Vittoria e sconfitta delle idee sovraniste
La divisione tra i sovranisti francesi ha provocato la vittoria dell’eurista Macron. Questa sconfitta elettorale della maggioranza dei Francesi non era inevitabile e non è definitiva. Ogni sovranismo ha tre radici: 1. l’umiliazione dei lavoratori costretti dalla globalizzazione alla concorrenza con i lavoratori di tutto il mondo – ed è in questo senso sovranismo sociale; 2. la preoccupazione politica per lo smantellamento della democrazia operato dalle organizzazioni sovranazionali – ed è allora sovranismo politico; 3. la volontà di conservare l’ethos che caratterizza storicamente ogni popolo – ed è allora sovranismo identitario. Poiché tutti i partiti sovranisti francesi, per quanto in misura differente, si alimentano da queste tre radici, la costituzione di un fronte sovranista elettoralmente vincente non è soltanto necessaria, se si vuole evitare che una minoranza decida l’asservimento dei lavoratori, la dissoluzione della democrazia, la fine della cultura, ma è anche possibile. A tale fine occorre mettere da parte il narcisismo delle piccole differenze, conservando soltanto due istanze discriminanti: il rigetto del razzismo e quello del comunitarismo.
Vittoria e sconfitta delle idee sovraniste
di Jacques Sapir • 16 maggio 2017
L’originale dell’articolo è al seguente collegamento:
http://russeurope.hypotheses.org/6006
Traduzione di Paolo Di Remigio
Il periodo attuale è segnato da un’acuta contraddizione. Il primo turno delle elezioni presidenziali ha rivelato la vittoria culturale delle idee sovraniste. Il secondo turno ha sancito la loro sconfitta. Le cause di questa sconfitta sono molteplici. Essa è dovuta alla persistenza di meccanismi ideologici di demonizzazione all’indirizzo del Fronte Nazionale. Questi meccanismi sono stati però riattivati anche dall’incapacità, evidente nei voltafaccia dell’ultima settimana, di articolare in modo chiaro un progetto coerente, e soprattutto dall’incapacità di presentare degnamente questo progetto nel dibattito televisivo. Questa sconfitta sancisce tanto i limiti della candidata, siano essi ideologici, politici o organizzativi, quanto la divisione della corrente sovranista.
Rammentiamo i fatti: se si sommano i suffragi che si sono indirizzati all’insieme dei candidati che difendono posizioni o tesi sovraniste, i sovranisti hanno esplicitamente ottenuto più del 47% dei voti al primo turno. Si può pensare, inoltre, che esista una riserva di elettori sovranisti nella parte dell’elettorato di François Fillon: un certo numero di suoi sostenitori, tra cui dei deputati, non hanno fatto mistero della loro adesione alle tesi sovraniste. È dunque chiaro che al primo turno il sovranismo è stato implicitamente maggioritario. Lo è stato senza cedere nulla sulle sue posizioni, in particolare sull’euro. Ma è stato sconfitto politicamente al secondo turno. L’opposizione tra questi due fatti così indiscutibili mette in luce sia la diversità delle posizioni sovraniste che le difficoltà di riunirle insieme.
L’unità impossibile?
Michel Wieviorka ha pubblicato un testo interessante sul sito The Conversation, in cui argomenta che questo scacco è dovuto alla divisione del movimento sovranista in due parti inconciliabili[1]. In effetti, questa analisi ha apparenza di evidenza. C’è stato poco travaso di voti tra l’elettorato di Jean-Luc Mélenchon e Marine le Pen. Ma le cause di questo debole travaso sono strutturali (e questa è la tesi di Wieviorka, che pensa che esista una cultura politica francese che rende impossibile la fusione degli elettorati) o sarebbero invece da cercare nella particolare congiuntura di queste elezioni?
A questo interrogativo se ne aggiunge un altro: il sovranismo è duplice, come lo sottintendono Wieviorka, ma anche altri analisti, in particolare Alexandre Devecchio che si è espresso così nella trasmissione che abbiamo realizzato con Jacques Nikonoff e con lui su Radio-Sputnik[2], oppure la questione è più complessa? In effetti si può dubitare tanto della duplicità delle correnti sovraniste quanto della loro perfetta incarnazione politica in precise correnti politiche. Si comprende l’importanza di questo tema. Perché, se Michel Wieviorka avesse ragione, un’alleanza sarebbe impossibile. Se invece il cattivo trasferimento dei suffragi si spiega meglio con il contesto ideologico nel quale si sono svolte queste elezioni, allora la conciliazione tra le differenti correnti sovraniste appare molto più facile. Soprattutto, si può pensare a una separazione radicale di queste correnti o, al contrario, hanno tutte aspetti in comune? Ciò comporta il riesame della differenza tra le incarnazioni politiche e delle correnti sovraniste.
È questa l’analisi che qui si va sviluppare. Riprendo una parte della terminologia di Alexandre Devecchio, in particolare quella riguardante il sovranismo sociale e il sovranismo identitario. Sono però il solo responsabile dell’interpretazione che do a questi termini
Sovranità e sovranismo
Se la sovranità è una, e non si divide (ricordiamo i testi costituzionali), il sovranismo è attraversato da più correnti o sensibilità. Queste correnti, o queste sensibilità, traducono un approccio della rivendicazioni sovranista che è naturalmente differente secondo le diverse persone, ma anche secondo i contesti sociali e familiari.
La prima corrente è quella che si può chiamare sovranismo sociale. Essa si radica nella constatazione che ogni progresso sociale implica che la comunità nazionale, ciò che si chiama ‘popolo’, sia sovrana. Essa comprende che non ci può essere progresso sociale senza un’economia che sia rivolta alla grande maggioranza e non all’accrescimento della ricchezza dei più ricchi, come accade attualmente. Essa analizza questo stato di fatto come il prodotto delle regole della mondializzazione e della globalizzazione finanziaria, di cui la moneta unica, l’euro, è il punto di articolazione all’interno dell’Unione Europea. Per questo essa si lega analiticamente e logicamente a questo stato di fatto e, “in nome del popolo”, e più esattamente nel nome dei lavoratori, che abbiano un impiego o che ne siano privi, reclama il ritorno a una sovranità monetaria che si inscriva nel ritorno globale di una sovranità politica. Essa pone un collegamento tra la perdita progressiva di sovranità e la distruzione, reale o programmata, delle principali conquiste sociali.
La seconda corrente è il sovranismo tradizionale, che si può chiamare sovranismo politico. Le sue radici si insinuano nello strato più profondo della storia della Francia, si nutrono dei testi di Jean Bodin. La sua preoccupazione essenziale è quella dello Stato sovrano, come rappresentante del popolo (dal 1789). Questa corrente rifiuta la riduzione della democrazia alla semplice deliberazione. Comprende che la vocazione implica l’esistenza di un quadro spaziale nel quale si verifica la possibilità di decidere ma anche la responsabilità di queste stesse decisioni[3]. Questa corrente analizza il processo dell’Unione Europea non come un processo di delega della sovranità ma come un processo in cui in realtà si cede la sovranità. Ora questa cessione non può esistere. Ne deduce la natura profondamente antidemocratica del processo europeo. Nota che questa natura si è rivelata in modo esplicito nel trattamento riservato dalle istituzioni dell’Unione Europea e dell’Eurozona a paesi come Cipro e come la Grecia. Questo sovranismo politico che fu incarnato da Philippe Séguin o da Marie-France Garaud, si è espresso con forza in Gran Bretagna con il referendum sulla “Brexit”. Questo sovranismo politico è naturalmente e logicamente l’alleato del sovranismo sociale.
La terza corrente incarna quello che si può chiamare sovranismo identitario. Partendo da una reazione spontanea contro alla rimessa in discussione della cultura, tanto nella sua dimensione “culturale” in senso volgare che nelle sue dimensioni politiche e cultuali, essa è insieme molto vivace e molto forte (caratteristica di ogni movimento spontaneo), ma anche molto meno costruita delle due prime correnti. D’altronde il grande storico Fernand Braudel ha scritto su questo tema un libro bellissimo, L’identità della Francia[4]. Egli mostra come l’identità si sia costruita poco a poco. Non c’è dunque niente di scandaloso nel richiamarsi all’identità della Francia, e da questo punto di vista la sensibilità sovranista identitaria è perfettamente ammissibile.
Se si può comprendere la reazione che la fonda, conviene anche constatare che essa può degenerare verso tesi xenofobe o anche razziste, da ciò la possibile porosità con le tesi dei gruppi definiti come “identitari”. Ma essa si pone nondimeno questioni che sono in realtà le stesse di quelle del sovranismo politico, in particolare sulla questione delle frontiere necessarie. Essa impone inoltre all’insieme del movimento sovranista, in risposta alle sue potenziali derive, una riflessione specifica sulla natura del “popolo” e mostra l’impasse di una definizione etnocentrica o religiosa.
Pluralità delle incarnazioni del sovranismo
Ognuna di queste sensibilità, o di queste correnti, concorre a costituire l’unità del movimento sovranista. Spesso sono il punto di accesso al sovranismo, e si può prendere coscienza dell’importanza e della centralità della questione della sovranità a partire da queste differenti sensibilità. Se però si analizzano logicamente le ragioni di questa presa di coscienza, si è condotti a considerare la sovranità nel suo insieme, e il sovranismo come un movimento che unifica, ma anche supera queste tre correnti.
Queste diverse correnti, conviene sottolinearlo, non si incarnano nelle differenti forze politiche, che partecipino tutte, ma ciascuna in proporzioni diverse, a queste diverse sensibilità del sovranismo. Il problema non è dunque la compatibilità organizzativa di queste correnti, ma la loro compatibilità politica e filosofica.
Il movimento “Francia ribelle” di Jean-Luc Mélenchon incarna sicuramente il sovranismo sociale. Ma è molto sensibile – e l’evoluzione di Jean-Luc Mélenchon lo testimonia – al sovranismo politico, e questo a partire dagli avvenimenti della Grecia del luglio 2015 che hanno lasciato una traccia profonda. Non è neanche privo di una forma di sovranismo identitario, come si è potuto vedere nel meeting di Marsiglia, nella misura in cui esso segna la volontà di affermare la cultura politica francese, con le sue regole e la sua laicità contro le derive comunitariste. D’altra parte è questo il punto che gli rimprovera la “sinistra” tradizionale, che oggi va dal P”S” (quello che ne resta) al PCF.
Il partito di Nicola Dupont-Aignan all’inizio ha essenzialmente incarnato il sovranismo politico. Esso è erede della posizione di un Philippe Séguin. In seguito si è aperto al sovranismo sociale anche se, per scelta politica, è indietreggiato sulla questione dell’euro. Questo arretramento, che si poteva comprendere nel posizionamento tattico di una piccola formazione, ha avuto però conseguenze ben più gravi quanto alla coerenza del discorso tenuto da Marine Le Pen negli ultimi giorni della campagna. Esso è anche portatore di elementi del sovranismo identitario, anche se è sempre fermamente e ferocemente opposto a ogni deriva razzista, ciò che va a suo onore.
Quanto al Fronte Nazionale, il sovranismo identitario è stato costitutivo della nascita di questa formazione, e ciò nelle forme più estreme. Se questo partito non è mai stato un “partito fascista”, e invito qui quelli che utilizzano questa espressione a torto e per mezzo di una revisione storica, alla sua origine esso è stato incontestabilmente un partito razzista e xenofobo. Ma ormai da molti anni vi è stata una presa in considerazione del sovranismo sociale e del sovranismo politico. Questa presa in considerazione delle altre due correnti ha comportato una marginalizzazione progressiva dei temi iniziali. Le tesi puramente identitarie sono state peraltro parzialmente respinte fuori da questa formazione. Tuttavia la trasformazione non è stata compiuta totalmente.
Nessuna formazione politica incarna dunque totalmente e unicamente una delle correnti del sovranismo. Ma ciascuna delle formazioni politiche ha anche la sua storia, e l’articolazione particolare delle sensibilità sovraniste vi ha costruito una cultura politica di organizzazione che è specifica. L’importanza di questa cultura si esprime nel posizionamento politico particolare di ciascuna di queste formazioni, ma anche nei riflessi spesso epidermici che possono separare radicalmente gli aderenti. Ogni organizzazione intende sviluppare uno “spirito di partito”, che si traduce di fatto in una comune incapacità di ascolto del discorso tenuto dall’”altro”, e che può degenerare in un settarismo ottuso. Ma ci sono anche divergenze ben reali. E alcune tra esse possono giustificare un rifiuto che mette fine al dibattito e impedisce ogni contatto.
Le cause della divisione
Non è dunque stata trovata la traduzione in termini politici della vittoria culturale che il sovranismo ha riportato nel primo turno. E per questo il sovranismo è stato sconfitto politicamente. Questo i responsabili delle differenti organizzazioni e movimenti politici nei quali si incarna nel sovranismo lo sanno. Perché allora non cercano l’unione?
Una prima risposta risiede nel sogno di affermazione del movimento, sogno coltivato tanto dagli uni quanto dagli altri. Si considera il proprio movimento chiamato a riunire sotto lo stesso tetto tutti i sovranisti. Ma questo sogno è, nel caso migliore, un’illusione, nel caso peggiore, porta in lui l’incubo di un ripiegamento in una chiusura settaria, come in certe sette persuase di essere le sole a detenere la “verità”.
Una seconda risposta risiede nelle abitudini prese, nelle pratiche quotidiane, che fanno sì che sia più facile restare nel proprio angolo e proferire scomuniche, giocare la carta della demonizzazione, anziché affrontare realmente il dibattito. Ma il dibattito è possibile, è legittimo? Qui si deve comprendere l’interdetto assoluto che colpisce un partito che difenda tesi razziste. Tale era certo il caso del Fronte Nazionale al suo inizio. Ma il cambiamento è anche incontestabile. Allora si pone la domanda di dove posizionare il cursore. Ed è profondamente controproducente pretendere che un partito sia “antirepubblicano” quando dà garanzie molteplici della sua accettazione delle regole di funzionamento della Repubblica. Ma è importante sapere dove si trovi il limite, e soprattutto se una organizzazione resti fermamente al di sotto di questo limite o si evolva in riferimento ad esso. Infatti la questione del razzismo non è la sola a richiedere un interdetto assoluto; lo è anche la questione del comunitarismo. Molto chiaramente nessun dibattito organizzato è possibile né con un’organizzazione che difende un punto di vista razzista né con un’organizzazione che difende un punto di vista comunitarista. Se si vuole pensare uno spazio comune tra sovranisti occorrerà essere molto chiari su questi due punti.
Da questo punto di vista l’esistenza di uno spazio di dibattito è insieme un modo di verifica di questo limite, ma può anche trasformarsi in uno strumento che incita un partito a evolversi in rapporto a questo stesso limite. Per farlo, il dibattito non ha bisogno di esser esplicito e in un quadro comune; per un po’ di tempo può restare nel dominio dell’implicito. Di fatto se il Fronte Nazionale si è evoluto in rapporto alle sue tesi originarie, anche la “Francia ribelle” di Jean-Luc Mélenchon ha conosciuto una svolta sul problema dell’immigrazione (e sull’integrazione) e ha adottato un atteggiamento ben più realista. Questo è sintomo del fatto che un dibattito implicito si è attuato. Ma si può pensare che un dibattito esplicito avrebbe permesso una chiarificazione migliore delle posizioni degli uni degli altri.
Una terza risposta risiede allora nella volontà di portare l’altra formazione sulla totalità delle proprie posizioni. Anche qui si è di fronte a una “malattia infantile” delle organizzazioni: l’incapacità di riconoscere la legittimità delle divergenze. Non è necessario che le organizzazioni adottino lo stesso programma, tengano gli stessi discorsi, perché possano cooperare e procedere per esempio a delle desistenze durante le elezioni. Ma è necessario che si sappia ciò che provoca la divergenza legittima e ciò che provoca l’interdetto. La questione del razzismo, e inoltre la definizione di ciò che il “popolo” comprende, ossia la questione del comunitarismo, sono di quelle che provocano l’interdetto. Inoltre conviene dire che il sovranismo si oppone radicalmente a due ideologie, quella che cerca di fondare la comunità nazionale sulle razze e quella che cerca di dividerla in comunità separate e distinte. Il rifiuto assoluto del razzismo deve accompagnarsi a un rifiuto altrettanto assoluto del comunitarismo. È l’essenza stessa della coerenza sovranista.
Le condizioni dell’unità
Si conosce la formula, e tuttavia non è mai stata di tanta attualità: “La storia ci morde la nuca”. Questa citazione è estratta da un’opera scritta insieme da Daniel Bensaïd, militante filosofo trotzkista morto nel 2010, e da Henri Weber[5]. Essa non sfigura qui in un testo sul sovranismo. Pochi lo sanno, ma Bensaïd, che ho conosciuto e con cui in altri tempi ho polemizzato (sulla natura dell’Urss), era anche autore di un libro su Giovanna d’Arco[6]. In una conversazione, un po’ di tempo prima della sua morte, Bensaïd era tornato su Giovanna d’Arco precisando il suo interesse: “Giovanna d’Arco abbozza l’idea nazionale in un’epoca in cui la nazione non ha realtà nelle tradizioni dinastiche. Come germoglia nelle frange di un regno abbastanza a pezzi questo abbozzo popolare di un’idea nazionale?[7]” Ottima questione, in effetti. È quella del doppio movimento di costituzione e della nazione e del popolo che in realtà era posta. Questa questione è alla base della costituzione del movimento sovranista.
Se dunque vogliamo rifiutare il governo di una minoranza, e si deve ricordare che le tesi europeiste sono minoritarie in Francia, occorre trovare una soluzione che unisca insieme filosoficamente le tre correnti del sovranismo e che permetta politicamente alle formazioni politiche che incarnano questo sovranismo di cooperare nell’arena particolare della lotta politica. Altrimenti i sovranisti, benché maggioritari, saranno sempre vinti. Non abbiamo alcun dubbio sulla volontà dei nostri avversari, che dispongono di mezzi potenti, in particolare in tema di stampa e di media, e che cercheranno senza pausa di demonizzare gli uni o gli altri, per continuare a chiudere i francesi nel tranello che ha condotto all’elezione di Emmanuel Macron.
Questa soluzione passa per la costruzione di uno spazio di dibattito, uno spazio di controversia, che permetta di costruire i contatti necessari al disarmo progressivo dei riflessi settari. Questo spazio potrebbe anche includere accordi di desistenza, o almeno patti di non aggressione. Ma la costruzione di un tale spazio esige anche che si sia chiari sul rifiuto congiunto di ogni razzismo e di ogni comunitarismo. È una condizione assoluta per l’esistenza e per l’efficacia in tale spazio.
[1] Wieviorka M., «Deux populismes valent mieux qu’un!», nota pubblicata il 14 maggio 2017, https://theconversation.com/deux-populismes-valent-mieux-quun-77666
[2] Cfr. «Chroniques de Jacques Sapir» su Radio-Sputnik con Alexandre Devecchio et Jacques Nikonoff. Si può ascoltare qui il dibattito: https://fr.sputniknews.com/radio_sapir/201705111031344230-france-spectre-politique-recomposition/
[3] S. Benhabib, « Deliberative Rationality and Models of Democratic Legitimacy », in Constellations, vol. I, n°1/aprile 1994
[4] Braudel F., L’Identité de la France, 3 volumi, Flammarion, Paris, 2009
[5] Bensaïd D., Weber H., Mai 1968. Une répétition générale, Maspero, Paris, 1969
[6] Bensaïd D., Jeanne de guerre lasse, Paris, Gallimard, « Au vif du sujet », 1991
[6] http://www.danielbensaid.org/Il-y-a-un-mystere-Jeanne-d-Arc
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