essere il bersaglio dell’ira di quella corte, il teatro degli orrori e della desolazione.
Non ancora il Mediterraneo cessa di essere coverto di legni, che trasportano sulle coste della Francia tant’infelici, i quali sino al presente oltrepassano il numero di tremila. E chi in parte sono costoro?
Vecchi, ragazzi, donne, persone che hanno semplicemente pensato in favore del nuovo sistema, e molti eziandio, che per imbecillità e stupidaggine erano in un’assoluta nullità.
Tutti sono costretti ad andar raminghi di regione in regione, di lido in lido, fuggendo l’ira de’ re, degli aristocratici e de’ preti.
L’esistenza del ricco è tuttora esposta alle insidie della calunnia; il talento, la virtù, la probità, sotto il colorito del giacobinismo, vengono pugnalati dal tribunale dell’Inquisizione, che si sforza di far retrocedere il secolo della filosofia e della libertà verso i tempi barbari ed omicidi de’ tre Giovanni, di Sisto IV, Alessandro VI, e di dare all’Europa risvegliata i ferri e il sopore dell’Asi.11 I privilegi municipali, le prerogative, le quali da epoca remotissima la proprietà e la libertà civile del napoletano garantivano, sono state calpestate.
La nobiltà, che aveva avuto l’eroismo di sacrificare il privato interesse al grand’utile della patria, è del tutto perita; e per una metamorfosi politica si veggono i briganti, gli assassini, gli spioni decorati delle insegne senatorie e patrizie, spiegare fasto e terrore.
La Giunta di Stato, in seguito delle istruzioni ricevute, ha fatto una scala di pene, delle quali la minore è l’esilio.
Noi non vogliamo prevenire le riflessioni dell’accorto lettore nell’osservare come in siffatta classificazione la tirannia ha procurato di collocare la virtù sul posto del delitto, come la forza per un istante ha potuto imporle silenzio; ma la fama a cento bocche la fa echeggiare in tutt’ i punti dello spazio, e la giustizia, che è l’arbitra dell’universo, la rivendica degli oltraggi ricevuti; giacché la virtù non appartiene al regno degli uomini, ma all’impero delle leggi della natura, di cui ella è figlia.
I. Sono stati considerati come rei di primo ordine, e degni di morte:
1° tutt’ i principali impiegati della repubblica napoletana, e sotto il loro nome sono stati compresi tutti quei che furono rappresentanti, direttori, generali, commissari, organizzatori, membri dell’alta commissione militare e del tribunale rivoluzionario;
2° tutt’ i capi di clubs anteriori alla venuta de’ francesi;
3° tutti coloro che ebbero parte alla presa di S. Elmo, che andarono a trovare i francesi in Capua o Caserta, che vennero battendosi co’ francesi, o che fecero fuoco sul popolo napoletano, mentre combatteva coi francesi;
4° tutti coloro che si batterono a vista delle bandiere del re contro la di lui truppa;
5° tutti coloro che, o scrivendo o parlando in pubblico, avessero detto male del re, della sua famiglia e della religione;
6° tutti coloro finalmente che avessero dati non equivoci segni della loro empietà verso la caduta repubblica.
II Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, e che avevano segnata colle proprie mani la sentenza di morte, sono stati condannati all’esilio in vita ed alla confiscazione de’ beni.
III. Tutti quei che hanno occupati impieghi subalterni, sono stati affidati alla clemenza del re.
E chi fra loro non ne ha veduti gli effetti?
L’amministrazione arbitraria, che strascina la più dura delle servitù, è accompagnata da uno spoglio senza esempio, giacché il campo delle confiscazioni è interminabile, l’espiazione dei pretesi delitti è la multa, il numerario viene esaurito, e tutto si versa nell’erario del dispotismo.
Da tutto ciò ne risulta che quella regione, su cui la natura avea profusi tutt’ i suoi tesori, non presenta oggi che la faccia squallida della miseria, il pallore della fame.
Ne risulta che la Campania e la Puglia, bagnate dai sudori dell’agricoltore, non producono altro se non bronchi e spine, con cui la tirannia trafigge le carni degli abitanti, che riduce a scheletri.
Ne risulta che non è un partito il quale si vuol combattere, ma è tutta la nazione, a cui si vuol fare una guerra di esterminio. Tali sono le mire della moderna Teodora.
E Giove! E Giove sì la guarda, e stassi Placido ancor su’ gran misfatti inulti, E bada poi a incrudelir su i sassi!
Perché l’ignoranza assicuri il trionfo del dispotismo, le pubbliche cattedre son interdette, i collegi chiusi, gli studi privati proibiti. Sicché, se la mano riparatrice del fato non accorre al rimedio de’ mali, o se il coraggio della disperazione non produce una rivolta, la patria di Gravina, di Vico e di Filangieri sarà per divenire la Tartaria.
Qual altro torrente di calamità scorre da altra infetta sorgente?
Tutt’i dipartimenti sono ingombri di un’immensità di “visitatori”, i quali, colmi di rabbia, d’infamia e di delitti, come i bruchi alle biade, portano la devastazione alle campagne, che muggiscono e tremano sotto i loro passi.
Per loro opera, i santuari dell’onore e della pudicizia sono profanati con istupri, adultèri ed incesti; i palagi spogliati, le capanne derelitte, le teste de’ cittadini pendenti da’ patiboli innalzati su tutt’ i paesi…
In questo stato di cose, il figlio, strappato dalle mura domestiche, indarno domanda su l’esistenza dell’autore de’ suoi giorni. Inutilmente il padre cerca sapere se il pegno il più caro delle sue affezioni ancora respiri.
La sposa, errando nella regione de’ sogni, invano cerca l’oggetto de’ suoi amori: infruttuosamente l’immagine dell’idolo ch’ella adora si presenta alla di lei fantasia, alterata da timori e panici e reali.
Il fratello e l’amico ignorano la sorte delfratello e dell’amico, che o sono morti o spasimano in mezzo ai tormenti13 o pure, per iscampare.
Quei, che sono versati nella storia, sanno che cotesta imperadrice, nella minorità del figlio Michele, sterminò un popolo di manichei, che vivevano tranquillameme nell’Asia minore avendone solamente in un tempo immolati centomila al suo fanatismo. I preti l’hanno collocata nel numero delle piissime donne del secolo nono: dove i nostri gerofanti situeranno Carolina, sua emula?…
La storia della tirannide umana rammenta con orrore il toro di Falaride, l’orecchio di Dionigi, ecc.
Tempi a noi più vicini ci hanno offerti i lugubri esempi dell’atto di fede, de’ giudizi di Dio, della ruota.
La filosofia e la civilizzazione avevano già banditi dall’Europa siffatti spettacoli, che insultano la natura e svergognano la specie.
In Napoli la Giunta di Stato non solo ha rinnovati tutti gli orrori della tirannia, ma ne ha inventati de’ nuovi. Il giovane Acconciagioco, accusato di aver avuto parte in una congiura contro la monarchia, ha sofferto con ammirabile costanza il fuoco nella sua mano in presenza degl’ iniqui ministri.
E mentre gli si passava un ferro rovente dall’estremità del dito indice sino al pollice, egli ha serbato il silenzio col più fiero ed orgoglioso contegno. Così sono puniti in Napoli i semplici sospetti…
La maniera con cui sono stati trattati i detenuti nelle carceri è stata la più oppressiva e la più tirannica che mai si possa immaginare. Sembra impossibile che gli agenti della tirannia napoletana abbian potuto superare gli orrori della Bastiglia di Parigi.
Nel Castello Nuovo, precisamente, non si accordava un letto, per cui si dovea dormir sull’umido suolo nel tempo del più rigido inverno.
Non si permetteva ch’entrasse il cibo se non in un solo vaso, e se taluno prendeva tabacco, questo si mescolava spesso cogli altri cibi.
Si mantenevano gli arrestati senz’acqua, e per un mese furono privi anche di pane, cosicché moltissimi, i quali o erano miserabili, o pur aveano le loro famiglie lontane, non godettero di altro soccorso che della pietà degli altri infelici. Ogni due giorni erano spogliati nudi; si visitava tutto il loro picciolo mobile.
Né ciò bastava; si visitavano anche le loro persone, si conficcava un dito nell’ano, e orribile delle persecuzioni, colle armi alla mano soggiornano ne’ boschi e nelle selve, o si sono volontariamente esiliati, seguendo la sorte de’ loro congiunti.
In questo stato di violenza, la donzella è condannata a languire in seno ad una perpetua verginità, giacché non vi ha più chi possa stringere con lei il nodo dell’imeneo.
Sicché gl’immensi vuoti della popolazione restano irreparabili, e quelle contrade vanno a divenire un vasto deserto.
Lo spionaggio, che è proprio de’ governi illegittimi ed oppressori; lo spionaggio, ch’è il barometro dell’infelicità de’ popoli, è così promosso in Napoli dal timido dispotismo, che cerca squarciare il velo del pensiero, penetrare le coscienze de’ cittadini, paralizzando le loro parole e le loro azioni, rendendo precaria la loro vita.
Le notizie delle celebri vittorie di Biberach, di Stochach, di Memmingen, di Hochest e di Marengo, che, facendo epoca ne’ fasti della gloria, hanno sorpresa l’Europa, han fatto curvare sotto il peso di nuovi allori gli eroi francesi, che, mentre producono la conquista della pace, facendo prostrare l’Austria a’ piedi della Repubblica, alimentano i desidèri ed i voti delle anime libere d’Italia; codeste notizie riscaldando l’entusiasmo de’ napoletani, quanto sono state loro fatali! Innumerevoli persone, che hanno mostrato una segreta gioia ed ammirazione, comandata dalla grandezza stessa degli avvenimenti, sono state vittime delle denunzie, che loro hanno scavato l’abisso.
Così quei che sopravvivono all’incendio di Napoli sono scottati dalle caustiche ceneri.
Così un popolo pieno d’immaginazione ed espressivo è divenuto timido e muto; ed i disgraziati napoletani sono nel caso di dire con Tacito: «Certamente abbiamo dato un grand’esempio di pazienza, e, come l’età vetuste videro il più alto grado di libertà, così noi siamo giunti all’ultimo periodo della servitù.
Le denunzie e lo spionaggio ci hanno tolta la dolcezza di ascoltare e di parlare, ed avremmo perduta la memoria colla voce, se fosse in nostro potere così il dimenticare come il tacere».
La tirannia, non contenta di aver fatto piovere da sé sola tante calamità sopra quella nazione, per moltiplicarne il numero ha chiesto aiuto alla sua sorella, la superstizione, la quale con un cenno sconturba ed agita l’universo.
I1 fanatismo, che, come ministro della divinità, commette i più grandi delitti ed i tratti della più barbara ferocia, senza ispirarne l’orrore e senza dar luogo a’ rimorsi; che, tiranno de’ cuori e superiore a’ sogli, fa il sacrificio della virtù, non ascolta il grido dell’innocenza, ed oppone a’ diritti imprescrittibili della natura la volontà di Giove irritato;
il fanatismo, producendo una vertigine nelle menti, ha sparsa l’idea che il sistema di libertà sia diametralmente opposto alle leggi divine, e che i fondatori delle repubbliche siano i giganti della favola, i quali vogliono far la guerra al cielo. In tal guisa, l’ipocrita tirannia è riuscita a spargere il lievito della discordia e della guerra civile, e ad armare i cittadini l’uno contro l’altro.
Ha procurato di ergere un muro di separazione tra gli esseri più cari, i quali univa l’amicizia e la parentela.
Ha fatto degli sforzi i più terribili per produrre una rivoluzione nella sfera del sentimento, a spiantare i primi princìpi della sociabilità, a confinare gli uomini questo dito stesso si metteva in bocca per vedere se vi avevano nascosto denaro o veleno. Per l’ordinario erano battuti, esposti alla berlina e coverti di fango e di sozzure.
Celeste Libertà! tu che sei riputata una chimera da quei che non ti conoscono; tu che, qual nume benefico, rendi contente e liete le genti che ti posseggono, per qual motivo fai il martirio di quei cuori divoti, i quali, in mezzo al profumo degl’ incensi, ti pregano di aprire le argentee porte dell’aurora, e far succedere alla notte della miseria i giorni della felicità, diffondendo i tuoi benefici influssi sul suolo sterile e deserto della tirannia?
Per qual motivo fai morire tranquilli ne’ loro letti Augusto e Cromwell, mentre taci innanzi alla morte violenta del gran Mirabeau, e non paralizzi il braccio che porta il colpo fatale a Condorcet e Saint-Just?
Per qual motivo rendi sicure le mura della reggia di Pietroburgo e di Palermo, mentre non arresti gli orrori di Varsavia e di Napoli, permettendo che si passeggi ancora impunemente sugli ossami di tante migliaia dei tuoi proseliti?
«Dedimus profecto grande patientiae documentum, et sicut vetus aetas vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones et loquendi audiendique commercio, memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere ». Tacito, Vita di Agricola.
Nella notte dello stato selvaggio, nel caos della distruzione. Sotto i tropici si sono macchinati simili orrori? Infelice Napoli! Per qual fatalità tu sei così costretta ad essere il soggiorno del lutto e del pianto?…
Per qual fatalità i tuoi abitanti sono condannati a camminare su’ carboni accesi di tali e tante sciagure?… a temprare il parco cibo nell’assenzio e nel fiele?… a respirar l’aria appestata della morte?…
Qual destino, mia cara patria, qual amaro destino è il tuo?… Tu ti vedi priva de’ figli i più benemeriti, sulla di cui tomba non cessi di piangere al par di me. Tu ti rattristi all’eco lugubre de’ gemiti di quei che sopravvivono al furore del vandalismo, che ti ha lacerato le viscere. Sarà vano il tuo dolore.
No, nol credo; io getto con confidenza l’ancora della speranza nell’avvenire. Io riposo nel genio del ristauratore delle nazioni, del trionfatore degli eserciti, su quell’eroe, il di cui nome, disputato dalla storia delle scienze e degli imperi, tanto risuona dall’oriente all’occidente, dal settentrione al mezzogiorno.
I tuoi oppressori saranno puniti; altrimenti bisogna attendere che la natura intera si naufraghi e le sue leggi si sovvertano.Voi siete curioso eziandio, cittadino ministro, di sapere qualche cosa sul carattere e la condotta di un tiranno che oggi tanto figura negli annali del delitto.
Per adempiere quest’oggetto si richiederebbe il pennello di Tacito, istorico filosofo, che ha saputo così bene analizzare il cuore umano e penetrarne gli abissi, nel dimostrare l’importante verità, che la storia de’ despoti è il martirologio delle nazioni. Io intanto ve ne farò debolmente il ritratto, dietro l’idea che il mio spirito se ne ha formata. Eccolo in breve.
Fondete la sensualità di Sardanapalo, la ferocia di Mezenzio, l’imbecillità di Claudio, la viltà di Vitellio, la perfidia di Ferdinando il Cattolico nella testa di un mostro, che ha le membra umane ed il taglio gigantesco, e voi avrete Ferdinando Capeto.
Disgraziatamente per l’umanità, un tiranno di questo calibro ha avuto in moglie la più perversa e la più disonorata delle figlie di Maria Teresa d’Austria.
Questa donna unisce alle dissolutezze di ogni specie l’ambizione la più smisurata di regnare; bigotta in apparenza, fredda atea nell’interno.
La fisionomia è il gran libro dell’anima umana. I sentimenti, le passioni caratteristiche, le idee per l’ordinario si leggono nell’esterno dell’uomo. Un fisonomista, che guarda attentamente Ferdinando IV gli ravvisa subito l’imbecillità, la viltà e la frivolezza che formano ii fondo del suo carattere.
La ferocia e la sensualità sono qualità accessorie in lui, e principali in Carolina.
Da siffatto impasto morale ne nasce che, quando l’uno teme, I’altra spera e non si avvilisce nelle perdite; quando l’uno vuol frammischiarsi negli affari di Stato, un divertimento che gli si prepara dalla moglie, una Frine che gli si presenta, gli fa tutto obbliarequando l’uno vuol usare qualche ombra d’indulgenza, l’altra gl’istilla il furore, e lo fa entrare a parte de’ di lei pravi disegni; quando il primo desidera la pace, l’altra trova i mezzi pronti onde fargli comparire meno truce il demonio della guerra.
Le leggi della natura sono invariabili, sì ne’ cangiamenti fisici che ne’ morali. Costantemente si osserva che la prosperità e durata degl’imperi è affidata alla custodia della saggezza; che la rovina delle repubbliche e de’ regni deriva dalla corruzione de’ popoli, o dalla imbecillità, dalla tirannia, da’ vizi di quei che sono al timone degli affari.
Ecco l’origine di tutte le rivoluzioni; ecco il cerchio degli slanci e delle cadute, della nascita, dell’ingrandimento e della distruzione delle umane cose.
Il ministro Tanucci, uomo di gran merito, avea conosciuta bene la perversità della moglie di Ferdinando IV, allorché si ostinò a non farla intervenire nel Consiglio di Stato ed escluderla affatto dal maneggio de’ pubblici affari.
Ma Tanucci fu sagrificato, e Carolina, abusando della stupidezza di un marito imbecille, si pose in mano le redini del governo. Allora tutto andò male.
Questa donna travagliò a rovinare il Regno, perché odiava la famiglia de’ Borboni, disprezzava la nazione, e perché aveva un talento particolare di tutto distruggere, senza saper niente edificare.
Ella aveva avuti moltissimi amanti, ed il secondo avea sempre rovesciati i primi. I suoi amori più strepitosi sono stati con Gualenga, col duca della regina, con Marsico, Dillon, Caramanica, Rosmosky, ed Acton.
Quest’ultimo si elevò quando cadde Rosmosky, e per sostenersi, all’ascendente che gli dava l’amore nel cuore della regina, aggiunse la perfidia.
Onde come i primi rivali si erano contentati di perdersi a vicenda, così egli non si vide contento, se non quando li ebbe tutti distrutti, sapendo conservare se stesso.
Caramanica gli faceva ombra, e fu avvelenato per opera sua. Questo segnale della credulità la più cieca, e ad imitazione di Anna di Montmorency, per gloria del cielo fa la guerra agli uomini i più distinti nella sfera de’ talenti e delle virtù: bassa ne’ sentimenti, orgogliosa, intrigante, volubile, non ha della fermezza che nella crudeltà e nell’odiare tutto ciò che le dà ombra di sospetto.
La celebre ode, che si attribuisce al cittadino Laharpe, indirizzata alla famosa Antonietta, con maggior ragione si può adattare a Carolina, di lei germana sorella; la quale, continuando a vivere per nostra disgrazia, ha sorpassata la prima nella carriera delle scelleraggini e delle turpitudini.
Mostro, surto in mezzo al gelo,
Scempio e orror del nostro cielo,
La mia patria a quali serbi
Nuovi affanni, e strazi acerbi?
Deh, ti appressa, indegna, e mira
Come un popolo sospira
Negli abissi ampi e tremendi
De’ tuoi falli atroci, orrendi!
D’ira dunque estrema accesa,
Per compir tua degna impresa,
Di vederci hai pur talento
L’un dall’altro ucciso e spento?
La regina, come tutt’ i tiranni della terra, secondo il ritratto che ne fanno Aristotile e Macchiavelli, è ambiziosa, crudele, piena di sospetto e prodiga. Sicché l’accorto Acton istillò o, per meglio dire, fortificò nella di lei anima i sospetti di Stato.
Per questo riguardo rovesciò Medici e molti altri nobili, ed ingrandì la lente dell’immaginazione stravolta, colla quale ella guardava i francesi.
Per questo riguardo in tempo di pace mirava con occhio bieco i ministri della repubblica, i quali eludeva nell’esecuzione de’ trattati; mentre tutto accordava agl’inglesi. In tal guisa Acton divenne l’idolo di Carolina ed il Richelieu del regno di Napoli, in quanto al potere, colla sola differenza de’ talenti.
Per vie più assicurare il suo impero, egli tenne l’altro mezzo d’interessare Carolina ne’ suoi furti, onde dar campo alle di lei immense profusioni, le quali oltrepassavano la somma di tre milioni di ducati l’anno, e onde agevolarla a salariare lo spionaggio e l’impudicizia.
Acton trovò il modo di rubare queste ingenti somme alla nazione, per darle all’iniqua adultera.
Da ciò tante speculazioni chimeriche, tanti progetti ineseguibili: da ciò organizzazione di marina, ristaurazione di porti, accrescimento di truppe ed altre imprese, che, incominciate e non mai menate a capo, esaurivano le finanze dello Stato, senza produrre alcun utile reale.
In quanto a’ suoi progetti, non mai realizzati, Acton si può paragonare a don Chisciotte, il quale aveva il piacere di fabbricare castelli in aria.
Giova avvertire che, quando si parla degli amanti di Carolina, non si ha da supporre che il numero si debba limitare a quei soli de’ quali abbiamo fatta menzione.
La lussuria insaziabile di codesta donna ne aveva mille altri, ed anche gl’ignoti erano ammessi al suo lupanare giacché ella avea delle profane incaricate a procurarle tutti quei giovani, i quali, per l’aspetto o per…, erano meglio atti a soddisfarla.
Una di siffatte profane era la marchesa di S. Marco, la quale agiva nello stesso tempo da Mercurio e da Tribade… Io qui svelerei altri aneddoti relativi alla deboscia di Carolina se non temessi di offendere il pudore e di mettere in prospetto nuovi ed inuditi tratti di libidine.
Fama corre che anche Castelcicala fosse stato uno de’ suoi lenoni, ma ciò non è certo; e quando anche lo fosse, la storia non se ne deve interessare. Solo bisogna far conoscere il carattere di questo cortigiano, perché si abomini. Castelcicala è più vile, più ignorante e, per conseguenza, più crudele di Acton.
Deve la sua elevazione agli amori della moglie con Pitt, essendo stato promosso in Napoli dal partito inglese.
Serviva Acton colla viltà, Carolina colla crudeltà e coll’infamia, in maniera che ambedue non trovarono migliore esecutore de’ loro disegni.
Egli, prostituendo la carica ed il sentimento a’ piedi del trono, fu l’autore della persecuzione promossa contro gli avanzi della repubblica; egli fu che incaricò Mattei e molti altri uomini turpi perché dimostrassero che la capitolazione fatta co’ ribelli non dovevasi osservare; egli fu che disse che tutt’ i rappresentanti erano rei di usurpata sovranità; egli a buon conto diede la forma legale alla più solenne ingiustizia, e fu uno de’ principali anelli della catena de’ fatali avvenimenti.
Carlo Romeo, che in tempo della repubblica non avea commesso altro delitto se non quello di scrivere una canzone contro di lui, andò a depositare la testa sul patibolo.
Vemimila persone, che furono arrestate in Napoli e ne’ dipartimenti, debbono ripetere in parte la loro catastrofe da cotesto vile stipendiato del delitto.
Furie orribili e ferali,
Che a te possan dirsi eguali,
Cerca invan la mia memoria
Nell’antica e nuova istoria.
Sl, più prodiga ti veggio
Di lei, ch’ebbe e scettro e seggio
Là sul Nilo, e al vincitore
Di catene avvinse il core.
Più superba ed arrogante,
Indegnissima regnante,
io ti stimo d’Agrippina;
Dell’istessa Messalina
Più lasciva; e più inumana
Della Medici Toscanat.
Aggiugnete a tutto ciò i consigli e l’amicizia di Acton, uomo che, dotato di tutti i talenti dell’intrigo, non ha una idea sublime nella testa, né un sentimento generoso nel cuore; ministro corrotto, perfido, adulatore; quanto avido di ricchezze e di potere, altrettanto indifferente alla gloria che sconosce, al merito ed alla virtù che deprime: aggiugnete questo vile Seiano, questa ridicola scimia del ministro britannico, e voi avrete un triumvirato più funesto alla felicità delle popolazioni, di quello di Ottaviano, Antonio e Lepido.
Così riesce facile l’indovinare la condotta di quella corte relativamente a’ francesi nella luminosa carriera della loro rivoluzione. Infatti, all’apparir sulle rive della Senna l’alba della libertà, che riempì di gioia tutt’i cuori idolatri della virtù e della felicità sociale; all’aspetto della nascente filosofia, che proclamava la risurrezione de’ popoli e l’esterminio della razza gotica de’ re, il despota della Sicilia concepì un odio inestinguibile contro il nome francese.
La moderna Teodora, agitata dall’Eumenidi, divenne più implacabile di Giunone, quando fu offesa da Paride. Penetrata da quest’odio, si porta col marito a Vienna, ed entra ne’ trattati di Pavia e di Pilnitz, che definivano la lacerazione della Francia e l’eccidio della massima parte de’ francesi.
La sua corte, che diviene l’officina degl’intrighi degl’inglesi e degli emigrati, spaventata dalla flotta del contrammiraglio Latouche, giura alla Francia neutralità, per congiurarne meglio la perdita.
La vìola ben tosto apertamente coll’insulto dell’armi francesi e del ministro Makau, cui fa vilmente involare nella propria casa tutte le carte del di lui ministero. In seguito lo bandisce, proscrive tutt’ i francesi con un proclama, in cui li insulta co’ nomi di “scellerati” e di “sediziosi novatori”.
Monstre échappé de Germanie,
Le désastre de nos climats,
Jusqu’à quand contre ma patrie
Commetteras-tu tes attentats?
Approche, femme dètèstable,
Regarde l’abime effroyable,
Où tes crimes nous ont plongés!
Veux-tu donc, extréme en ta rage,
Pour consommer ton digne ouvrage,
Nous voir l’un par l’autre égorgés?
En vain je cherche en ma mémoire
Le nom des étres abhorrés;
Je n’en trouve point dans l’histoire
Qui puissent tétre comparés,
Oui, je te crois, indigne reine,
Plus prodigue que l’Egyptienne,
Donc Marc-Antoine fut épris,
Plus orgueilleuse qu’Agrippine,
Plus lubrique que Messaline,
Plus cruelle que Médicis.
Mette in piedi nel tempo istesso la terribile Giunta di Stato, e per mezzo della medesima imprigiona ed impicca coloro, che per qualsivoglia motivo avean trattato il ministro e ‘l contrammiraglio, facendo dichiarare la Francia una “fetida laguna”, e i francesi una “schiatta di vipere”.
Spossa frattanto lo Stato colle immense concussioni e furti di oro ed argento, che manda all’imperadore, onde poi n’è risultato il fallimento de’ pubblici banchi.
Unisce una sua flottiglia, a quella degl’inglesi, e manda delle truppe a Tolone, aringando il re stesso a’ soldati ed inculcando loro la strage de’ francesi, senza dar loro giammai quartiere.
Fuggono da Tolone le sue truppe insieme con quelle degli alleati colla stessa viltà colla quale l’avean conquistata; e Ferdinando entra a parte de’ ladronecci commessi in quegli arsenali, ed accorda asilo e protezione nella capitale a’ principali traditori di quel porto.
Per nuocere maggiormente a’ francesi, manda Spanocchi, comandante di una sua fregata, contro la Francia, uomo venduto all’Inghilterra, in Toscana, e lo fa destinare da quel duca governator di Livorno.
La rivoltante ed astiosa condotta di costui muovono Bonaparte a deporlo e a mandarlo imprigionato a Firenze con una forte commendatizia a quel piccolo despota.
Si vede successivamente costretto a chieder la pace alla Francia. Bonaparte gliel’accorda: ma, contro uno de’ principali articoli segreti, che ammetteva la tolleranza delle nuove opinioni politiche e la sicurezza de’ loro partigiani, non solamente gli occulti repubblicani, ma i semplici conoscenti de’ Francesi sono deportati, gettati nelle bastiglie ed eseguiti.
Promette il gastigo di coloro che aveano involate le carte a Makau; ma invece di gastigarli li occulta e li premia. Intanto congiura occultamente di far dichiarare la Svezia contro la Francia per mezzo del ministro Ampheld, cui si cercava di crear reggente di quel regno in luogo del zio del re, ch’era deciso per la neutralità.
A’ risentimenti di quella corte, fa scortare Ampheld dal marchese del Vasto fino all’Adriatico, facendolo ivi imbarcare per Trieste. Conchiusa la pace colla Francia, ne viola in tutti gli articoli i trattati.
Riceve ne’ porti arma, ed approvvisiona la flotta inglese comandata da Nelson; fa distruggere la francese nelle acque di Aboukir, ne accoglie con festa, musica ed illuminazione il distruttore; ristaura ne’ sui cantieri i legni inglesi, che aveano molto sofferto nel combattimento: si collega colla Porta ottomana, e colla Moscovia, stringendo nuovi legami di alleanza coll’imperatore e l’Inghilterra.
Finalmente, sotto gli occhi del ministro francese e cisalpino, in seno della pace, si sforza di radunare le materie combustibili, onde accendere il fuoco della guerra; mentre congiura col re sardo, col duca di Toscana ed il prete di Roma di suonare l’allarme in tutta l’Italia, sollevarne le popolazioni e produrre un nuovo vespro siciliano più micidiale e più nero del primo.
Più volte, ad imitazione del gabinetto di Saint-James, fa il mortorio di Bonaparte, mentre l’attività del di lui genio era ammirata da quaranta secoli nelle sabbie brucianti dell’Egitto, antica culla delle arti e delle scienze. Insulta e denigra il nome di colui che va ad appoggiare la libertà di Europa a quella dell’Asia, menando ivi la rivoluzione de’ lumi, dopo di aver prodotta la rivoluzione dell’eroismo in Italia.
Discaccia da Napoli Lacombe Saint-Michel, il quale, senza dilazione alcuna obbligato a sortirne, a bella posta si fa cadere, per opera di Carolina e di Acton, nelle mani de’ corsari turchi.
E Dolomieu che, contro tutte le leggi delle nazioni, si tiene ancora imprigionato col console Ribaud nella fossa di Messina, qual grido d’indignazione eleva contro quel re antropofago?
Dolomieu, che non ha potuto ottenere il favore di essere piuttosto fucilato che di menare una vita moribonda in mezzo a’ più crudeli tormenti, qual terribile impressione deve far ne’ cuori anche i meno suscettibili di sentimento?
Se il governo francese si è protestato apertamente di fare espiare al senato di Amburgo il tradimento commesso contro il Bruto dell’Irlanda, Napper-Tandy, non dovrà lanciare il tizzone rivoluzionario su quella reggia, dove soggiorna il delitto con tutto il corteggio delle scelleraggini e de’ sacrilegi?
Non dovrà punire severamente, ad istanza dell’umanità oltraggiata e della giustizia vilipesa, gli artigiani di tante calamità?… Accaduta la crisi di Roma, il re di Sicilia mordé la polvere, quando vide sulle rovine del Vaticano ristaurato il Campidoglio; si riempì di fremito all’aspetto de’ tribuni, de’ consoli, de’ senatori, che si sforzavano di risvegliare la libertà dopo il sonno di diciotto secoli; fu roso da gelosia nel guardare l’estensione della potenza gigantesca del gran popolo.
Altronde la massa de’ lumi, che per la loro forza espansiva penetravano fino all’estremità della Bassa Italia, questa imponente massa feriva molto da vicino il dispotismo napoletano.
Sicché si prepararono tutt’ i modi di distruzione, in maniera che, all’improvviso e senza dichiarazione di guerra, si fece una irruzione nel territorio romano, e si stesero le braccia per iscannare la libertà de’ discendenti degli antichi legislatori dell’universo.
Il general tedesco Mack, uomo di corte vedute, fu destinato capo delle truppe napoletane.
Costui, di concerto colla furia infernale e coll’intrigante Acton, persuase l’imbecille Ferdinando che egli avrebbe invasa tutta l’Italia. Su questa fiducia penetrò nel territorio della repubblica romana, inviando al general francese la seguente lettera:
Signor Generale, Io vi dichiaro che l’armata di S.M. siciliana, che ho l’onore di comandare sotto la persona stessa del re, ha ieri passata la frontiera per mettersi in possesso dello stato romano, rivoluzionato ed usurpato dopo la pace di Campoformio, e non mai riconosciuto e approvato da S.M. siciliana, né dal suo augusto alleato l’imperatore e re. Domando che facciate ritirare nella repubblica cisalpina, senza frapporre il più piccolo ritardo, tutte le truppe francesi che si trovano nell’anzidetto Stato romano, e di evacuare tutte le piazze ch’esse occupano.
I generali comandanti le diverse colonne di truppe di S.M. siciliana hanno ordine il più positivo di non incominciare le ostilità, se le truppe francesi si ritirano all’invito che loro ne verrà fatto; ma d’lmpiegare la forza nel caso che resistano.
Io vi dichiaro inoltre, signor generale, che riguarderò come un atto di ostilità se le truppe francesi metteranno piede sul territorio del granduca di Toscana. Attendo la vostra risposta senza il menomo ritardo, e vi prego di rispedire il maggiore Reiscach, che v’invio, al più tardi 4 ore dopo che avrete ricevuto questa mia lettera.
La risposta dev’essere positiva e categorica sì alla domanda dell’evacuazione dello Stato romano, come a quella di non mai metter piede sul territorio della Toscana.
Una risposta negativa sarà considerata come una dichiarazione di guerra, e S.M. siciliana saprà sostenere colla forza le sue giuste domande, che io v’indirizzo a suo nome. Ho l’onore, ecc…
II re di Sicilia, sempre irresoluto e timido nelle sue deliberazioni, come sono i piccoli tiranni, malgrado l’organizzazione di un esercito di 80.000 uomini, incontrava difficoltà a misurarsi co’ francesi e violare di nuovo il trattato di pace.
Ma la regina, che spirava furore e strage, si propose in ogni conto di farlo decidere al partito della guerra. Sicché spedì un messo all’imperatore, pregandolo di mandare in rinforzo delle truppe napoletane almeno un corpo di ventimila austriaci. Francesco II rispose che, non essendo quello il tempo proprio, si doveva attendere la primavera.
L’impaziente Carolina che voleva vedere in un istante la distruzione de’ francesi, e che si fidava ad un esercito quanto numeroso, altrettanto indisciplinato e malcontento, pensò con Acton di presentare all’imbecille re una lettera a nome dell’imperatore, che assicurava il pronto invio delle sue truppe.
Si eseguì dunque il disegno per mezzo di Arriola, ed ebbe il suo effetto.
Dietro la disfatta e dietro la fuga da Roma, Ferdinando restò stupefatto di non aver veduto alcun movimento per parte de’ tedeschi. Altronde la regina temeva che non uscisse a giorno la trappola in cui ella aveva tirato il credulo marito.
Sicché pensò di distruggere quei ch’erano a parte del segreto e che potevano svelarlo al re. Per sì fatto motivo, sotto pretesto di giacobinismo, coll’efficacia di Pasquale di Simone, famosa spia, fece trucidare il corriere del popolo, che lo trascinò per le strade della città.
Foggiò ad Arriola un’accusa di segreta intelligenza con Championnet, mediante la quale costui venne posto in castello assieme con Carlo Gonzales, uffiziale della sua segreteria che poscia fu esiliato nell’epoca della capitolazione ed ora trovasi a Milano con moglie ed una piccola figlia.
Dopo di avere così compita l’opera dell’intrigo, dell’eccidio, del tradimento, Teodora fuggì in Sicilia, dove non ha cessato di tenere la stessa condotta.
E, per vie più rendersi famosa, è andata in Toscana a fabbricare le armi della discordia e della guerra civile; quindi a Vienna, per preparare un nuovo diluvio di mali, e per sommergervi l’Europa intera.
A buon conto, questa donna infernale imita Caligola nel desiderare che tutto il genere umano avesse una sola testa per poterla recidere.
Il piano di Mack, mal combinato, abortì. Egli, anziché concentrare le sue forze, le divise, e la divisione preparò i suoi rovesci, senza dargli il piacere di cogliere quegli allori ch’ei già vedeva germogliare nel campo delle chimere.
La repubblica romana riposava sotto l’ombra della protezione francese. Sicché Championnet, dando un esempio che di rado si legge nelle pagine della storia, il bravo e valoroso Championnet, aiutato da Macdonald, colla rapidità del fulmine disfece un esercito teatrale, composto di gente strappata a forza dall’aratro, dall’esercizio delle arti, dallo studio delle facoltà.
L’eroe francese, dopo aver fugato il despota, che, colmo di turpitudine e pieno di rabbia, simile ad un cinghiale ferito, si andò a nascondere negli antri dell’Etna, menando seco le immense ricchezze rapite alla nazione, alla quale avea rimasti i soli occhi per piangere, dopo di avere interamente liberato il territorio di Roma, penetrò nel regno di Napoli: ed avendone occupate le piazze, tentò di accostarsi alle porte della capitale, ad invito di tutt’ i nemici della tirannia, pubblicando il seguente proclama:
Il vostro tiranno, napoletani, ha da sé stesso abdicato il trono, provocando la nazion francese, della quale sperimentato avea la clemenza. Voi non avete più re, rientrate ne’ vostri diritti già da tanto tempo usurpati.
Avrete un governo libero e repubblicano, fondato sui principi dell’eguaglianza: gli impieghi non saranno più il patrimonio esclusivo de’ nobili e de’ ricchi, ma la ricompensa de’ talenti e delle virtù. Ricevete i francesi come amici e liberatori, e respingete le istigazioni perfide di coloro che vorrebbero eccitare in voi la diffidenza ed il timore.
Le vostre proprietà, il vostro culto sono sotto la garanzia della lealtà francese.
Ormai un santo entusiasmo si è manifestato in tutt’ i luoghi per dove siamo trascorsi, la coccarda tricolore è stata innalzata, gli alberi della libertà sono stati piantati, le municipalità e le guardie civiche organizzate.
I satelliti della tirannia fuggono dinanzi a noi, come la polvere spinta dai venti; e i patrioti, proscritti da lungo tempo, si radunano intorno alle nostre bandiere repubblicane.
Dichiaratevi senza timore: organizzate legioni, create municipalità, che sono le prime magistrature popolari; abbiate guardie nazionali, alzatevi per mantenere i vostri diritti. I destini dell’Italia debbono adempirsi, e voi ancora siete chiamati a godere i benefici del governo repubblicano. CHAMPIONNET
Allora fu che gli agenti di Capeto e della sua sgualdrina, mediante un ordine da essi ricevuto, ricorrendo a’ modi di distruzione, incendiarono i vascelli nazionali, commettendo il più grave oltraggio alla maestà ed alla sovranità del popolo; aguzzando i pugnali del fanatismo popolare, menarono i lugubri giorni dell’anarchia la più esecrabile.
Ferdinando, profugo coll’intera famiglia, facendo uso de’ mezzi i più orribili ed i più disperati, lasciò Pignatelli in qualità di suo agente in Napoli, colle nere istruzioni di organizzare e ‘l delitto ed il brigantaggio, e di suscitare i furori di una guerra civile che avesse fatti distruggere l’un dall’altro tutt’ i napoletani.—
Tutto perisca, purché non vada in mano de’ francesi —gridava Carolina qual baccante. Pignatelli, per guadagnar tempo ond’eseguire gli empi progetti, conchiuse un armistizio col generale Championnet, e, lungi di adempierlo, fuggì anch’egli in Sicilia, dopo aver armati gli assassini usciti fuor delle prigioni, i birri, i delatori, gli omicidi e i facinorosi, lasciando Napoli in preda al disordine ed alla dissoluzione politica.
In codesto stato di violenza la punta del pugnale decise della vita, della libertà civile e della proprietà di ciascuno individuo. Il generale Pignatelli avea ricevuto ordine dalla corte che, se i francesi si approssimavano alle porte di Napoli, egli incendiasse l’arsenale, facesse scoppiare una mina sotto la città, e che il castello S. Elmo la riducesse in cenere bombardandola. Pignatelli non ebbe tempo ad eseguire tutte queste esecrabili scelleraggini.
Fuggì in Palermo, dove fu imprigionato per non aver eseguiti i comandi in tutta la loro estensione. Ecco come i re sono nell’ordine morale ciò che i mostri sono nel fisico. Popoli della terra! calcolate una volta i vostri interessi, facendo scomparire il fascino dell’impostura, i prestigi dell’errore.
Conoscete l’indole degli assassini coronati, che in tempo di pace vi fanno una guerra di distruzione; armate le vostre braccia del pugnale della rivolta; unitevi in un’immensa assemblea, in seno di cui suonerete la generale per esterminare i felloni della vostra sovranità.
Fra innumerevoli altri, i due fratelli Filomarino e l’avvocato Scategna divennero le vittime de’ briganti prezzolati e fanatizzati. I dipartimenti furono del pari ravvolti nel vortice degli orrori.
Gli uomini i più probi caddero sotto i colpi degli empi organizzati dall’iniquo vicario. Gli albanesi, sulle rive dell’Adriatico, nel dipartimento del Sangro, avvezzi all’assassinio ed al contrabbando, per l’esca del bottino formarono orde furiose, portando da per tutto l’infamia, la desolazione e la morte.
I fratelli Brigida di Termoli, giovanetti forniti di virtù superiore alla loro tenera età, strappati dal seno dell’infelice madre dal tribunale inquisitorio, seppelliti nel baratro delle carceri per quattro anni, appena riveggono la luce del giorno, appena co’ loro amplessi e co’ loro baci asciugano le lagrime dell’afflitta genitrice, che sono sbranati da questa infame masnada; ed un saccheggio, che non risparmia neanche le tegole e il pavimento della casa, corona il massacro.
Che dirò di te, virtuosissimo Gennaro di Casacalenda? I tuoi talenti, la tua virtù senza esempio, il tuo disinteresse incomparabile non poté disarmare gli amici della fazione del delitto!…
I1 tuo patrimonio non esiste più; ed i tuoi figliuoli non hanno altra legittima che la rinomanza delle tue azioni e l’esempio di quelle grandi qualità che caratterizzano gli eroi.
Intanto Championnet rapidamente si avanzò per sottrarre Napoli da sì fatta anarchia.
I patrioti, tutte le persone dabbene ed amanti dell’ordine, colla direzione di Moliterni, che al presente è generale di divisione nelle armate francesi, gli facilitarono l’ingresso, e benché i lazzaroni stipendiati e fanatizzati si accinsero a lottare coll’armata vittoriosa, pure l’arena restò allagata del sangue di cotesti automi.
Sicché i francesi al di fuori, al di dentro i patrioti, che occupavano il forte di Sant’Elmo, colla direzione dello stesso Moliterni, trionfarono degli ostacoli e pervennero a rovesciare un trono che già vacillava sotto il peso de’ delitti, a spiantare un governo, che, facendo guerra a’ diritti dell’uomo e del cittadino, era caduto nell’universale abominio e nell’odio sì del satrapo che sedea sul carro della fortuna come del meschino ch’era schiacciato sotto le ruote.
Il Direttorio approvò tutt’i passi di Championnet, sì nel rovesciare il soglio di Napoli che nel dichiarar liberi ed indipendenti gli abitanti. Macdonald ed Abrial assicurarono eziandio che la repubblica napoletana era garantita dalla gran nazione, e che i legami ed i rapporti scambievoli non erano punto differenti, dovendo per l’avvenire considerarsi sotto l’istesso punto di vista i francesi ed i napoletani.
La repubblica dunque, proclamata dall’intera nazione e riconosciuta dal Direttorio, aprì un campo delle più soavi idee allo spirito, diede un nuovo slancio all’entusiasmo, impresse la più viva commozione a’ sensi, e risvegliò nel cuore di tutti l’amor della patria, della libertà e della gloria.
Il patriotismo che si spiegò in Napoli era degno de’ bei giorni di Sparta ed Atene.
Né gli sconcerti e gli abusi, che sono inerenti ad una rivoluzione come le macchie negli astri, intiepidirono l’effervescenza della gioia e del piacere universale nel vedersi le nuove magistrature popolari, le nuove leggi, i nuovi diritti, per così dire, ed una totale rigenerazione politica.
Io qui lascio de’ fatti, cittadino ministro, che potrebbero esser degni della vostra considerazione, ma che non entrano nel mio piano, giacché mi son proposto di dipingere le principali cose in miniatura.
Solamente vi ricordo che i tesori, i quali Ferdinando avea rapiti alla nazione, servirono a fabbricare le catene al liberatore di Napoli. Il Direttorio, illuso dalla calunnia, richiamò Championnet, mentre stava progettando una discesa in Sicilia, e lo sprofondò in una carcere.
Generale cittadino, guerriero filantropico! questo fu il prezzo che la venalità ti decretò, quando le tue gesta rimbombavano dalle sponde del Tevere e del Sebeto sino al Volga ed al Tamigi.
Tu fosti costretto a partire; ma la tua memoria, i tratti della tua clemenza restarono impressi negli animi riconoscenti di tutt’ i figli di Partenope. Tu fosti soggettato ai ceppi; ma la Gloria, sdegnata, percorse la terra, e sollevò l’opinione di tutt’i popoli contro i tuoi persecutori.
Tu sei morto; ma l’urna dove riposa la tua cenere sacra sarà bagnata di lagrime finché vi sarà ombra di libertà in mezzo alle associazioni umane; il tuo nome vivrà fino a quando non si vedranno annichilite le virtù, la giustizia e la verità. Gli stessi tesori, cittadino ministro, frutto delle rapine e dei sacrilegi, servirono…
Ma quali dure verità mi si vogliono strappare di bocca?…
Grazie siano rese al nostro concittadino, il gran Bonaparte, che, come una cometa, ricomparendo sull’orizzonte politico dell’Europa, ha fatto scomparire i mercanti de’ popoli, ha chiuse le porte della venalità, ha ristaurato l’onore francese; e menando l’aurora, la quale promette i giorni della felicità nazionale, il godimento dell’indipendenza, sull’eliseo delle arti e delle scienze, combatte l’idra della coalizione estrappa dalle sue fauci i pezzi della bella e disgraziata Italia;20 di quella Italia, il di cui nome risveglia l’idea di trenta secoli, per rannodare di nuovo il filo della sua libertà, e darle quella unione e quell’ascendente, che un tempo fece impallidire il mondo.
COLPO D’OCCHIO SU L’ITALIA
L’Italia, non essendo divisa né per mezzo di grossi fiumi, né di gran montagne, godendo la stessa bellezza di cielo, presso a poco la stessa fertilità di suolo, racchiudendo in sé tutte le umane risorse, bagnata dal Mediterraneo, dall’Ionio, dall’Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili, sembra che dalla natura sia destinata a formare una sola potenza.
I suoi abitanti, che parlano la stessa lingua, che hanno la medesima tinta di passioni e di carattere, che godono di un egual germe di sviluppo morale e di fisica energia, che non sono separati né da interessi, né da opinioni religiose, sono fatti per essere i membri della stessa famiglia.
Il fatto annunzia la possibilità. Scorrete la storia, e vedrete che sotto la repubblica romana, l’Italia riposò all’ombra di un solo governo e di una sola costituzione politica; fu libera ed indipendente, si elevò al di sopra della linea orizzontale di tutte le nazioni del globo, a cui dettò la legge della vittoria, e giunse ad essere la regina dell’universo. In quell’epoca l’italiano, appartenendo ad una gran società, orgoglioso di star assiso su’ trofei ed i trionfi, di decidere della sorte de’ re, di vedere i fiumi delle ricchezze della terra venire a colare sul suolo ch’egli abitava, qual orgoglio nazionale doveva avere! quali sentimenti magnanimi.
Sin dall’epoca in cui Bonaparte sulla cima delle Alpi risvegliò gli assonnati spiriti italiani collo strepito delle sue armi, pose a giorno i suoi disegni di sottrarre dal giogo queste nostre contrade. Ecco i suoi proclami:
«Sì, o soldati, voi avete fatto molto… Ma non vi resta forse più nulla a fare? Si dirà di noi che abbiamo saputo vincere, ma non profittare della vittoria? La posterità ci rimprovererà di aver trovato Capua nella Lombardia?…
Coloro che hanno aguzzati i pugnali della guerra civile in Francia, che hanno vilmente assassinati i nostri ministri, incendiati i nostri vascelli a Tolone, tremino. L’ora della vendetta è suonata.
Ma i popoli sieno senza inquietudine; noi siamo amici di tutt’ i popoli, e particolarmente de’ discendenti da’ Bruti, dagli Scipioni e dagli uomini grandi che abbiamo presi per modelli.
Ristabilire il Campidoglio, collocare onorevolmeme le statue degli eroi che lo resero celebre; risvegliare il roman popolo anneghittito da più secoli di schiavitù, tale sarà il frutto delle vostre vittorie; esse faranno epoca nella posterità; voi avrete la gloria immortale di cangiar l’aspetto della più bella parte dell’Europa.
Popoli dell’Italia! l’armata francese viene per rompere le vostre catene; il popolo francese è l’amico di tutt’ i popoli; venitegli incontro con piena confidenza… Noi faremo la guerra da nemici generosi; noi non l’abbiamo che contro i tiranni che vi tengono in schiavitù. BONAPARTE ».
Se ne’ preliminari di pace di Leoben il vincitore degli alemanni non poté realizzare le sue vedute, se ne deve incolpare il Direttorio, ch’era alla testa delle negoziazioni.
Ora ch’egli siede su’ destini delle repubbliche, ed abbraccia nell’immensità de’ suoi pensieri il genere umano, sarà nel grado di dare alla Francia le palme della vittoria innestate ad un’ottima costituzione politica; all’Europa il tanto sospirato olivo della pace, all’Italia, ch’è la sua madre, i trofei dell’indipendenza e della libertà. In tal guisa il di lui genio, superiore a’ Franklin ed a’ Washington, meriterà la stima dell’universo ed acquisterà titoli immortali alla gloria.
Esempio di superiorità e di grandezza! Come il suo cuore dovea dilatarsi innanzi all’attitudine imponente delle forze, di cui egli facea parte! Un cittadino romano, sia che fosse nato in Roma, sia che vi avesse diritto alla cittadinanza, era un essere privilegiato, con cui un altro non potea entrare in parallelo.
Ognuno, che non era italiano, era barbaro.
Roma cadde nell’abisso del dispotismo; e gl’italiani, perché formavano una nazione, non perdettero interamente la loro dignità. Relativamente agli altri popoli, furono i più fortunati.
Se essi cessarono di esser liberi, furono almeno indipendenti; se fecero discapito della libertà politica, conservarono almeno la civile; se diventarono schiavi nel proprio paese, non cessarono di essere i padroni nelle regioni le più remote, non mancando di arricchirsi delle spoglie dell’antico continente; in una parola, se al di dentro vennero conquistati dal dispotismo, continuarono ad essere conquistatori al di fuori.
Per gli cangiamenti insiti alla materia, la grandezza romana scomparve. Molte cagioni influirono a rovesciare l’edificio che i secoli aveano eretto.
I boreali popoli, rifluendo nelle parti meridionali dell’Europa, assalirono l’impero di Occidente, che già era invecchiato e languiva sotto l’enorme massa da cui era oppresso.
Lo fecero a brani, dividendolo in tanti frammenti; e l’Italia fu la prima a soggiacere alla divisione. Onde i suoi abitanti, separati d’interessi, di governi, di leggi, di costumi e di usanze, come di monete e di dialetti, furono esposti alle sciagure dell’invasione, e presero tutt’ i vizi de’ barbari, senza averne le virtù.
Che divenne allora la dignità italiana? Che ne fu de’ monumenti delle arti e delle scienze? Appena se ne conservò una languida memoria, tanto la caligine dell’ignoranza aveva ottenebrato lo spirito umano.
Carlo Magno procurò di accozzare gli atomi e formarne un corpo, il quale si sperava che non fosse caduto in dissoluzione; ma i discendenti di Carlo non ereditarono coll’impero i di lui supremi talenti.
Onde la loro imbecillità distrusse l’opera del genio. Il papato poteva ovviare a cotesto gran male: ma gl’istrioni di Roma, lungi di pensare alla prosperità italiana, per assicurarsi l’impero ch’esercitavano sugli spiriti, per fondare la grandezza temporale, mentre predicavano la chimerica felicità dell’altro mondo, per accumular tesori a spese della bigotteria, non badarono ad altro che a spandere il talismano dell’errore, perseguitare la virtù ed il sapere, combattendo così i sacri interessi delle nazioni.
I mali non si arrestarono qui. I preti di Roma si proposero di abbattere non solo il culto esterno del paganesimo, ma di opporsi anche al suo spirito.
La religion pagana facea l’apoteosi del coraggio, della forza, dell’industria, de’ piaceri, della virtù; e ‘l cattolicismo, distruggendo la morale e ‘l buon senso, deificò la povertà, l’ozio, l’ubbidienza, il celibato, le pratiche le più micidiali, le favole inette, gli assurdi misteri.
L’idea dell’immortalità dell’anima, che vagava ne’ libri de’ poeti e ne’ romanzi della Grecia e dell’antica Roma, divenne un dogma che rese della Chiesa un mercato, in cui si tassava il prezzo dell’ingresso negli elisei.
A quest’oggetto, oltre le tante altre assurdità, s’inventa eziandio un inferno di corta durata, da cui se ne può esser sottratto dalla magica arte del prete impostore.
Si stabiliscono le indulgenze, mediante le quali si perdonano a’ benemeriti della Chiesa, che val quanto dire a’ pii malvagi, non solamente i peccati commessi, ma anche i delitti a venire. Si fonda l’inquisizione, che sotto il nome di “Santo Ufficio” innalza gli altari a’ fanatici, i quali covrono di cadaveri la terra, mentre distrugge e rovina i proseliti della virtù.
La religion papista, assisa sulle basi della menzogna, della falsità e de’ miracoli, doveva essere naturalmente nemica non solo delle scienze politiche, ma di tutte le altre eziandio.
Sicché abbrutire gli spiriti nell’ignoranza, avvilire e snervare i cuori nella mollezza, presentare all’immaginazione gli spettacoli del vizio e della sensualità, tal è stato il segreto della politica sacerdotale e l’oggetto fisso della teocrazia romana.
Per conseguenza i pittori, che dipingono bene nella tela una Danae; gli scultori, che animano sul marmo o sul bronzo le seducenti attrattive e le carezze di Venere; i poeti, che presentano in metro la tazza di Circe o i giardini d’Armida, sono coronati;
mentre Federigo secondo è escluso con replicati anatemi dal commercio degli uomini;
Giordano Bruno, ingegno di prim’ordine, è bruciato vivo in Roma; Galileo è rinchiuso in una torre; Sarpi è pugnalato, per essere gli organi della verità e del sapere.
Da per tutto i proclami della ragione umana sono soffocati dalle fiamme e dalle armi dell’intolleranza religiosa.
Da per tutto i diritti dell’uomo son calpestati, la santa libertà annichilita, le leggi della natura vilipese.
Da per tutto un’occulta forza di ripulsione politica genera la diffidenza e l’odio tra’ cittadini; ed invocando spesso l’aiuto delle potenze straniere, colla leva del fanatismo, che trova il punto d’appoggio ne’ cieli, inabissa le popolazioni ne’ precipizi della schiavitù.
Così il gran Lama di Occidente, per assicurarsi il trono della opinione, non avendo altro arsenale che quello dell’impostura, altro esercito che preti e frati, ed altre armi che la discordia e la lite, praticò senza interruzione la massima: divide et impera.
Così quella religione, che influì sulla decadenza dell’impero romano, fu il principale strumento della corruzione, della debolezza e della totale caduta della nazione italiana.
E’ vero che tutte le popolazioni del mondo cattolico soggiacquero alle sciagure che produceva la corte di Roma; ma l’Italia, ch’era il centro della superstizione, ne sentì maggiormente il peso.
L’errore, simile all’attrazione, è in ragione inversa de’ quadrati delle distanze.
Sicché gl’italiani, degradati e snaturati dal peggiore e dal più esacrando de’ culti,isolati fra loro da muri di separazione, non hanno avuto più né governo, né morale, né patria, né nazione; non sono stati più né uomini né cittadini: ed i settentrionali popoli, da schiavi ch’erano, si hanno disputato il dominio di questo delizioso paese, ch’è dimorato in uno stato puramente passivo.
A’ Camilli, agli Scipioni, a’ Pompei sono succeduti i compassionevoli marchesi, duchi, conti, ecc., i quali colle loro denominazioni grottesche hanno imposto tanto a’ popoli, quanto i primi avevano de’ titoli alla gloria ed alla pubblica stima coll’ascendente delle loro gesta.
Da per tutto preti e frati, devoti ed ipocriti, oppressori ed oppressi, poveri in gran numero e pochi opulenti, vassalli e baroni, uomini corruttori e corrotti hanno coverta la superficie di cotesti luoghi sì rinomati: e l’Italia ha inteso con dolore l’amaro rimprovero:
Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa Ch’ora di questa gente, ora di quella che già serva ti fu, sei fatta ancella!
Qual riparo a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle depresse ed avvilite fisonomie italiane il soggello dell’antica grandezza e maestà?
Uno de’ principali mezzi, secondo me, è l’unione.
Perché termini il monopolio inglese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perché si oppongano argini all’ambizione dell’Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’impero russo stia immobile ne’ ghiacci del Nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perché, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si dissecchi la sorgente delle guerre, è d’uopo che l’Italia sia fusa in un sol governo, facendo un fascio di forze.
Realizzandosi questa idea, gl’italiani, avendo nazione, acquisteranno spirito di nazionalità; avendo governo, diverranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutt’i beni che ne derivano; formando una gran massa di popolazione, saranno penetrati da’ sentimenti della forza e dell’orgoglio pubblico, e stabiliranno una potenza che non sarà soggetta agli assalti dello straniero; giacchè guai a quella nazione che per dirigere i suoi affari domestici ha bisogno del soccorso altrui!
Questo è il progetto ch’esce dal fondo del mio cuore. Se le attuali circostanze, se lo spirito di vertigine che agita il dispotismo europeo, lo fanno restare per ora nel mondo delle chimere, mi auguro almeno che verrà un giorno in cui sarà.
Corrumpere et corrumpi saeculum vocatur è da applicarsi alla nostra maniera di vivere passata e presente. realizzato.
E questo pensiero, questo dolce pensiero, è il più gran tributo che un ardente patriota, martire delle persecuzioni, possa porgere in seno dell’oscurità al benessere dell’Italia, come l’abate di Saint-Pierre, nel suo progetto di pace perpetua, lo ha offerto alla prosperità del genere umano.
Questo pensiero, nell’atto che riempie l’animo della gioia la più pura, lungi di porgere al mio spirito la rimembranza de’ mali individuali, lo consola presentandogli la prospettiva de’ futuri progressi della cultura, de’ lumi e dell’indipendenza italiana; lo consola nel fargli considerare che l’uomo istruito nella scuola delle disgrazie, dopo aver atterrati i suoi nemici, rientrerà nel possesso de’ suoi diritti e nella nobiltà delle sue prerogative.
Possano aver ben presto un tal degno prezzo le mie meditazioni, ed i miei voti sulla perfettibilità del genere umano e della mia nazione!…
Possa l’effusione de’ miei sentimenti, come la scintilla elettrica, comunicarsi da una estremità del pianeta all’altra a’ miei simili, e massime a’ miei concittadini, che sono il principale oggetto delle mie affezioni!
Popolo futuro d’Italia! A te io dedico questo mio travaglio qualunque si sia; giacché a te è riserbato di compiere la grand’opera.
L’esperienza de’ tempi scorsi, le lezioni dell’infelicità de’ tuoi avi, le cure de’ tuoi più cari interessi, i lumi sempre crescenti della filosofia e della ragione, che ti faranno sentire il ridicolo e l’odio de’ re selvaggi, la memoria di essere stato il proprio paese spesso esposto alle conquiste, ma non mai interamente soggettato, dandoti il sentimento delle tue forze, ti spronerà a rovesciare le barriere che la mano del delitto ha innalzate, ed a solennizzare la gran festa del patto della confederazione, la quale fisserà l’èra della tua grandezza.
Popolo futuro! Se noi travagliamo in seminare nel campo della felicità, tu, profittando de’ nostri sudori, ne riporterai un’ampia messe; se noi ci troviamo in mezzo alle spine della libertà, tu gusterai la soave gioia di coglierne le rose nel giardino della morale, del costume e della virtù. Addio.
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