Quando il PCI disse no all’Europa (1a parte)
di ALESSANDRO MUSTILLO (segretario del Fronte della Gioventù Comunista)
Si sente dire spesso che il processo d’integrazione europea appartiene alla nostra tradizione politica. Un elemento ideale di fondo, come quello evocato da Bertinotti nel discorso del 23 marzo 2007 quando da Presidente della Camera parlò dello «spirito della fondazione dell’Europa che oggi celebriamo e che dobbiamo recuperare». È l’idea di un’Unione Europea sorta su un piano ideale più elevato ed oggi costretta in modo forzato nelle anguste visioni tecnocratiche e finanziarie di Bruxelles. Un’Europa da riformare, da ricostruire dalle originarie fondamenta, per riconquistare la reale natura voluta dai suoi fondatori.
Si tratta di uno degli argomenti più in voga utilizzati in questo momento dalla sinistra radicale (post o cripto comunista) che si candida in Parlamento Europeo a sostegno del leader greco di Syriza, e che oggi rivendica con fierezza il proprio contributo ideale a politico alla costruzione dell’Unione Europea. Questa sinistra è impegnata nella ricerca di un passato “nobile” della UE per meglio giustificare il suo sostegno all’integrazione europea dato nel momento più alto della crisi economica, in cui la contrarietà alla UE inizia a farsi strada con forza tra la popolazione.
Il mito dell’Europa nata sulla spinta ideale progressista deve cedere il passo alla realtà delle cose. Nel 1957 la ratifica dei Trattati di Roma, con cui vennero istituiti la CEE e l’Euratom, vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. Un’opposizione che si era registrata fin dagli albori del processo d’integrazione anche in riferimento alla CECA e alla mai varata CED, che avrebbe dovuto creare un sistema di difesa comune europea, anch’esso osteggiato dai partiti comunisti e mai entrato in vigore per il voto contrario del Parlamento francese.
Quando nel 1957 alla Camera dei Deputati viene chiesta la ratifica del trattato di Roma, la posizione comunista – espressa da Giuseppe Berti, relatore della mozione con cui si chiedeva di non ratificare il trattato – non potrebbe essere più chiara. Si parlava allora non di CEE ma di MEC poiché la Comunità Economica Europea era conosciuta principalmente con il nome di Mercato comune, una scelta tutt’altro che casuale e che non mascherava la reale natura dell’operazione, che più tardi ha voluto caratterizzarsi per i suoi fini “nobili”.
Berti, tra gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il 1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l’espressione “Mercato Europeo Comune”, oggi desueta, con “Unione Europea” e avremmo una sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo. Una realtà che i comunisti avevano perfettamente chiara nel 1957 e che ancora oggi, nonostante l’evidenza empirica, sfugge a molti sinistrati.
I trattati di Roma furono approvati a maggioranza con voto favorevole della DC e del MSI (il deputato missino Augusto De Marsanich disse in Aula: “Diamo la nostra leale adesione e il nostro voto a questi trattati, confidando che essi possano in realtà produrre un incremento di civiltà in Italia e in tutta Europa”) con l’astensione del Partito Socialista Italiano. Ma questa storia ha bisogno di essere raccontata bene, con tutti i suoi particolari, le posizioni politiche e le conseguenze, anche in relazione alla spaccatura che si creò tra PCI e PSI.
È il 28 luglio del 1957, mancano pochi giorni al voto di approvazione richiesto per i trattati europei e il PCI ha il compito non facile di far comprendere alla classe operaia e alle masse popolari italiane le ragioni della ferma opposizione comunista, su una questione che appare tanto lontana e, per certi versi, anche spinosa. Fin da allora l’integrazione europea viene presentata come un elemento progressivo, come un mezzo per pacificare definitivamente il continente, rispondere alle esigenze economiche delle nazioni coinvolte.
Un’intera pagina dell’edizione de l’Unità viene intitolata «Che cosa significa la sigla MEC» e divisa in riquadri schematici per facilitare punto per punto la comprensione del trattato istitutivo del mercato comune. Si tratta anche oggi di uno strumento utile per comprendere immediatamente la posizione comunista sul trattato istitutivo della CEE.
Il primo riquadro è dedicato alla situazione dei lavoratori, il secondo e il terzo alla libertà di scambio e circolazione, il quarto all’agricoltura ed il quinto alla situazione delle colonie.
Si legge nell’articolo: «La manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d’oltre mare» (bisogna ricordare che all’epoca anche le colonie, non ancora indipendenti entravano nel mercato comune, il problema era particolarmente sentito per il Nordafrica ancora sotto dominio francese n.d.r.); «si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione dell’orario di lavoro» e ancora: «l’economia italiana corre il rischio di vedersi privata della mano d’opera migliore attraverso l’emigrazione degli operai specializzati».
Il PCI, nel 1957, era ben consapevole dunque degli effetti potenziali dell’integrazione europea relativamente alla condizione dei lavoratori, e la maggiore preoccupazione era legata al Mezzogiorno. Una preoccupazione che si evidenzia particolarmente nei punti seguenti, dove il linguaggio chiaro e semplice con cui il partito voleva comunicare alla classe operaia e ai ceti popolari la reale natura del trattato internazionale, mirava in primo luogo a smascherare la terminologia utilizzata e l’abuso del termine “libertà”.
Il PCI definisce senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà dei monopolisti». L’analisi semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La “libera circolazione dei capitali” significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo è possibile che si verifichi da parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall’Italia.»
Sulla questione dell’abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera».
Ma il Partito Comunista non si limita a parlare di minaccia dall’esterno. La sua non è una posizione “nazionalista”; al contrario mette in rilievo come la grande impresa monopolistica nazionale sia parte attiva e promotrice del processo di integrazione economica europea. «A questo punto – si legge nella pagina dell’Unità – potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC? Il fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all’interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La FIAT ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un’efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo.»
In definitiva, concludeva l’analisi del PCI, «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli.»
La preoccupazione del Partito era rivolta anche all’agricoltura dove si evidenziava il rischio del medesimo processo di concentrazione della proprietà a danno dei contadini salariati e dei piccoli contadini autonomi. Così come la libertà di circolazione delle persone era già messa in relazione al problema dell’immigrazione interna alla sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei lavoratori.
Riguardo alla situazione francese il problema delle colonie e la loro integrazione nel MEC erano giudicati uno strumento di pressione per compromettere il legittimo diritto all’autodeterminazione dei popoli coloniali. Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l’approvazione dei trattati europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.
A Giuseppe Berti, intellettuale comunista, dirigente del partito e deputato alla Camera, è affidato il compito dell’analisi dei trattati, che a grandi linee sarà pubblicata sempre su l’Unità nei giorni del dibattito parlamentare. Bisogna tenere a mente che gli anni che precedono il voto sui trattati europei sono cruciali nello sviluppo storico successivo.
La morte di Stalin nel 1953, con il XX congresso del PCUS, l’invasione dell’Ungheria e il progressivo distacco PCI-PSI, ma anche la questione del canale di Suez, con Francia e Inghilterra che ritirano su ordine degli USA le proprie truppe dall’Egitto. Sullo sfondo dei trattati c’è lo scontro tra il blocco capitalista e quello socialista, la questione coloniale, e la conseguente perdita di territori per i paesi a capitalismo avanzato con i quali tenere livello di scambio economico.
Il nuovo potenziale economico tedesco che viene ricostruito non ha territorio sufficiente essendo bloccato ad est dai paesi socialisti. La Francia sta perdendo il suo impero coloniale. Insomma alla radice del mercato comune europeo c’è la necessità di aprire quegli spazi economici che la divisione in blocchi e in parte la decolonizzazione fanno progressivamente mancare alle economie capitalistiche avanzate.
Oggi quando pensiamo all’Unione Europea siamo abituati a pensare ad un processo spontaneo dei popoli europei, a dimenticare la divisione della guerra fredda, e l’influenza di quella divisione sugli equilibri europei. Anche qui il passaggio del tempo distorce la verità, la mitologia si sostituisce alla realtà.
Allora al contrario i comunisti non avevano alcun dubbio sull’origine del processo di integrazione dell’Europa occidentale, che Pajetta definiva negli interventi alla Camera “la piccola Europa”, proprio per metterne in luce la parzialità rispetto alla chiusura ad est. Si trattava di un processo voluto dal grande capitale e appoggiato con forza dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica per rispondere all’integrazione economica tra paesi socialisti all’est.
Un progetto che teneva insieme interessi monopolistici del grande capitale, privato degli sbocchi naturali sul continente e sulle colonie, con quelli al riarmo specie della Germania in funzione anticomunista, nel quadro della comune alleanza militare con gli USA per il tramite della Nato.
L’analisi di Berti, che il deputato comunista riproporrà nei suoi interventi alla Camera, è profonda, non scontata, minuziosa e chiarissima per quanto embrionale fosse lo stato del giudizio che allora si poteva dare sulla nascente Comunità Economica Europea. È un’analisi che ha il pregio di parlare anche a noi, a sessant’anni di distanza, e che nonostante lo sconvolgimento politico ed economico che è avvenuto negli ultimi anni individua correttamente situazioni che ci troviamo ad affrontare quotidianamente.
I comunisti – dice Berti – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l’automazione, l’energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione. È falso il quadro di un capitalismo ascendente e trionfante […] Si, c’è oggi una congiuntura favorevole, ma per quanto tempo? Il capitalismo esce da due catastrofi di colossale grandezza: la perdita di potere su quasi la metà del globo, la perdita di vastissimi territori coloniali. Ecco perché alla base del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto perché si sono perduti i territori dell’Europa orientale e i territori coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»
Berti affronta il quadro spinoso del rapporto sovranità nazionale-apertura internazionale in modo chiarissimo, e con una capacità d’analisi che oggi non si intravede minimamente nei dirigenti della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga l’internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è lampante la soluzione al problema.
I comunisti sono internazionalisti ma non per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali processi si celino dietro l’integrazione europea. Oltre le illusioni e le favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione. E capita che il PCI venga accusato di essere “protezionista” da chi usa strumentalmente questo elemento per attaccare la posizione dei comunisti.
In aula Berti replica a queste accuse. «Non è vero che i comunisti pongano l’accento soltanto sui riflessi tariffari: è ridicolo sostenere che i comunisti sono “protezionisti”. Il problema tariffario esiste ed è grave per l’industria e soprattutto per l’agricoltura del mezzogiorno e delle isole: ma il problema più grave è che cosa il ceto privilegiato sostituisce al protezionismo tariffario. Esso sostituisce l’accordo sovrannazionale dei monopoli all’interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la nostra lotta alla testa del popolo italiano.»
Un punto di grandissima rilevanza è il rapporto con il PSI in relazione al voto dei trattati. Nel 1957 il Partito socialista con un voto a maggioranza del suo comitato centrale (59 favorevoli, 13 contrari, 2 astenuti) decise di astenersi sul trattato istitutivo della CEE e di votare a favore di quello sull’Euratom. La decisione del PSI acuiva ulteriormente la frattura creatasi con il PCI al momento dell’intervento sovietico in Ungheria e costituiva una delle prime scelte che vedevano un voto sensibilmente differente tra PCI e PSI, con ripercussioni anche sulla CGIL.
Il voto era il risultato anche dell’attività dell’Internazionale socialista che da mesi si era spesa fortemente per l’integrazione europea. Una parte di primo piano l’avevano fatta i socialisti francesi che dalla formazione del governo Mollet esercitavano insieme con i socialisti tedeschi una funzione di traino nel processo di costruzione del mercato comune. In Parlamento la scelta del PSI di astenersi fu oggetto di dure critiche del PCI ed in particolare da Pajetta che più volte interruppe Lombardi (PSI) mentre esponeva le motivazioni dell’astensione. Due episodi devono essere considerati per comprendere le preoccupazioni dei comunisti.
[continua]
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