di FRANCESCO MARANO (etnologo; Università del Salento)
Come è noto, il cinema neorealista ha segnato la cultura italiana del secondo dopoguerra, nei limiti temporali che lo storico del cinema Georges Sadoul ha indicato fra il 1943 e il 1960, cioè fra Ossessione e Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, spostando lo sguardo dagli interni piccolo borghesi dei film sui telefoni bianchi al plein air delle vicende contadine e sottoproletarie.
La società italiana, fino a quel momento ingessata negli studi di Cinecittà, nell’arredamento di piccoli appartamenti, perde questa dimensione asfissiante e teatralizzata per mostrare una realtà dinamica, che mette in discussione quella nozione di popolo su cui si era culturalmente retta l’Unificazione italiana costruita, per usare le parole di Alberto Cirese, su «una opposizione verticale nel senso che tutta intera la nazione, senza distinzione tra classi e categorie sociali, viene contrapposta a ciò che alla nazione è estraneo (gli ‘oppressori’ prima e i ‘nemici’ poi)».
Il neorealismo rivela una società stratificata non tanto in classi, quanto composta da contesti di subalternità che vanno dai disoccupati di Ladri di biciclette ai poveri di Miracolo a Milano, alle mondine, lavoratrici stagionali precarie, e ai delinquenti di Riso amaro, agli operai meridionali di Rocco e i suoi fratelli, figure sociali in cerca di fortuna e di una collocazione in un’Italia postfascista alla ricerca di una nuova identità. Una complessità che riesce ad esprimersi perché il neorealismo cinematografico è sfuggito alle maglie della politica culturale del Partito Comunista negli anni Cinquanta, molto più attivo a promuovere e difendere quel neorealismo pittorico che invece ha tanto contribuito alla diffusione di una immagine edulcorata della “civiltà” contadina padrona della natura, in continuità tanto con il realismo socialista che con la pittura italiana ottocentesca.
In ogni caso, tutti gli elementi che compongono il tessuto sociale nazionale sembrano finalmente venire alla luce. Ma sussiste un problema di unificazione culturale che deve passare dal riconoscimento del «mondo contadino meridionale [come] problema vivo e fermento di rinnovamento culturale». Parole di de Martino, che nel 1952, sulle pagine della rivista “Filmcritica” aggiunge: «Penso che anche i nostri migliori registi debbano con maggiore impegno partecipare alla unificazione culturale della nazione italiana, alla formazione del nostro umanesimo nazionale».
Ai registi cinematografici de Martino chiedeva di diffondere e creare una coscienza di classe – «l’umanesimo nazionale» – come tassello imprescindibile per la strategia gramsciana tesa a realizzare un internazionalismo proletario. La rappresentazione della complessità sociale, tuttavia, finisce col privilegiare il sottoproletariato e gli esclusi dallo sviluppo industriale. E i contadini, come lucidamente aveva individuato de Martino, sono descritti da una prospettiva urbanocentrica. Sono i segni di un mutamento e di una rottura che divide operai e contadini, con questi ultimi che, per la politica operaista del Partito Comunista, rivestiranno un ruolo anti-progressista a meno di non integrarli, trasformandoli in operai, in un progetto di industrializzazione, unica soluzione ai problemi del Sud.
A testimoniare e propagandare questa visione è il documentario del 1949 Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato di Carlo Lizzani, a quel tempo dirigente del Partito Comunista. In esso si descrive un Sud dinamico, attivo nell’occupazione delle terre e pronto ad accogliere l’industrializzazione per scardinare la miseria che da secoli attanaglia la vita dei contadini. La verve modernizzatrice del Partito Comunista dell’epoca permea anche il dibattito sul futuro dei Sassi di Matera dopo lo spopolamento. La proposta di Legge dell’On. Michele Bianco, precedente a quella, poi sostenuta dal Governo e approvata, di De Gasperi, prevedeva l’assegnazione di un’abitazione, la chiusura delle grotte e l’abbattimento dei locali dichiarati inabitabili. Se questa legge fosse stata approvata oggi i Sassi di Matera non esisterebbero.
La politica industrialista del PCI, ammantata di progressismo, ha contribuito a produrre un certo tipo di sguardo sui contadini del Sud: uno sguardo che Francesco Faeta ha descritto come orientalista interno, teso cioè a proiettare nel Meridione vizi e difetti ritenuti anti-progressisti, ma anche diretto a immaginare il Sud come un luogo di smisurate passioni e delizie erotiche, al fine di rafforzare una identità positiva, rappresentata da un Nord razionale e moderno. E anche se questo tipo di produzione documentaria non può essere sempre direttamente collegata a una intenzione politica riformatrice, quest’ultima se ne è avvalsa.
L’estetica neorealista si fondava su una richiesta di impegno che gli intellettuali e gli artisti traducevano in opere di denuncia nelle quali riducevano la complessa e articolata cultura contadina alle condizioni di miseria economica e sociale. Il neorealismo, come è stato osservato da Saveria Chemotti, è rimasto «impermeabile al gramscismo», ponendosi in continuità con il passato per il suo carattere di realismo mimetico che persegue liberandosi del montaggio per attuare un cinema del piano sequenza e della profondità di campo, conquistando in tal modo un posto anche nella storia dell’antropologia visuale come «il padrino del cinéma verité»
Il cinema etnografico “demartiniano”, quello scevro da qualsiasi velleità mimetica della realtà (penso in particolare a quello di Luigi Di Gianni), è invece più vicino al realismo gramsciano che, come scrive Saveria Chemotti, «almeno in termini positivi si configura come una metodologia della conoscenza, rifugge dalla mimesi e dalla statica corrispondenza tra arte e società: affronta semmai i problemi sociali culturali di una realtà in termini sempre fortemente dialettici e interlocutori» .
L’impegno sociale finalizzato alla denuncia di condizioni di vita ai confini dell’umano si tradusse in etnografia, anche perché in quegli anni l’antropologia si fondava essenzialmente su un approccio documentario (rilevare, descrivere, catalogare) attraverso il quale si dava voce alle classi subalterne, al folklore, se ne riconosceva gramscianamente l’autonomia culturale.
La lezione gramsciana viene assorbita dal cinema “demartiniano” per essere convertita in una estetica precisa e allo stesso tempo contraddittoria che mette insieme la denuncia delle condizioni di vita dei contadini meridionali, espressione di quell’impegno civile richiesto all’intellettuale organico, e una buona dose di paternalismo (forma distorta dell’impegno) che non lascia ai contadini nessuna possibilità di autorappresentarsi. Nel cinema “demartiniano” è l’autore che parla per i soggetti filmati e (eventualmente) spiega le logiche egemoniche sottostanti alla realtà sociale. Laddove nel cinema neorealista la realtà parla da sola, non ha bisogno di qualcuno che la spieghi, deve essere soltanto mostrata.
Il potere delle comunicazioni di massa di agire sulla vita sociale e culturale dei contadini stava portando alla «dissoluzione» i costumi tradizionali e aprendo la strada a «vaghe forme di cosmopolitismo culturale, all’americanismo nei gusti e nelle tendenze, al divismo, alla passione sportiva come evasione morbosa, alla frenesia per le lotterie associate a varie forme di sport, o per i romanzi a fumetti, ecc., tutti elementi che alimentano una vita culturale di qualità assai scadente, senza radici, senza nazione, senza regione, e quindi anche senza solidità etica e vigore di lotta e di emancipazione» (E. de Martino).
A partire da quei primi anni Cinquanta de Martino organizza le sue spedizioni etnologiche nel Meridione, dirette allo «studio della vita dei contadini lucani e del loro mondo culturale», forse proprio per fissare lo stato delle cose prima di quella che Pasolini avrebbe chiamato omologazione culturale.
fonte: Atti del convegno “Sud e nazione”, 14-15 otobre 2011, Università del Salento
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