Quando il PCI disse no all’Europa (2a parte)
di ALESSANDRO MUSTILLO (segretario del Fronte della Gioventù Comunista)
Il 21 luglio l’Unità apriva il giornale con un titolo a lettere cubitali: «Confindustria punta sul MEC per liquidare l’industria di Stato» basandosi sulle dichiarazioni di Malagodi, segretario del Partito Liberale «i cui legami con la Confindustria – scrive l’Unità – sono noti a tutti» Malagodi «ha mostrato con grande chiarezza il vero volto dell’operazione che il governo si accinge a varare. Infatti dopo le consuete, generiche espressioni di fiducia sul Mercato comune, come risolutore di tutti i principali problemi italiani […] Dai trattati – egli ha rilevato – non possono che derivare logiche conseguenze di politica interna poiché non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai potenti monopoli interni e internazionali) per applicare il Mercato comune e l’Euroatom, e uno diverso all’interno del paese.»
Il segretario liberale aveva illustrato alla Camera la necessità di aprire una stagione di liberalizzazioni, dismissioni delle imprese di Stato e evitare ogni nuova forma di nazionalizzazione e aveva favorevolmente accolto l’astensione socialista, che testimoniava a detta di Malagodi, il fatto che i socialisti non erano più insensibili all’idea della libertà. Parole che al PCI suonavano come un forte campanello d’allarme.
La seconda questione riguarda la CGIL. La posizione del sindacato infatti era molto più simile a quella del PSI che non a quella del PCI, nonostante il Partito Comunista facesse di tutto per evitare che questa frattura si palesasse e avesse ripercussioni sull’unità della CGIL. Il 19 luglio la CGIL si era espressa a favore del processo di integrazione europeo, pur tuttavia mettendo in evidenza i lati negativi e indicando la necessità della lotta dei lavoratori contro le possibilità che tale processo si svolgesse in senso reazionario. Non ci fu nessuna polemica esterna.
L’Unità pubblicò il dispositivo della CGIL come se nulla fosse, ogni commento dei comunisti riguardava le critiche contenute al MEC ma non si nominava mai il passaggio precedente. Ma se sulla critica comunisti e socialisti erano uniti, sulla posizione immediata erano su posizioni differenti.
Il sì generico della CGIL restava ed era chiarissimo: «Nonostante gli inconvenienti di natura transitoria, (…) il Comitato Esecutivo ritiene che essa vada appoggiata e incoraggiata, perché può recare – in prospettiva – un contributo fondamentale e – in una certa misura – insostituibile allo sviluppo generale delle economie europee e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori».
La parte socialista della CGIL aveva fatto il suo, ma certamente Di Vittorio, con cui c’erano state frizioni interne al PCI sull’Ungheria, non l’aveva osteggiata troppo, probabilmente anche in accordo con il vertice del PCI che di certo non avrebbe consentito in quella fase una rottura dell’unità sindacale con i socialisti, proprio mentre quella politica sembrava irrimediabilmente compromessa.
Ma con la neutralizzazione della CGIL, che si decideva di mantenere fuori dalla questione, il PCI veniva privato dello strumento più importante per la battaglia politica contro la CEE, che infatti non superò mai le porte del Parlamento. Come, e forse ancora di più che in altri casi, la critica parlamentare del PCI e l’opposizione è durissima, ma questo non porta a nessuna reale mobilitazioni delle masse lavoratrici.
Nonostante ogni tentativo comunista di modificare la posizione del PSI, di aprire contraddizioni in seno ai socialisti (che non avevano votato all’unanimità in comitato centrale ma con 13 contrari e 2 astenuti) mettendo in chiaro come fosse la Confindustria ed il grande capitale a volere l’integrazione europea, il PSI rimase sulla sua posizione. Alla Camera la mano tesa del PCI si tramutò in attacco esplicito, quando Lombardi intervenne contro Malagodi, sostenendo che la sua fosse una posizione ingenua e che lo sviluppo italiano nel mercato comune non avrebbe potuto fare a meno della direzione statale.
A Pajetta toccò l’intervento nella seduta del 25 luglio nel quale il PCI annunciava il voto contrario. La polemica con il PSI è evidente fin dall’apertura. Dice Pajetta: «Alcuni giorni fa ci è stata rivolta una ingenua domanda dal giornale del Partito Socialista Italiano. L’Avanti ha domandato ai comunisti: ma credete davvero che risolverete i gravi, complessi problemi del Mercato comune con il vostro voto contrario? Noi non vogliamo rispondere con la troppo facile battuta: ma credete che questi problemi gravi, profondi, complessi si risolvano con un’astensione?»
Nel suo intervento Pajetta rimarca il giudizio del PCI con toni molto forti e netti. «L’esame della situazione e la stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell’avvenire.»
Pajetta accusa esplicitamente Lombardi e il PSI di ingenuità rispetto alla natura reale del MEC anche in relazione all’intervento di Malagodi. «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto “speranza” a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune. Credo del resto che sia difficile che queste forze sbaglino quando uniscono il loro amore per il mercato comune al loro sogno di difendere una economia basata sulla proprietà privata e sul profitto monopolistico: perché è difficile pensare alla prospettiva di un’economia diretta senza le leve della tariffa doganale, dei contingenti, della politica valutaria. Le classi popolari all’interno del Paese e tutta l’Italia nell’ambito della “piccola Europa” pagheranno caramente l’approvazione di questi trattati.»
L’intervento di Pajetta presenta alcuni passi che testimoniano quanto il PCI fosse consapevole di quello che il mercato comune avrebbe rappresentato. Pajetta esprime bene l’impossibilità dei popoli di scegliere un cammino differente da quello capitalistico una volta ingabbiati nel meccanismo del mercato comune. Un elemento oggi estremamente acuito dalla perdita della sovranità monetaria con l’introduzione dell’euro. La metafora della speranza e del volante poi, si addice davvero bene a quelle forze che pensano ancora di poter modificare dall’interno il corso politico della UE, nonostante l’evidenza di questa impossibilità.
La dichiarazione finale sul voto comunista è data il 30 luglio dall’allora capogruppo alla Camera Pietro Ingrao con queste parole: «Votando contro questi trattati intendiamo indicare alla classe operaia una prospettiva di autonomia e di lotta, intendiamo chiamare la classe operaia a battersi assieme a tutte le forze sane e minacciate da questi trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.»
L’Italia entrava ufficialmente a far parte della CEE con il voto di astensione dei socialisti, con il voto contrario del PCI, unico partito italiano ad opporsi al processo di integrazione europea.
Come noto, la posizione del PCI mutò negli anni seguenti durante la segreteria Berlinguer e il progressivo distacco da Mosca. Allora il PCI abbracciò insieme al PCE e al PCF – quest’ultimo non senza contraddizioni e ripensamenti allora – la politica dell’eurocomunismo con un avvicinamento alla socialdemocrazia europea e in generale al processo di integrazione comunitaria.
L’associazione ideale del movimento comunista con il percorso di unificazione europea parte da questo preciso momento storico, lo stesso del progressivo abbandono del marxismo-leninismo, del cedimento politico ed ideologico del PCI con cui il partito comunista si sarebbe incamminato verso il suo mutamento radicale avvenuto formalmente nel ’91, ma nella sostanza già evidente da tempo. Non si tratta di una coincidenza temporale casuale. Nel momento in cui si allenta la tensione ideologica tra i partiti comunisti a livello internazionale, si incrementa l’idea della reciproca autonomia, delle vie nazionali al socialismo si perdono anche i riferimenti di analisi che avevano portato ad un giudizio tanto negativo sulla Comunità Europea nel 1957. Dunque non è all’origine della costituzione della CEE che i comunisti sposarono la causa dell’integrazione europea. Questo accadde solo nel momento in cui il Partito Comunista Italiano andava trasformandosi in un partito socialdemocratico.
In questo equivoco di fondo si inserisce anche la figura di Altiero Spinelli, padre nobile della sinistra europeista, e oggi invocato a gran voce a copertura di questa operazione. Tutti ricordano Altiero Spinelli eletto al Parlamento Europeo (come indipendente) nelle liste del PCI nel 1979, quando ormai il PCI aveva compiuto la sua parabola sulla CEE e sulla Nato. Pochi ricordano però che Spinelli negli anni della lotta del PCI contro l’integrazione europea era consulente di De Gasperi, e che fu membro della commissione europea con prevalente incarico alla politica industriale dal 1970 al 1976. L’ennesimo ed inequivocabile segno della consumata deriva del PCI in quegli anni, c’è da ricordare che Spinelli era stato espulso dal PCI durante gli anni della clandestinità per le sue posizioni marcatamente anticomuniste.
Dal momento dell’accettazione della CEE, della Nato e delle istituzioni internazionali del capitalismo occidentale da parte del PCI, nasce la visione europeista della sinistra italiana, non a caso quando di fatto si abbandona definitivamente la prospettiva comunista e si inizia a costruire un partito finalizzato al suo superamento, e al superamento del patrimonio ideale del marxismo. Gli esecutori materiali della fine del PCI saranno anche la generazione di nuovi dirigenti della sinistra italiana che contribuiranno a portare l’Italia nell’euro e a completare il processo di integrazione della nuova Unione Europea. Saranno la parte determinante della classe dirigente che ha portato l’Italia al disastro. La stessa sinistra radicale, nonostante qualche distinguo su questioni limitate, subirà negli anni e subisce tuttora il fascino dell’operazione europeista di cui, dimenticando completamente la storia, arriva addirittura a considerarsi artefice. Qui si consolida l’equivoco di fondo.
Il PCI in precedenza peccò di gravi errori sul piano strategico, anche in occasione del voto sulla CEE, che non provocò –come purtroppo spesso accadde negli anni della segreteria Togliatti – alcuna conseguenza sul piano della mobilitazione generale delle masse, restando uno scontro, per quanto alto e ineccepibile dal punto di vista dei contenuti, tipicamente parlamentare. Era la linea tattica, si diceva, del PCI di allora. Una linea che alla fine si rivelò per tutta la sua portata strategica nell’accettazione del Parlamento come unico, o almeno privilegiato, luogo di scontro (istituzionale) nel Paese. La linea del non dare pretesti, del dimostrare la “responsabilità” del PCI e che ha condotto a capitolare passo dopo passo. Ma se tali rimproveri possono oggi essere fatti con il senno di poi a quel grande partito che era allora il Partito Comunista Italiano, nulla si può obiettare sulla posizione politica che il PCI prese riguardo all’integrazione europea, che è cristallina, coerente e assolutamente attuale anche oggi, nonostante il modificarsi di molte situazioni storiche, e ci consente di fare dei parallelismi molto importanti.
Fin da subito la nascente CEE cercò di utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962 l’Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo nell’est Europa, terreno naturale di espansione dell’imperialismo europeo.
La struttura economica dei paesi della “piccola Europa” ha subito importanti variazioni. In tutti questi paesi i monopoli hanno aumentato la loro influenza strategica nelle economie nazionali. L’Italia tra i paesi originari è quella che ha subito i mutamenti più grandi insieme con la Germania, che ha utilizzato l’annessione della DDR come strumento per lanciare ulteriormente il suo rafforzato potenziale economico, pagato a caro prezzo dai cittadini della vecchia DDR e dal resto d’Europa. Tuttavia la diversità iniziale, nonostante il dato generale della crescita dei monopoli nei singoli paesi ormai intrecciati in una comune ragnatela continentale, ha continuato a mantenersi nella forma dell’influenza esercitata nelle economie nazionali dal tessuto delle piccole e medie imprese. Un elemento, come noto, particolarmente importante per l’Italia. Ciò che la politica di sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è stato reso possibile con l’introduzione dell’euro. L’Europa dei monopoli, di quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la “libertà per i monopolisti” ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un’ulteriore crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa, una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell’introduzione della moneta unica e dell’allargamento delle aree di libera circolazione (anche attraverso trattati con stati non aderenti alla UE in un’economia sempre più globalizzata). Le linee generali di quanto il PCI aveva giustamente previsto nel 1957 si sono realizzate, anche se con modalità storiche diverse e allora oggettivamente imprevedibili.
Il risultato è oggi un’Europa dei grandi monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà, distruzione.
Anche la pretesa di pace che l’Unione Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell’avvenire», e aggiungo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace. L’Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome della difesa di quegli interessi.
L’Unione Europea di oggi non è più la “piccola Europa” del 1957. L’unificazione tedesca ha ricomposto una nazione economicamente in grado di esercitare una funzione di traino dell’area europea, che era oggettivamente ridotta al rango di protettorato USA quando sul suo odierno territorio correva il confine con il blocco comunista. E sebbene i rapporti con gli Stati Uniti siano centrali nella politica interna ed internazionale della UE, la situazione dal 1957 è fortemente mutata, per il peso che l’Unione Europea ha assunto nella competizione imperialistica globale. Pensare all’Unione Europea come strumento di pace è davvero utopia.
La stessa che tanta sinistra ancora oggi manifesta. Pajetta criticando il PSI e le forze di sinistra che non si opposero o votarono favorevolmente all’ingresso nella CEE disse: «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto “speranza” a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune.» Basterebbe sostituire Valletta e Marinotti con Marchionne e Profumo, oppure Benetton, Marcegaglia, De Benedetti e il resto è ancora valido. Come l’illusione di voler attaccare un cartellino con sopra scritto “speranza” che potrebbe essere assunta a paradigma della campagna elettorale di una certa sinistra radicale ancora oggi. Con l’aggravante che nel 1957 il Mercato comune era oggettivamente un qualcosa di sconosciuto, dove solo l’analisi economica dei rapporti di produzione e dei rapporti di forza in quel processo, poteva dare un’indicazione. Oggi la natura dell’Unione Europea è sotto gli occhi di tutti, come i risultati delle politiche europee.
Il sogno di un’Unione Europea progressista e pacifica è un’illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi cerca di dipingere l’antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica, estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno compreso fin dall’origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia a livello internazionale, per la sua opposizione all’URSS e al blocco comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di trasformazione della società in senso socialista.
Ma oggi una sinistra colpevole e complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta contrarietà all’Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e nel costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all’origine dell’Unione Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi portatrice dell’inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.
Fonte: senzatregua.it
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