Il Carnevale perpetuo della Lega Nord
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Il leghismo è un fenomeno politico (ma prima ancora antropologico) subdolo e pericoloso, e non solo per l’evidente connotazione anti-unitaria o secessionista che ha assunto fin dagli inizi. Mentre altri partiti sono apertamente schierati a favore dell’ideologia global-liberista, di cui non cessano di celebrare i fasti, l’antagonismo della Lega veste i panni del folle carnevalesco, che trasgredisce le regole del gioco soltanto per confermarle e inasprirle.
In altre parole, il movimento fondato da Umberto Bossi nel 1984, ben lontano dal portare una minaccia reale all’organismo del “nuovo ordine mondiale” impostosi con la fine della guerra fredda, agisce come un vaccino che lo rinforza inoculandovi sostanze ostili ma necessarie alla formazione degli anticorpi. Se oggi non è possibile avviare una riflessione culturale seria e ampia sul fallimento della globalizzazione e sulle sue conseguenze devastanti, ciò avviene anche a causa dei toni viscerali e violenti con i quali da sempre i leader leghisti trattano questi temi.
Il linguaggio leghista inscena una parodia ininterrotta dell’oratoria politica, come ha osservato Linda Dematteo nel suo L’idiota in politica: rientra nello stesso paradigma carnevalesco la gestione autocratica del potere da parte del Capo, che ha di fatto impedito alla Lega di darsi una struttura all’altezza delle responsabilità di governo, assunte sia a livello locale che nazionale, e in ultima analisi di nascere come partito.
Ma in che cosa consiste la sintonia profonda, per quanto non immediatamente percepibile, fra la globalizzazione e il leghismo? Perché il leghismo non propone un’alternativa concreta alla globalizzazione? Per rispondere a queste domande si può prendere spunto da questa intervista del 1992 rilasciata a Zavoli da Gianfranco Miglio (scomparso nel 2001 ma ancora oggi annoverato fra i maestri dai vertici del partito), dalla quale emerge un grande disprezzo per la civiltà classica e mediterranea simboleggiata dal personaggio di Ulisse, il ladro, lo spergiuro, il mentitore, a cui viene implicitamente contrapposto il Settentrione onesto e laborioso.
Le posizioni di Bossi, Maroni, Oneto, Pagliarini e dell’attuale segretario federale Matteo Salvini non si discostano da questo pregiudizio di fondo e mettono chiaramente in luce le origini della Lega come partito etnico. Per i leghisti il popolo italiano non esiste ma è un’invenzione artificiosa, un coacervo di genti diverse che né l’“oppressione” romana né la comune fede cattolica hanno mai potuto realmente unificare.
Secondo i teorici leghisti l’Appennino avrebbe costituito per millenni una barriera fisica e culturale quasi insormontabile fra due aree eterogenee: quella padano-alpina, erede della civiltà comunale e influenzata dall’etica mitteleuropea e calvinista, e quella italico-mediterranea, plasmata dalla cupa cultura bizantina, borbonica e mafiosa del Sud. Le due civiltà, che sarebbero dovute rimanere separate in quanto incompatibili, sono entrate inopinatamente in contatto quando, in base a “un preciso disegno del governo romano” finalizzato alla “progressiva cancellazione dell’etnia lombarda e padana”, come sosteneva Umberto Bossi, la massiccia immigrazione meridionale avvenuta nel dopoguerra avrebbe avviato un’italianizzazione forzata soprattutto nei settori dell’amministrazione pubblica e della scuola.
Ma oggi, grazie alla globalizzazione dei mercati, affermano fiduciosi i leghisti, è giunto finalmente il momento della resa dei conti. Se l’“Impresa Italia” versa in una situazione di crescente difficoltà a causa dello statalismo, della burocrazia, dell’impostazione socialista della sua classe politica e dell’inettitudine del Meridione, nell’agone del mercato mondiale la Padania indipendente, sgravata dal peso del parassitario Stato italiano, costituirebbe, di contro, un concorrente politico-economico ideale per dimensioni e per efficienza.
Anche secondo la Lega e Gianfranco Miglio, del resto, i dogmi del liberismo sono per definizione quelli che più di altri non si discutono; in funzione di essi, anzi, va cambiata la Costituzione stessa, o addirittura smembrato lo Stato nazionale, un mostro che opprime e schiaccia l’individuo. Insieme allo Stato nazionale dovrà morire anche quello sociale, che ne è l’emanazione diretta: esso, infatti, ha il grave torto di impedire il corretto funzionamento dell’economia, dal momento che garantisce a ciascuno la certezza di un reddito.
Agli antipodi del modello keynesiano, allora, Miglio propone un “sistema caritativo” in grado di “scoprire i veri poveri e di minimizzare gli abusi” (corsivo dell’autore) e di limitare una volta per tutte la spesa pubblica: tale sistema, però, incompatibile con le dimensioni troppo estese dello Stato nazionale, funzionerebbe soltanto nel contesto del “federalismo europeo”, ispirato al modello delle repubbliche urbane e delle loro associazioni, cioè alla mitica “Europa delle Regioni”.
Ciò significa naturalmente (tipico Leitmotiv al di là dell’improbabile svolta “nazionalista” salviniana) che l’Italia non potrà rimanere tutta insieme nell’Eurozona: il dubbio privilegio spetterebbe al solo Nord, mentre al Sud dovrebbe circolare una moneta meno rigida dell’euro e più adatta a un’economia arretrata.
L’utopia leghista vede nella tanto agognata Federazione Europea una garanzia per le specificità regionali e un baluardo contro l’omogeneizzazione dei cittadini poiché il potere poggerebbe sulle unità territoriali o cantonali e non più sui partiti, che devono ormai abbandonare la convinzione novecentesca di essere indispensabili al sistema politico.
Gianfranco Miglio immagina un modello di Costituzione federale nel quale la politica economica viene concordata mediante una contrattazione fra i Cantoni più ricchi e quelli più poveri. Beninteso, chi beneficia dell’aiuto sociale e paga meno tasse non può vedersi riconosciuti gli stessi diritti politici dei cittadini più abbienti, ai quali spetta l’ultima parola sulla destinazione finale della spesa pubblica.
Ma lo snodo fondamentale dell’ideologia leghista è ancora un altro e viene nitidamente espresso da Miglio quando lo studioso afferma che il segreto del successo di una Costituzione federale è la concorrenza fra i municipi, i Cantoni e gli altri organi della Federazione. Il federalismo è integralmente permeato dai principi del “libero mercato” ed è refrattario all’intervento statale nell’economia.
Senza riconoscere il paradosso del leghismo in tutta la sua essenza “carnevalesca” di cui si è già detto, sarebbe impossibile comprendere come un regime concorrenziale di libero mercato così spinto e sfrenato possa convivere, al di là dei palliativi prospettati dal fumoso “sistema caritativo” di Miglio, con l’aspirazione urlata a riscoprire e rinsaldare i legami comunitari fra membri di uno stesso popolo.
Le teorie di Miglio risalgono a un’epoca in cui l’eurodittatura e il turbocapitalista neoliberista venivano percepiti come realtà vitali. Sono passati 20 anni e sembra quasi preistoria. Oggi per Salvini la priorità è diventata la lotta contro Bruxelles, ma siccome si parla di Lega nord, la polemica antieuropeista si affianca alla proposta della flat tax destinata ad affrancare la Padania dall’obbligo di sovvenzionare il Meridione.
Contraddizione? Forse. Tensione dinamica? Probabilmente. L’umana convivenza non si fonda certo sulla coerenza logica.