La pistola fumante della FIAT
di Piero Pagliani fonte Megachip
Nonostante la pistola puntata alla tempia ai lavoratori FIAT, il Sì è passato con solo il 54% dei voti. Decisivi sono stati, qualcuno tende a sottolineare, i voti degli impiegati. Francamente questo è un aspetto che può interessare chi immagina che la “classe” sia formata esclusivamente dalle “tute blu” come ai tempi di Karl Kautsky (non lo pensava nemmeno Karl Marx per il quale la “classe” andava «dall’ultimo manovale all’ingegnere»). Ma lasciando perdere i trionfalismi puristi di chi pensa di essere ancora nel periodo del capitalismo dell’impero britannico del libero-scambio, possiamo in modo più serio rilevare la voce di dignità di chi cerca di resistere alla revisione unilaterale di conquiste che hanno una storia di lotte e sofferenze lunga più di un secolo.
Operai o impiegati, non era un voto facile. Io sono passato attraverso la trafila della mobilità e del licenziamento: non è facile decidere tra il subire e l’essere mandati a casa.
Tuttavia, una volta registrata questa “vittoria morale” bisognerà riflettere per bene sulla vicenda FIAT. I suoi lavoratori hanno espresso un'indubbia volontà di non accettare ulteriori peggioramenti salariali e lavorativi. Benissimo. Ma cosa si muove realmente dietro Sergio Marchionne? Non basta dire che questo manager, esaltato sia dalla destra sia dalla sinistra, sta attaccando i diritti dei lavoratori. È solo una delle dimensioni della questione.
Da una parte Marchionne sta probabilmente svezzando, con ritardo, il capitalismo italiano. Lo sta portando al passo di quel capitalismo manageriale statunitense che si formò durante la Grande Depressione della seconda metà dell’800 (sì, dell’800, non del ‘900). Quello che poi trionfò con la II Guerra Mondiale e che riorganizzò e integrò il capitalismo del globo a sua immagine e somiglianza.
Solo che qui in Italia quell’immagine e quella somiglianza informò più il settore delle partecipazioni statali che non il settore privato, che in larga misura rimase un capitalismo semi-famigliare. Il passaggio del rapporto 1/20 tra il salario minimo in FIAT e lo stipendio di Vittorio Valletta a quello 1/400 tra il salario del marxiano “ultimo manovale” a quello di Marchionne (che sarebbe il marxiano “ingegnere”, o “direttore di fabbrica” non proprietario – e da ciò si capisce perché quel concetto di “classe”, del tutto ragionevole allora, oggi non valga più) è lo specchio di questo cambiamento.
È una sperequazione più volte denunciata dalla FIOM. Certo, è una sperequazione insopportabile e insultante. È giusto denunciarla, ma è necessario capire razionalmente di cosa è segnale.
Ed essa è segnale proprio di quella trasformazione. Ma non solo. Come succede da tempo negli Stati Uniti, una sperequazione del genere non è giustificabile da aumenti della produttività né da aumenti dei profitti. È però giustificabile dalle operazioni finanziarie delle grandi multinazionali. Abbiamo infatti affermato che la trasformazione che sembra essere operata da Marchionne è “in ritardo”. Questo vuol dire che avviene in condizioni totalmente differenti dalla rivoluzione ottocentesca che trasformò il capitalismo statunitense in un sistema di imprese integrate verticalmente e a conduzione manageriale e separate dal settore finanziario.[i]
Oggi, in presenza di una crisi sistemica di sovraccumulazione nel mondo occidentale e della conseguente iperfinanziarizzazione dell’economia, la trasformazione operata da Marchionne è, letteralmente, biforcuta.
Se sul piano delle relazioni industriali e dell’organizzazione probabilmente si va verso la trasformazione sopra descritta, essa con probabilità nasconde aspetti finanziari ancora da capire. È legittimo ipotizzare che Marchionne stia conducendo una parallela manovra speculativa: spolverare per bene il brand "FIAT" per infine venderlo in toto o a pezzetti (e lo spezzatino lo ha già iniziato). Una classica manovra da manager finanziario e non industriale (cosa credete che sia successo alle ultime due multinazionali dove ho lavorato? esattamente la stessa cosa).
Il marchio FIAT vale probabilmente almeno quanto alcuni anni di produzione di auto. Possibile respingere questa tentazione?
Se così fosse, il sacrificio di chi ha subito il ricatto si ritroverebbe insieme al coraggio di chi lo ha rifiutato.
Nell’immediato possiamo prevedere che la FIOM tornerà al tavolo dei negoziati, contando di mettere sul piatto la forza di quell’inaspettato e impressionante 46% di “No”.
Se ciò avverrà, ed è quanto aveva promesso, i suoi referenti politici vedranno soddisfatta la loro “propensione atlantica” che non è dissimile da quella della FIAT (non è un caso che al di là di una pelosa solidarietà per i lavoratori – in effetti a solo uso e consumo antiberlusconiano – i politici di sinistra parteggiassero per Marchionne).
Ma anche qui ci saranno sorprese, perché l’accelerazione impressa da Marchionne segna probabilmente anche l’inizio della crisi finale del capitalismo consociativistico italiano, in cui le relazioni sindacali andavano di pari passo alle sovvenzioni statali.
Si sta voltando pagina e ancora non siamo riusciti a capire cosa succederà, se non che strati sempre più larghi della popolazione dovranno sostenere il peso della crisi e delle trasformazioni in atto.
Possiamo solo pensare che non è lontano il momento in cui sarà necessario mettere all’ordine del giorno un ritorno del controllo della politica sull’economia e la finanza. Un controllo democratico e “popolare”, che non prenda però fischi per fiaschi, ovvero il “pubblico” come prefigurazione del “comune” ma solo come una delle forme che può assumere il tentativo di governare la transizione in atto senza lasciarla alla mercé di forze distruttive per la società.
Un percorso di cui sappiamo solo che sarà tutto in salita e denso di contraddizioni. Ma obbligato.
[i] I veloci flussi di cassa abilitati dall’integrazione verticale permettevano una sostanziale – anche se ovviamente non totale – autosufficienza finanziaria; al contrario la contemporanea integrazione orizzontale – in parole povere: monopolistica – tedesca aveva bisogno di un’integrazione organica con le banche: era proprio quest’ultimo il capitalismo finanziario preso in considerazione da Rudolf Hilferding e poi da Lenin.
Articolo interessante.
Notevole è la confusione tra Marchionne simbolo del capitalismo manageriale statunitense dell'800 che cozza vistosamente con Marchionne speculatore che abbandona le vesti del manager industriale per mettersi quelle del manager finanziario.
Ovviamente qualsiasi manager di capitali spa diventa giocoforza uno speculatore che offre ai propri azionisti grossi dividendi spostando il peso della propria multinazionale dalla produzione alla speculazione finanziaria. Ovvero sottrae soldi e benessere dalle tasche dei lavoratori per metterli in quelle degli azionisti, moltiplicandoli per qualche fattore matematico di derivazione borsistico-speculativa. Henry Ford (lui sì, simbolo del capitalismo industriale USA) qui si sarebbe incazzato.
E' chiaro che in queste condizioni finisce il capitalismo consociativistico: alla finanza non interessa più nulla del benessere dei lavoratori. La virtualità finanziaria ne può fare benissimo a meno (credono loro).
E' un peccato però che masse fortemente insoddisfatte si ricordino improvvisamente dove sono i forconi. E' proprio qui che la virtualità finanziaria trova l'ostacolo maggiore.
La conclusione dell'articolo auspica un "ritorno" della controllo politico su finanza ed economia. Sinceramente non mi risulta l'abbia mai abbandonato, quel controllo. Ad esempio finanziando la Fiat per tre-quattro volte il suo valore reale. Forse sarebbe ora che la politica chiedesse conto di tutti quei soldi che gli italiani hanno investito in quella struttura industriale, e che oggi si vedono sottrarre (delocalizzazione) per compiacere le lobbies di Wall Street.
Ma perchè dovrebbe poi farlo, visto che a legare l'asino dove vuole il padrone ci si guadagna sempre? Certo, la cosa assumerebbe altro senso se facessimo capire di essere NOI i padroni di questo Stato.
Vi ricordate quindi dove avete dimenticato il forcone?
Oltre che, e più che ricordare dove sta il forcone, penso che la via giusta potrebbe essere quella della riduzione del consumo, qui spesso evocata. Tutti sappiamo che la Fiat sopravvive anche perché – con vari stratagemmi – gli italiani sono invitati a cambiare auto nuova fin troppo spesso, collaborando alla svalutazione rapidissima di beni di consumo in circolazione. Infatti il mercato dell'auto usata non è nelle stesse condizioni in tutto il mondo, provate a vedere quanto costa un'auto usata in Spagna o in Inghilterra, paesi dove manca un brand automobilistico "di stato" come la Fiat.
Insomma le mani prudono a tutti ma c'è parecchio da fare prima di poter parlare di forconi, di classe rivoluzionaria, di lotta addirittura armata. Mentre i conti in tasca se li sanno fare (quasi) tutti.
Detto ciò noto che non si è insistito abbastanza su una serie di punti che chiariscono la bontà della posizione operaia per il "No" (almeno di metà di quella base di lavoratori a Mirafiori). Per chi ha seguito dall'inizio la vicenda, li elenco rapidamente, soffermandomi solo su alcuni
– il Parlamento latita nel ridefinire le regole di legge della rappresentanza sindacale, da vedere senza pregiudizi il confronto tra Cofferati e Ichino su repubblica tv, lo trovate qui: http://tv.repubblica.it/videoforum/pietro-ichino-vs-sergio-cofferati/59934?video
Se ne deduce che Cofferati ha ragione sulla linea del principio, e che Ichino purtroppo ha ragione nel moderare le urla dei sindacalisti Fiom: al massimo si può parlare allo stato attuale di proposta anticostituzionale
– La Cgil non può derogare al proprio statuto, e nemmeno la Fiom può farlo, quindi firmare quell'accordo sarebbe stato impossibile allo stato attuale per i dirigenti come Landini
– Non c'è chiarezza sulla commissione paritetica che valuterà come contare i giorni di malattia in caso di assenteismo cronico e anomalo in prossimità di eventi esterni alla vita della fabbrica. La commissione è paritetica ma il suo parere non è vincolante
– Marchionne ha dichiarato a inizio gennaio che in nessuna parte del mondo si chiede il piano industriale a un'azienda che sta per investire. Falso, soprattutto quando l'azienda è obbligata a presentare il piano industriale se chiede Cig e Cig in deroga, come Fiat ha fatto anche per il 2011 (Mirafiori torna in Cig quasi per intero dal 14 febbraio prossimo, e tra l'altro i soldi per le casse in deroga forse ci sono forse no)
– La divisione delle sigle sindacali confederate è da tempo un obiettivo di questo governo, e quando è stata al governo l'opposizione non si è fatto molto per ricucire gli strappi. La politica ha sfondato nel sindacalismo, e forse questo è un bene nel senso che le posizioni sono chiare, e riferibili a orientamenti ideologici di fondo. E' un male nella misura in cui un lavoratore iscritto o no a un sindacato si ritrova ad avere a che fare con forze molto più grandi di lui, è un male perché segna il ritorno del controllo – sia pure indiretto e maliziosamente insinuato nell'autonomia dei sindacati che peraltro sarebbero semplici Enti di Fatto quindi libere associazioni – dello Stato sulla macroeconomia nazionale (qui tornando all'articolo), ed è infine un male perché rappresenta una modalità d'intervento molto difficilmente disciplinabile, fintantoché almeno in Italia resta saldo il diritto di libertà d'opinione. Come potrebbe per esempio l'Ue liberista e finanziarista controbattere a sua volta alle ciance di Sacconi?
– L'accordo del 23 dicembre scorso parla di rappresentanza sindacale solo per quelle sigle che hanno firmato l'accordo stesso, sigle i cui rappresentanti saranno "nominati" dalle sigle stesse e non eletti dagli operai. Qui il problema è lampante e molto grave. E forse, in effetti, se si continua a tendere così tanto la corda, l'unica soluzione potrebbe essere il forcone