Mi dichiaro studente lavoratore: la "cultura" della precarietà
di Stefano D’Andrea
Cresce il numero degli studenti lavoratori o meglio di coloro che, sedendosi dinanzi al docente per sostenere un esame universitario, si dichiarano tali. Questa, almeno, è la mia esperienza. Quasi mai gli “studenti lavoratori” dimostrano di essere bravi. Sia perché raramente hanno studiato. Sia perché rivelano scarse capacità linguistiche e quindi di elaborazione critica dei testi che sovente hanno appena sfogliato. Perciò cerco sempre di capire che lavoro svolga e quanto tempo dedichi al lavoro lo “studente lavoratore”. Dopo che lo studente lavoratore ha risposto alle mie domande sul suo “lavoro”, concludo quasi sempre che non si tratta di un vero studente lavoratore.
Non considero studente lavoratore il ragazzo che presta servizio come cameriere in nero la domenica o, eventualmente, il sabato e la domenica, restando libero di non lavorare, se vuole, per due o tre mesi o anche cinque o sei mesi l’anno. Intanto perché nei giorni lavorativi non lavora. E non mi sembra che colui che non lavora nei giorni lavorativi possa essere definito lavoratore. In secondo luogo, si tratta di persone non dipendenti da un “datore di lavoro” ma libere di lavorare quando vogliono. I camerieri del sabato e della domenica sono in realtà dei professionisti – hanno imparato una professione – che lavorano quel tanto che è necessario a pagare gli studi. Tra l’altro questi “studenti lavoratori” vanno in vacanza, quasi mai in campeggio e spesso all’estero, e si recano in Facoltà con l’automobile. Quindi si deve pure dubitare che essi lavorino per sostenere gli studi: quasi sempre lavorano per avere un livello di consumi accettabile da se stessi e dalla cerchia di consumatori (studenti o meno) che frequentano.
Dunque, coloro che si dichiarano studenti lavoratori sono quasi sempre “studenti liberi professionisti”, i quali iniziano precocemente a lavorare in forma autonoma (nei pub, tre o quattro sere durante la settimana; come curatori di pubbliche relazioni per gestori di discoteche; come camerieri del sabato e/o della domenica; come baby sitter per alcune ore della mattina, come distributori di volantini, ecc.), vendendo quelle poche competenze che hanno acquisito, al fine di garantire a se stessi un livello accettabile di futili consumi e talvolta effettivamente per pagarsi gli studi.
Diverso dallo “studente libero professionista” è il “lavoratore studente”, categoria che richiede una precisazione. Dalla riforma Berlinguer in poi, ministri di sinistra e di destra hanno emanato molti provvedimenti affinché i lavoratori, soprattutto pubblici, ma anche privati, si iscrivessero all’Università e si laureassero con pochissimo impegno – senza quasi studiare, ad essere sinceri. Poi, per fortuna, il processo si è arrestato e anzi è regredito. Questi non sono “lavoratori studenti”, bensì “lavoratori da laureare”.
Il “lavoratore studente” in senso proprio, se volete l’unico vero studente lavoratore, è la persona che lavora – trentasei, quaranta o cinquanta ore a settimana o comunque almeno venti ore (lavoratore part time) – e che s’impegna negli studi universitari, dedicando allo studio il sabato e la domenica. Più spesso per passione o ambizione, ossia per liberarsi dal lavoro attuale, che per obiettivi di carriera, ossia per proseguire il lavoro che svolge con più alti gradi. Se teniamo conto che queste persone lavorano davvero e consideriamo che spesso hanno famiglia, il tempo che esse dedicano allo studio è rilevante e per questa ragione meritano apprezzamento. Anche l’interesse per lo studio è mediamente superiore rispetto agli studenti liberi professionisti e ai lavoratori da laureare.
Se si escludono taluni casi estremi di persone che non capiscono assolutamente nulla, per il docente universitario è piacevole dialogare con questa categoria di studenti: i lavoratori studenti. Invece, provo dispiacere e pena e tristezza e rabbia quando incontro gli “studenti liberi professionisti” o i “lavoratori da laureare”. Perché tocco con mano fino a che punto la decadente democrazia capitalistico-mediatica sia divenuta il più potente strumento di istupidimento collettivo che si potesse immaginare. Forse, addirittura, venti anni fa, salvo per coloro che avessero conoscenza di processi già in corso presso altri popoli, ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio, non era nemmeno immaginabile.
Si badi, non condanno il lavoratore, dipendente pubblico o di un datore di lavoro privato, il quale approfittando di una legge assurda, ruba una laurea, svalorizzando il titolo di studio. Condanno il legislatore che emana leggi assurde. Allo stesso modo, non condanno il fatto che uno studente voglia dedicare il tempo libero dallo studio a svolgere lavoretti (questo è il termine esatto) per guadagnare denaro necessario a soddisfare un desiderio: acquistare uno strumento musicale, viaggiare in un paese straniero, andare in vacanza con amici che hanno più soldi, e così via. Accadeva anche al tempo in cui io ero studente universitario e molti degli studenti che effettuavano questa scelta erano bravi. Soltanto che quando quegli studenti si sedevano davanti al professore, per sostenere l’esame, non si dichiaravano studenti lavoratori, né credevano di esserlo. Gli studenti “liberi professionisti” di oggi, sperando in un trattamento di favore da parte del docente che li esamina, appena ne hanno la possibilità, si dichiarano “studenti lavoratori”. Così dimostrano di ignorare cos’è il lavoro, cos’è lo studio e cos’è la dignità.
Giovani state attenti! La precarietà è il frutto di scelte politico-legislative ma anche di un ambiente “culturale” e di un modo di pensare, nei quali vi trovate inseriti e dai quali avete l’onere di sottrarvi. La resistenza individuale è il primo dovere della persona libera, che intenda sfuggire all’omologazione schiavistica imperante. Se vi considerate studenti lavoratori quando non lo siete, vi state votando al precariato: la resistenza individuale è sempre necessaria, tanto più in tempi di regresso culturale, politico e sociale come quelli che viviamo.
Ci sono delle attività umane e lavorative in cui la precarietà non ha necessariamente connotati negativi, di sfruttamento del lavoro.
L'attore di teatro, che può stipulare contratti per periodi inferiori il mese o la settimana, una parte della docenza e dei ricercatori nel mondo accademico, che accettano contratti a termine con una nuova università per migliorare la loro formazione e per poter fare determinate ricerche, il consulente [in ambiente tipicamente capitalistico] che lavora per diverse entità aziendali, stipulando contratti prima con una e poi con un'altra, rientrano in questo ordine d'idee.
La condizione precaria è sempre esistita nella storia umana, ma, come la povertà [dipendere dalla benevolenza altrui per la stessa sopravvivenza], ha riguardato minoranze del dieci per cento, o di poco superiori.
E' con l'"evoluzione" del capitalismo, ed anzi, con la mutazione genetica dell'ultimo trentennio, che la precarietà nel lavoro che si diffonde e tende ad investire l'intera dimensione esistenziale del singolo, e la povertà che oggi, nel mondo, riguarda tre o [più probabilmente] quattro miliardi di individui [oltre la metà della popolazione mondiale], assumono una dimensione ed un'importanza come mai nel passato, dagli Elleni al Novecento.
Per quanto riguarda la precarietà lavorativa, l'essere studenti-lavoratori senza posto fisso, interinali, collaboratori coordinati e a progetto, eccetera, con poche prospettive future di stabilizzazione, è niente altro che il riflesso culturale e sociale di un elemento strutturale [da intendersi in senso marxiano] del nuovo modo di produzione sociale che si sta affermando.
Questo elemento strutturale, che porta le giovani generazioni a percepire come "naturale" la condizione precaria, comporta la manipolazione culturale ed antropologica dell'uomo, ed in particolare dei giovani, per adattarli alle dinamiche ed alle logiche del Nuovo Capitalismo, prevenendo il rischio della conflittualità.
Ciò che bisogna combattere, nel conflitto asimmetrico con il Nuovo Capitalismo e i suoi agenti storici globalisti, è proprio la manipolazione dell'uomo con tutte le sue pesanti e decisive ricadute sociali e culturali, destinate a forgiare un subalterno "pauper" che trova naturale arrabattarsi per sopravvivere, fra un lavoro di tre mesi ed un periodo di disoccupazione, fra un reddito di cento ed uno, successivo, di novanta, inferiore al primo, magari convinto, nella sua penosa condizione che non consente alcuna crescita [né umana né professionale], di essere effettivamente l'artefice del proprio destino, e cioè, con una brutta espressione propagandistica dei maledetti liberisti, "imprenditore di se stesso".
Ma facciamo bene attenzione, perché con il tempo che scorre e le generazioni che si alternano, senza alcun contrasto rivoluzionario questo processo di trasformazione e de-emancipazione [che io ho chiamato "processo di flessibilizzazione delle masse"] potrà giungere a compimento.
Del resto, gli antichi vernae, cioè gli schiavi nati da schiavi e allevati come tali, spesso non riuscivano neppure a concepire, per se stessi e per i propri discendenti, una condizione di vita diversa …
E ciò è atroce.
Eugenio Orso
Eugenio,
hai confermato, analiticamente, ciò che ho sintetizzato nell'ultima frase.
Io, poi, volevo dire qualche cosa di più. Che studenti di oggi, che si trovano nella medesima condizione di studenti di ieri, si considerano studenti lavoratori, mentre quelli di ieri non avevano questa opinione di se stessi. Che c'è anche una tendenza a "cantarsela", a "tirarsela" e a convincersi di essere precari prima di esserlo diventati. Che molti ritardano gli studi per finanziare consumi futili, accettando di lavorare per pochi euro all'ora quando non ne avrebbero alcun bisogno.
Chi, senza essere necessitato, ma soltanto per consumare come gli altri, studia part time e lavora part time per sette anni (allungando i tempi della laurea), in certo senso si candida ad essere part time tutta la vita. Gli studenti seri, non muniti di sufficiente ricchezza, vanno in campeggio, si laureano con celerità o comunque in tempi ragionevoli, vanno a correre anziché in palestra, utilizzano l'autovettura dei genitori e, se sono fuori sede, sono privi di autovettura nella città in cui svolgono gli studi. Questo è ciò che ho fatto io e decine di migliaia di studenti come me.
Un conto è accettare un lavoro precario per vivere; un conto è desiderare un lavoretto settimanale per consumare di più. Gravissimo è che chi compie la seconda scelta si consideri uno studente lavoratore.
Io sono un lavoratore studente. Ho iniziato da poco, 3 settimane, sto ancora cercando di organizzare bene sia il tempo che il metodo di studio.
Mi alzo alle 4 del mattino, studio fino alle 7, faccio qualche esercizio fisico e poi vado al lavoro fino a.. beh fino a quando non finisco. Torno a casa e al massimo entro le 22 sono a letto.
Non lo considero un sacrificio. Solo non riesco ancora ad ottenere i risultati che vorrei. Se avesse qualche consiglio per aumentare la produttività del tempo che ho a disposizione, lo apprezzerei davvero molto.
Grazie
Marco, direi che dovresti riuscire a imparare a studiare per tanto tempo al giorno. Diciamo dalle 7 alle venti, quando, per qualche ragione sei libero dal lavoro. Il sabato andrebbe benissimo, se non lavori. Oppure sei costretto ad esercitarti la domenica. A ridosso degli esami tra riposi,permessi per studio, ferie e giorni festivi è importante saper dedicare allo studio (almeno) 12 ore al giorno per più giorni possibile. Chi ha la capacità di "andare in missione" ed estraniarsi pressoché da tutto (amici, amore, telefonino, internet – soprattutto) per quanti più giorni è possibile, rende di più ed è generalmente più bravo.