Sovranismo, nazionalismo, Patria e Costituzione
di LUCA RUSSI (FSI Arezzo)
Dal momento che vedo sovranisti spellarsi le mani per Orban o la Le Pen, e altri sovranisti (molti meno, per la verità) dare ragione a Barnard che dice che per il referendum sarebbe più opportuno fare i seggi negli obitori (anche se in questo caso, la sua è, al solito, una provocazione vòlta più che altro a marcare la distanza con chi invita a votare No senza considerare che la nostra Costituzione è già stata svuotata, di fatto, dal prevalere dei Trattati europei), sento il bisogno di condensare qui quello che penso su sovranisti, nazionalisti, sul concetto di Patria, e anzi, di più: sul perché il voto del 4 Dicembre è importante.
I temi sono tutti collegati, in fondo. “Siamo antifascisti perché la nostra Patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la Patria di tutti gli uomini liberi” (Carlo Rosselli). Questa frase traccia il solco tra chi storce il naso quando sente parlare di Patria, temendo di avere a che fare con i nazionalismi del Novecento che sfociarono nella tragedia delle due guerre mondiali, e chi invece sa molto bene che tra i veri Patrioti e i nazionalisti che oggi fanno capolino in mezza Europa, corre una differenza non di poco conto.
Gli Orban, le Le Pen e i Kaczynski vari, riparandosi sotto l’ombrello delle rivendicazioni di sovranità nazionale, mirano in realtà, attraverso asserite contro-rivoluzioni anti-UE che fanno perno sulla chiusura identitaria che cavalca la paura per l’immigrazione, a passare dalle democrazie opache generate dal globalismo libero-scambista alla dittatura vera e propria (passando per uno stadio intermedio che qualcuno ha già definito “democratura”).
Nel programma dei rispettivi partiti politici di cui sono leader, la critica al modello neo-liberista targato UE non si spinge ad esiti radicali, seppure vengano toccati veri e propri tabù come l’indipendenza delle banche centrali o l’introduzione di misure vòlte a favorire le imprese nazionali. Kaczynski predica «un trasferimento di economia e finanza in mani polacche», ma la cosa non gli impedisce di non disdegnare gli “investimenti” stranieri nel paese, proclamandosi “non-dirigista”; Orban, pur imponendo le tasse più alte d’Europa sulle transazioni finanziarie, si guarda bene dallo sforare il limite del 3 per cento di deficit annuo del bilancio fissato da Bruxelles e porta l’IVA al 27%; Le Pen non ripudia il concetto di pareggio di bilancio, ma ne rinvia il ritorno a tempi migliori, riservando invece al prossimo futuro la necessità di portare la tassazione per le grandi imprese al 15% .
Ci sarebbe da parlare anche delle recenti dichiarazioni del neo-primo ministro britannico May, la quale, quando afferma che “lo Stato esiste per fare ciò che gli individui, le comunità locali, i mercati non sanno fare”, intende precisamente questo: che ciò che va corretto è la «disfunzionalità dei mercati e la rigidità di strutture di prezzo complicate che bloccherebbero la scelta del consumatore» (testuale). Fate voi, ma io, ad onta dei termini usati (Stato, comunità, etc.), sento puzza di “mano invisibile dei Mercati” e di ordo-liberismo, cerchiamo di non farci fregare…
In conclusione, come si vede, non si può parlare nemmeno di “keynesismo moderato”; semmai si deve parlare di “liberismo moderato”. In nessuno dei programmi delle forze di cui sto parlando c’è traccia del ritorno allo Stato come supremo regolatore dell’economia (ad esempio, non si prende minimamente in considerazione alcuna possibilità di nazionalizzare le industrie dei settori strategici, prevedendo al massimo, come nel caso di Orban, di introdurre “imposte di crisi”, cioè in linea di principio temporanee, nei settori delle telecomunicazioni, dell’energia e dei supermercati: tutte attività dove la presenza di investitori stranieri è predominante).
Ma torniamo alla citazione iniziale di Rosselli. Parlando di Patria, egli evidentemente sente il bisogno di smarcarsi da un particolare nazionalismo becero e guerrafondaio di stampo ottocentesco, che nel Novecento cambia natura, divenendo un principio politico che sostiene che l’unità nazionale e l’unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti in un unico movimento sociale e politico di massa, che, al fondo, esprime la volontà di affermazione di una comunità nazionale al di sopra delle altre (dal nazionalismo di stampo ottocentesco si passa alle destre nazionaliste del Novecento).
Nulla di più lontano dal concetto di Patria dei sovranisti, i quali hanno a cuore i confini non per usarli come alibi al fine di depredare o muovere guerra ad altri popoli, ma per preservare la propria terra e la propria gente dai propositi di dominio altrui. In realtà, gli esuli anti-fascisti il concetto di Patria l’avevano a cuore, e fatta questa doverosa considerazione su coloro che oggi come ieri identificano la patria con i cannoni, occorre dire con forza che “le frontiere” servono, eccome. Senza di quelle, diventa complicato far valere il concetto di cittadinanza per come si è storicamente configurato all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, perché si dà il caso che dalla cittadinanza discendano tutti i diritti (e i doveri) che sono scritti nella prima parte della nostra Costituzione (sì, proprio quella che personaggi come Massimo D’Alema, ampiamente screditati e politicamente collusi con chi mirava a “riformare le costituzioni europee troppo socialiste”, dicono oggi – a parole e fuori tempo massimo – di voler difendere).
Parlare di pace e progresso “abolendo i confini” come pretendono di voler fare i fanatici europeisti e i cosmopoliti d’accatto che si sentono “cittadini del mondo”, non è proprio possibile, perché non c’è pace senza giustizia sociale, e non c’è giustizia sociale senza cittadinanza e senza democrazia (cioè, senza sovranità popolare e senza Stato nazionale che la ponga al primo posto come valore supremo nella legge dello Stato). La nostra Patria è la Costituzione del ’48, ed è nostro sacro dovere difenderla.
Le “frontiere” e i confini nazionali, piuttosto, non piacciono a ragione a “quelli” che ci stanno affamando; e, ancora, facendo anche qui le dovute considerazioni sul fatto che ogni citazione va contestualizzata rispetto al dibattito dell’epoca, anche Gramsci lo sapeva molto bene: «E’ il grande stato borghese super-nazionale (da lui identificato con l’ideologia che portò alla istituzione della Lega delle Nazioni dopo la Grande Guerra, n.d.r.) che ha dissolto le barriere doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della libera concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni capitalistiche internazionali” (Antonio Gramsci, La Lega delle Nazioni, pubblicato su “Il Grido del Popolo” n. 709 del 19 Gennaio 1918).
Sostituite “Lega delle Nazioni” con “Unione Europea”, metteteci pure il rinnovato art. 55 che Renzi e la Boschi vorrebbero introdurre con il referendum, che dice che il Senato della Repubblica “partecipa (in che modo non è dato sapere, chinando la testa e ratificando, presumibilmente) alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea“, sempre immancabilmente pensate e volute da lobbisti e/o tecnocrati che nessuno di noi ha mai eletto, magari condite anche con un po’ di TTIP (i cui dettagli sono praticamente segreti anche per i nostri rappresentanti in Parlamento), e capirete cosa voglio dire esattamente.
Vi sembrano forzature? La realtà è che sovranità nazionale e democrazia vanno di pari passo ad una condizione: che si rifiutino con decisione i dogmi neo-liberisti, globalisti e mercantilisti (sanciti in primis dall’UE, nel nostro caso). Chi, “da destra”, non si oppone con decisione a questi ultimi; e anche chi, “da sinistra”, non capisce che la Costituzione della Repubblica è stata messa in crisi – e certo non da oggi- da quella stessa ideologia europeista che vorrebbe abolire i confini per svuotare le democrazie rappresentative e spianare la strada alle decisioni prese a livello sovranazionale che impongono precarietà sociale e perdita di diritti, porta acqua, consapevolmente o meno, al mulino delle destre xenofobe e nazionaliste che infiammeranno nuovamente l’Europa. Altro che pace tra i popoli…
Per tutti questi motivi, il NO del FSI al referendum del 4 Dicembre, è il “nostro” NO. Perché la Costituzione va ripristinata e attuata *sempre*, non difesa a chiacchiere o a giorni alterni. http://appelloalpopolo.com/?p=16090
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