Nazione e lotta di classe
di CARLO FORMENTI (Università di Lecce)
Anche gli intellettuali marxisti, o supposti tali, dopo il crollo dei Paesi socialisti, hanno finito per accreditare la tesi di un mondo unificato dall’egemonia liberal-liberista e sostanzialmente “pacificato” e integrato sotto il domino imperiale statunitense. A qualche anno dall’esplosione (non dall’inizio, perché quello risale agli anni ’70 del ‘900) della più grave crisi capitalistica dopo la grande crisi del ’29, e mentre la perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti si fa sempre più evidente, di quella illusione non resta nulla.
I primi a riconoscerlo sono proprio gli intellettuali liberisti: vedi l’intervista al “Corriere della Sera” rilasciata in data 1 dicembre da Francis Fukuyama, il quale associa il declino dell’egemonia americana a una vera e propria disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccia la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi anche un recente articolo dell’”Economist”, nel quale, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit, il trionfo di Trump e quello del No in Italia, dall’altro si afferma che la risposta al “trumpismo” dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico.
Fra i nostri avversari si va insomma diffondendo la consapevolezza che il mondo sta attraversando una crisi analoga a quella che segnò la fine della prima grande globalizzazione un secolo fa. Una crisi tutta politica, nel senso che, dopo quarant’anni di “guerra di classe dall’alto”, la disuguaglianza ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la capacità del sistema liberal-democratico (ormai compiutamente postdemocratico) di ottenere consenso sociale.
I postoperaisti hanno mandato in soffitta molti dogmi marxisti, in compenso vediamo come abbiano viceversa conservato quelli meno difendibili: l’idea secondo cui la rivoluzione è possibile solo se e quando le forze produttive siano sufficientemente sviluppate; l’idea che la coscienza antagonista si concentri negli strati sociali vicini al punto più alto dello sviluppo capitalistico (e poco importa se questi strati sono oggi i più integrati nel sistema di dominio); l’idea che la scienza e la tecnica siano “neutrali”, che incorporino cioè una potenza di emancipazione di cui è possibile appropriarsi con relativa facilità. Si tratta di una visione “immanentista” – le energie della trasformazione sono tutte interne al rapporto di capitale – che induce chi la condivide a perdersi in estatica contemplazione del culo del capitale scambiandolo per il sol dell’avvenire.
Si tratta, infine, di una visione aristocratica che indica in una tecnoélite l’unico soggetto in grado di evitare il disastro della fascistizzazione, mentre nutre un profondo disprezzo nei confronti degli strati inferiori di classe e degli esclusi: gli operai impoveriti che hanno votato Trump vengono accusati di essere pronti ad arruolarsi nelle fila di un “nazional operaismo” emulo del nazionalsocialismo. Evidentemente per certi intellettuali il popolo è demente quando non aderisce a modelli di comportamento che confermino i loro desideri, per cui tutta la composizione di classe al di fuori dai loro salotti è plebaglia reazionaria.
Io penso invece, per citare un testo di Mimmo Porcaro che riprende le tesi del mio ultimo libro, che il soggetto [rivoluzionario] “non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, può essere individuato solo in seguito a ‘un’analisi concreta della situazione concreta’, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di classe. Non si può quindi prevedere quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti) che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e le sue forme sono per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo”.
È in base a tale impostazione metodologica che penso che la nostra attenzione debba rivolgersi soprattutto verso gli strati bassi della società, verso le resistenze alla modernizzazione piuttosto che verso il vertice della modernizzazione stessa; verso la periferia, il “fuori” dal capitalismo, una periferia che non si identifica necessariamente con i rapporti sociali precapitalistici ma, cito ancor Porcaro, “può essere il prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre distrugge o rende periferiche le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione)”.
Io credo che il primo [obiettivo a breve-medio termine] sia l’uscita dell’Italia dalla Ue, un obiettivo che non può configurarsi altrimenti che come una battaglia per riconquistare sovranità popolare e nazionale. Le sinistre hanno accantonato ogni riflessione sulla questione nazionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sembrava che le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo dal dominio coloniale fossero giunte a compimento, né sono tornate a occuparsene quando nuove forme di dominio coloniale e semicoloniale sono venute affermandosi (e non solo nel Terzo Mondo: vedi il caso greco!).
Dai “classici” – sia Marx che Lenin – la questione è sempre stata affrontata in modo pragmatico, mettendola in relazione ai concreti contesti storici, culturali e sociali. Né Marx né Lenin sono stati assertori di una concezione astratta dell’internazionalismo, avendo piuttosto costantemente cura di distinguere fra cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario: il primo teso all’abbattimento dei confini per promuovere l’internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali e finanziari, il secondo concepito come costruzione di solidarietà fra lotte nazionali, perché la lotta di classe può svilupparsi solo a tale livello.
Chi oggi contesta quest’ultimo punto ignora il fatto che la lotta di classe è anche e soprattutto conflitto fra luoghi (territori) e flussi (di capitale, merci, informazioni, élite) che colonizzano e sfruttano i luoghi e, al tempo stesso, tende di fatto a presumere un’inesistente convergenza di interessi fra mobilità dei capitali e mobilità della forza lavoro.
Posto che solo gli imbecilli parlano ormai del neoliberismo come fine dello stato, visto che a tutti è evidente come lo stato abbia svolto e svolga un ruolo determinante nella costruzione del sistema ordoliberista, la questione riguarda piuttosto il divorzio fra i due termini del binomio stato-nazione: ad andare in pensione non è lo stato, che deve anzi promuovere e garantire il funzionamento del mercato e indottrinare la popolazione con la narrazione dell’individuo imprenditore di sé stesso, oltre a smantellare tutti gli strumenti di autodifesa delle classi subordinate, bensì la nazione in quanto ambito giuridico, economico e politico in cui far valere i diritti collettivi del popolo, per cui il superamento dello stato-nazione si presenta come un regresso storico e non come un salto in avanti progressivo, come erroneamente sostenuto da (quasi) tutte le sinistre.
fonte: www.retedeicomunisti.org
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