Sulla reale natura dei saldi Target2
di ANTONELLO NUSCA (FSI L’Aquila)
Le recenti affermazioni del governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, in merito all’incremento dei saldi Target2 nell’ambito del Quantitative Easing ed ai presunti debiti in Euro da saldare a carico dai paesi che intendessero lasciare l’Eurosistema, hanno scatenato, come prevedibile, innumerevoli discussioni e teorizzazioni sulla reale natura di tali saldi. Cercheremo, in questa sede, di fornire una chiave interpretativa tramite alcune necessarie analogie ed esemplificazioni.
Come premessa al ragionamento, è bene ricordare che la BCE è stata voluta per realizzare una (così dicono) “messa in comune” della sovranità monetaria, in quanto il suo operato, attraverso il Sistema Europeo delle Banche Centrali, agisce pro quota con politiche monetarie omogenee in tutti i singoli paesi interessati dall’Unione Monetaria, senza poter essere più incisivo ed espansivo dove ce ne sarebbe bisogno e più restrittivo dove si naviga in acque tranquille, e senza poter garantire che le variazioni di portafoglio degli investitori, conseguenti al perdurare del Quantitative Easing, vadano ad interessare azioni ed obbligazioni dei paesi più bisognosi di stimolo, o che tali variazioni siano omogenee in tutti i singoli appartenenti alla UEM.
La situazione attuale, come comprensibile, crea un deflusso di denaro da alcuni paesi indirizzato all’acquisto di titoli di quegli stati che forniscano rendimenti più alti, o che siano visti come un bene rifugio su cui guadagnare, in caso di rottura dell’area valutaria, al fine di lucrare sulla successiva svalutazione della moneta del paese di appartenenza (su questo aspetto si potrebbe fare un ragionamento a parte per quanto riguarda la dinamica dell’inflazione nei vari paesi).
Per capire la natura dei saldi Target2 e valutare se possano essere considerati crediti/debiti, bisogna allora ragionare su come si sarebbero comportate le singole Banche Centrali Nazionali nel caso in cui non fossero state integrate nel SEBC e nella Zona Euro, quindi in assenza della BCE e della UE.
Immaginiamo ora che sia la Banca d’Italia che le altre Banche Centrali Nazionali stessero intraprendendo l’acquisto di titoli sul mercato secondario in modo quantitativamente proporzionale, teorizzando una frammentazione dell’operato della BCE e del SEBC nelle singole valute nazionali.
Ci sarebbero, quindi, soggetti privati che vendono alla propria banca centrale dei titoli in cambio di moneta nazionale, che verrebbe spesa per l’acquisto di titoli esteri. Questo acquisto non potrebbe avvenire in altro modo che offrendo, ad esempio, Lire in cambio di Marchi tedeschi per l’acquisto di titoli o azioni tedesche. La Bundensbank, a questo punto, offrirebbe Marchi in cambio di Lire aumentando le sue riserve in valuta estera. In una situazione di cambi flessibili questo porterebbe ad una rivalutazione del Marco e ad una svalutazione della Lira che la Banca d’Italia, per tenere il cambio fisso, dovrebbe fronteggiare acquistando titoli in Lire in modo da riportare la situazione in equilibrio.
Nella Zona Euro invece succede che, quando l’italiano con la sua nuova liquidità vuole acquistare un titolo tedesco, deve fare i conti con la possibile scarsità di riserve del sistema bancario nazionale che, se non compensata da un prestito dal sistema bancario tedesco che ne ha in eccesso, vengono fornite dalla BCE con la conseguente scrittura contabile di credito da parte della Germania e debito da parte dell’Italia.
Riassumendo, nel caso di una situazione di paesi con la propria valuta, l’acquisto sarebbe stato portato a termine offrendo Lire in cambio di Marchi “stampati” dalla BUBA, per completare la transazione, con conseguente aumento delle riserve in Lire della banca centrale tedesca e riduzione di pari ammontare della base monetaria in Italia. Questo, secondo quanto insegnato nei libri di testo usati dei primi anni di università, avrebbe portato ad un aumento iniziale dei tassi di interesse in Italia ed una sua riduzione in Germania, con conseguente movimento di capitali verso i rendimenti più alti, tale da mantenere stabile il cambio e riportare il livello dei tassi e della bilancia dei pagamenti tra i due paesi in equilibrio. Ciò, ovviamente, non sarebbe stato così automatico e, in realtà, ci sarebbe stata una rivalutazione della valuta più richiesta tale da necessitare di un intervento attivo volto ad alzare i tassi di interesse del paese debitore. Quello che si può notare è che, nei fatti, la medesima transazione non sarebbe stata altro che un trasferimento di base monetaria da un paese all’altro, con un sistema che ne avrebbe rifornito automaticamente il paese dal quale è partito l’acquisto.
Se di questo si tratta, per analogia, il presunto credito Target2 non dovrebbe essere altro che una riserva di valuta estera detenuta dal paese creditore e “stampata” da quello debitore. In caso contrario, fermo restando l’esempio scolastico del cambio fisso, tale riserva non si sarebbe accumulata ma sarebbe andata a riversarsi nell’acquisto di titoli italiani da parte di cittadini tedeschi portando il saldo a zero.
Qui, come si può immaginare, si è fatta una semplificazione, in quanto una quota dei titoli che vengono acquistati nell’ambito del QE è detenuta da soggetti che vivono anche al di fuori della UEM o del paese che ha emesso titoli del debito pubblico e non si stanno considerando i deficit commerciali. In sostanza, tuttavia, la questione non va a modificare il ragionamento, poiché è prerogativa delle banche centrali il poter effettuare acquisti di titoli in mano estera e non esiste alcuna regola sulla composizione dei proprietari di predetti titoli.
Questo significa che, al momento attuale, siamo in una situazione che evidenzia gli aspetti peggiori del sistema a cambio fisso, data l’impossibilità di svalutare per rilanciare la domanda estera, e che è priva, anche in teoria, di un meccanismo automatico in grado di favorire il movimento di capitali dal paese creditore a quello debitore. Il tutto senza i possibili vantaggi che una politica fiscale espansiva avrebbe potuto avere, sempre in teoria in questo regime di cambio, dati i ben noti “paletti”, e con il solo beneficio del rifinanziamento automatico delle riserve spese per portare a termine una compravendita internazionale.
La teoria, purtroppo, già si è scontrata con la realtà all’epoca della crisi dello SME ed ha dimostrato che paesi troppo diversi non riescono a stare insieme anche con accordi di cambio dotati di una certa flessibilità, e che determinati automatismi non si verificano. Gli aggiustamenti sono stati sempre sulle spalle dei debitori fino al momento critico di rottura che, nel caso dell’Euro, è stato spostato in avanti ricorrendo a meccanismi quali quello del SEBC e del Target2.
A conclusione di questo ragionamento, a parere di chi scrive, la BCE, le cui azioni sono detenute dalle singole Banche Centrali Nazionali (1), non potrebbe vantare crediti nei confronti di un ipotetico socio che decidesse di uscire. Rimane quindi plausibile che i presunti debiti registrati nel sistema Target2 possano essere ridenominati, in parte, in Lire e che i titoli acquistati nell’ambito del QE possano essere trasferiti nel portafoglio della banca centrale del paese recedente o, come altra possibilità, venduti alla stessa, che non farà altro che fornire Lire (stampandole) in cambio di titoli.
Qualsiasi soluzione verrà presa, nel caso ipotetico di una rottura della Zona Euro, sarà ad ogni modo il frutto di lunghe e dolorose contrattazioni che la nostra classe politica sarà chiamata a svolgere con gli altri paesi e con quelle istituzioni, tutt’altro che democratiche, che hanno dimostrato una naturale riluttanza ad accettare lo sgretolamento del castello eretto e la riconsegna ai parlamenti nazionali dei loro pieni poteri.
(1) http://www.finanzainchiaro.it/a-chi-appartiene-la-banca-centrale-europea.html
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