Stiglitz: perché nel 2017 l’euro potrebbe collassare
Dopo aver intessuto di nobili intenzioni una sua commovente storia dell’Unione europea flagellata da crisi, ignorando che per gli europeisti, almeno a partire da Jean Monnet, esse erano indispensabili al progresso dell’integrazione, Stiglitz si lamenta che l’euro, anziché mezzo per la prosperità dell’Europa, sia diventato fine in vista del quale imporle la miseria; ma anche lui, quando scrive: «Perché il sistema della moneta unica funzioni ci deve essere più Europa … dell’attuale mezza misura, che è semplicemente insostenibile», rovescia alquanto incautamente mezzo e fine. «Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona» (Matteo 6, 19–24) – il tono patetico di Stiglitz serviva a dissimulare la sua preferenza.
Perché nel 2017 l’euro potrebbe collassare
Joseph E. Stiglitz
30 dicembre 2016
La versione originale è disponibile al seguente link:
http://fortune.com/2016/12/30/euro-outlook-2017/
Traduzione di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
L’Europa non è andata bene. Solo quest’anno il PIL pro capite dell’intera Eurozona è finalmente tornato ai livelli pre-crisi. In Spagna si canta vittoria – benché la disoccupazione resti vicina al 20% e quella giovanile sia più del doppio – solo perché oggi le cose vanno meglio di quanto siano andate da quando mezzo decennio fa è iniziata la crisi dell’euro. La Grecia resta in una depressione severa. La crescita per l’Eurozona rispetto allo scorso anno è stata di un anemico 1,6% e questo numero è il doppio del tasso di crescita media dal 2005 al 2015. Gli storici parlano già del decennio perduto dell’Eurozona, ed è anche possibile che presto scriveranno del suo decennio finale.
L’euro fu introdotto nel 2002, ma le incrinature nell’organizzazione della moneta unita, che iniziò nel 1999, divennero evidenti con la crisi finanziaria globale del 2008. Gli economisti avevano predetto che l’euro sarebbe stato messo alla prova quando la regione avesse fronteggiato uno choc, e l’Europa ha avuto la sfortuna di fronteggiare tale grande choc in arrivo dall’Atlantico subito dopo la sua creazione. Nel 2010 la crisi dell’euro era diventata conclamata, con tassi di interesse sul debito sovrano della ‘periferia’ – Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo – che crebbero a livelli inauditi. Ma uno sguardo ravvicinato all’Eurozona mostra disequilibri che si formano proprio dall’inizio – con il denaro in corsa verso i paesi periferici nella fede erronea che eliminare il rischio del tasso di cambio avrebbe eliminato in qualche modo ogni rischio.
Questo illustra uno dei difetti chiave nella costruzione dell’Eurozona: essa fu basata sulla fede che se solo il governo non avesse messo sottosopra le cose – se avesse mantenuto i deficit sotto il 3% del PIL, il debito sotto il 60% del PIL e l’inflazione sotto il 2% per anno – il mercato avrebbe assicurato crescita e stabilità. Questi numeri e le idee sottostanti non avevano basi né nella teoria né nell’evidenza. Prima della crisi Irlanda e Spagna, attualmente due dei paesi più colpiti, avevano un surplus. La crisi ne ha causato il deficit e il debito, non viceversa.
La speranza era che la disciplina fiscale e monetaria avrebbe provocato una convergenza, rendendo capace il sistema monetario di funzionare sempre meglio. Invece c’è stata divergenza, con i paesi ricchi che diventavano più ricchi e quelli poveri che diventavano più poveri e, all’interno dei paesi, con i ricchi che diventavano più ricchi e i poveri più poveri. Ma è stata la struttura stessa dell’Eurozona che, come si poteva prevedere, vi ha condotto. Il mercato unico, per esempio, rendeva facile al denaro lasciare le banche dei paesi più deboli, obbligando queste banche a contrarre il prestito, indebolendo ulteriormente il debole.
Valutando circa venticinque anni fa le prospettive di un’organizzazione di una moneta unica, gli economisti sottolinearono sia l’importanza di una sufficiente mobilità del lavoro e di un bilancio comune adeguatamente ampio da assorbire gli choc, sia la sufficiente somiglianza economica tra i paesi. Ma l’euro ha soppresso due degli strumenti critici per gli aggiustamenti – il cambio e i tassi di interesse – e non ha messo nulla al loro posto. Non c’è stata garanzia comune sui depositi, né un modo comune di risolvere i problemi nel settore bancario, né una strategia comune di assicurazione contro la disoccupazione.
Ugualmente rilevante, queste prime discussioni ignorarono l’importanza della convergenza intellettuale: c’è una differenza enorme nella percezione di che cosa costituisca le buone politiche, specialmente tra la Germania e gran parte del resto dell’Europa. Queste differenze sono di lunga data. Mi si sono rese evidenti quando ho presieduto la Commissione per la politica economica dell’OSCE a metà degli anni ’90. Proprio qui c’è stata divergenza. Così la politica di austerità – che nel pensiero della Germania avrebbe portato un rapido ritorno alla crescita – ha fallito miseramente in ogni paese in cui è stata tentata. Le conseguenze erano prevedibili, e predette dagli economisti più seri di tutto il mondo. Inoltre, molte delle particolari riforme strutturali hanno attualmente indebolito i paesi a cui sono state imposte, abbassando la crescita e aumentando il loro deficit commerciale.
Da allora si è spalancato un enorme deficit democratico: i cittadini in Grecia, in Spagna e in Portogallo hanno tutti votato in larga maggioranza per partiti contrari all’austerità. Eppure hanno sperimentato di non avere altra scelta che accettare le richieste della Germania. Ai cittadini non è mai stato detto che se si fossero uniti all’euro avrebbero rinunciato alla loro sovranità economica.
L’ambizione dell’euro era di portare una maggiore prosperità all’Europa. Questa avrebbe a sua volta promosso l’integrazione economica e politica. L’euro fu un progetto politico, ma i politici non furono abbastanza forti per creare gli organismi istituzionali che avrebbero assicurato il successo. Non è una sorpresa che, portando alla stagnazione o peggio, l’euro abbia portato ad aumentare la divisione anziché la solidarietà. Oggi sembra che l’euro, che si supponeva essere un mezzo per un fine, sia diventato un fine in se stesso – il cui perseguimento pone forse la minaccia più importante al progetto europeo.
In risposta alle crisi ripetute, l’Europa ha fatto riforme, ma sono state troppo piccole, troppo in ritardo. Alcune oggi possono essere controproducenti: avere un sistema di supervisione comune senza adeguata sensibilità alle macro-condizioni locali e senza una garanzia comune sui depositi può attualmente esacerbare la divergenza. Nel frattempo la regione ha avuto la sfortuna di essere bombardata ripetutamente da crisi, specialmente la crisi dei rifugiati. Con una disoccupazione così alta in così tanti paesi – provocata infine anche dall’euro – quelli che cercano un nuovo futuro desiderano andare dove c’è lavoro, così che pochi paesi subiscono il peggio dell’ondata dei migranti. E naturalmente i paesi dove la disoccupazione è alta fanno resistenza ad accettare nuovi lavoratori in competizione per il lavoro scarso.
L’Europa è stata impegnata in una politica del rischio calcolato, ma il pericolo di una simile politica è che c’è un’alta probabilità che si possa andare oltre il calcolo. I mercati sentono che il sistema non è sostenibile a lungo termine – gli speculatori attaccano quando sentono odore di sangue. L’affermazione del presidente della BCE Mario Draghi, che farà “whatever it takes” ha funzionato a meraviglia – più a lungo di quanto ci si sarebbe aspettato. Ma è un raggiro: funziona solo perché i partecipanti al mercato credono che funzioni.
Queste forze di mercato sono intrecciate con la politica. Gli elettori che dovrebbero essere scontenti – semplicemente perché è andata loro male per così lungo tempo – hanno espresso la loro paura votando contro i partiti di centro destra e centro sinistra. I dissidenti sono in ascesa.
Forse i dirigenti europei, sensibili all’urgenza del momento, faranno finalmente le riforme nella struttura dell’Eurozona che permetteranno all’organizzazione della moneta unica di funzionare – per raggiungere una prosperità condivisa. Forse il 2017 sarà l’anno in cui la riforma dell’Eurozona prenderà realmente piede.
Perché il sistema della moneta unica funzioni ci deve essere più Europa – più solidarietà, più disponibilità dei paesi forti ad aiutare i deboli, più disponibilità a creare istituzioni come una garanzia comune sui depositi e una strategia comune per la disoccupazione – dell’attuale mezza misura, che è semplicemente insostenibile. Ma i fallimenti dell’Eurozona rendono tali riforme sempre più difficili. È infine probabile che le forze politiche stiano andando nell’altra direzione, e se è questo il caso, può essere soltanto una questione di tempo prima che l’Europa consideri l’euro come un esperimento interessante, ben intenzionato, che ha fallito – a duro prezzo dei cittadini europei e delle loro democrazie.
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