Il fallimento dell’occidentalizzazione
di SERGE LATOUCHE
La dinamica delle società moderne poggia su un’incessante fuga in avanti che crea l’illusione dell’equilibrio; essa cementa un insieme in continua trasformazione. L’imperialismo è al centro del progetto occidentale. L’insuccesso dell’occidentalizzazione risiede anche nell’avere unicamente lo sviluppo materiale da proporre per nutrire l’immaginario.
L’Occidente incanta il mondo soltanto con la tecnica e il benessere. Non è poco, ma non è abbastanza per dare un senso alla vita e alla morte. Vivere per guadagnare di più e far denaro finisce per lasciare insoddisfatti, soprattutto se si fallisce… come avviene per un numero sempre maggiore di giovani.
Il bisogno d’identità non può basarsi soltanto su riferimenti quantitativi che prendono il posto dei sistemi di significazione. La crisi dell’Occidente non vuol dire né l’autodistruzione della macchina tecnologica, più solida che mai, né l’esaurimento dei suoi effetti, sempre così devastanti (per esempio sull’ambiente).
La crisi dell’Occidente concerne piuttosto e innanzi tutto la distruzione dei sistema sociale in grado di fornire le condizioni di un buon funzionamento della macchina. A partire da ciò, il fallimento dell’occidentalizzazione del Terzo mondo può essere letto come un ritorno al caos e alla barbarie, o come una resistenza all’Occidente e una volontà di ricomposizione delle socialità.
La prima lettura non esclude del resto necessariamente la seconda; in ogni caso, certi sintomi sono gli stessi in entrambe le ipotesi. In un racconto umoristico, Patricia Highsmith mette in scena con brio questa decomposizione dell’opera civilizzatrice nei giovani Stati indipendenti. In pochi anni, il Nabuti – un Paese immaginario dell’Africa nera, stranamente assomigliante all’ex Zaire – sprofonda in un indescrivibile degrado punteggiato da carcasse abbandonate; progressivamente, tutto cade in panne nell’indifferenza, nell’apatia, in una giocosità barbara e crudele.
Tutto ciò non è falso, e nessun occidentale che visiti vecchi Paesi colonizzati può sfuggire alla nostalgia per i successi dell’ordine coloniale. Le cose funzionavano bene, anche se poggiavano su uno sfruttamento e un’ingiustizia enormi. Lo sfruttamento e l’ingiustizia non sono scomparsi: anzi, talvolta si sono aggravati con la comparsa di dittature sanguinarie e grottesche, e niente funziona più veramente.
Analogamente, Marco Ferreri, nel suo film “Come sono buoni i bianchi!”, mette in scena la straordinaria “indifferenza” dell’Africa nei confronti della modernità occidentale. Risolvere i problemi che l’Europa ha portato in Africa, fra questi lo sviluppo economico, interessa soltanto ai bianchi in preda a cattiva coscienza, a volontà di potenza, o che, semplicemente, non stanno bene nella propria pelle. Gli africani, si tratti delle popolazioni dell’interno o delle élite occidentalizzate delle capitali, hanno altre preoccupazioni, la maggior parte delle quali ci è radicalmente estranea.
Molti dei nostalgici della colonizzazione si compiacciono di questi fallimenti: denunciano l’abbandono da parte dell’uomo bianco del suo fardello e vi vedono la giustificazione a “posteriori” dell’ordine coloniale, o addirittura la necessità, “nello stesso interesse dei poveri indigeni”, di un ritorno in forze. Quest’ultimo è del resto, in certo qual modo, d’attualità visti i piani di ristrutturazione e l’ingerenza umanitaria. Pur essendo più complessa, la situazione dell’America Latina non è poi fondamentalmente diversa.
Questo fallimento dell’occidentalizzazione non è il fallimento degli africani, dei latino-americani o degli asiatici: è piuttosto il fallimento dell’Occidente e della sua pretesa all’universalità. Il tragico e il grottesco delle situazioni postcoloniali sono spesso causati da un assurdo mimetismo e dalla distruzione delle identità culturali.
Se l’africano deculturato non è un occidentale, non per questo è meno deculturato; e la responsabilità ricade sull’Occidente. Privati della loro memoria collettiva, privati delle loro élite, distrutti o assimilati, i popoli del resto del mondo persistono a vivere secondo norme estranee alla modernità e a praticare riti di cui talvolta non conoscono più il senso e la ragione.
[da La fine del sogno occidentale, trad. it. Elèuthera, 2002]
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