Concorrenza e libera professione: l’avvocatura (documento approvato dall’Assemblea nazionale del FSI – 24 settembre 2017)
CONCORRENZA E LIBERA PROFESSIONE: L’AVVOCATURA
INDICE
PARTE PRIMA
- Premessa
- Dall’apostolato di Calamandrei al mercato
- La funzione costituzionale dell’avvocatura
- L’avvocato nell’Italia liberale e nel ventennio fascista
- Il processo di liberalizzazione della professione forense
5.a. Le principali restrizioni all’esercizio della professione: tariffe e pubblicità - Le riforme in Italia
6.a. Tariffe
6.b. Pubblicità
6.c. Società fra professionisti
PARTE SECONDA
- Considerazioni
- PROPOSTE
PARTE PRIMA
1. Premessa
L’idea che ha dominato e condotto la legislazione, (almeno) negli ultimi venti anni, è stata quella di valorizzare il capitale a danno del lavoro.
Nessun attore politico, ovviamente (se si eccettuano sporadiche e poco rilevanti eccezioni), ha mai asserito espressamente e pubblicamente che si dovesse valorizzare il capitale a scapito del lavoro. L’idea, con particolare riguardo al lavoro subordinato, è stata nascosta dalla invocazione della necessità: il “mercato” del lavoro in Italia sarebbe stato ingessato; senza le necessarie riforme avremmo perso “competitività”; la globalizzazione (il mercato mondiale dei beni e dei servizi) era una necessità o addirittura un dato di fatto (e non un fine perseguito mediante l’emanazione di leggi e la stipulazione di trattati internazionali), che “imponeva” di tener conto della concorrenza internazionale; urgeva dunque ed era anzi necessario rendere “flessibile” (ossia precario) il lavoro subordinato; così come era necessario introdurre una crescente moderazione salariale; la “gobba” della curva delle prevedibili entrate e uscite dell’INPS, infine, avrebbe reso necessarie le riforme delle pensioni.
Il concetto ideologico che ha colpito il lavoro, subordinato o autonomo, è stato il concetto di concorrenza.
Concorrenza tra operai appartenenti ai diversi paesi europei e concorrenza dei nostri operai con gli operai dei paesi “in via di sviluppo”. Concorrenza tra professionisti, concorrenza del capitale (grandi studi professionali) con il lavoro autonomo; concorrenza tra commercianti. Lottare contro questo concetto non significa desiderare i monopoli e gli oligopoli. Significa non essere fanatici della continua trasformazione; del continuo reinvestimento; del generale indebitamento dei piccoli imprenditori; della lotta abominevole dei professionisti per la conquista del cliente. Significa proteggere il lavoro subordinato italiano mettendo in discussione la libera circolazione delle merci e dei capitali (quindi le delocalizzazioni) e cioè, da un lato, la cosiddetta globalizzazione (un obiettivo che è stato perseguito, non una situazione di fatto o una necessità, come è stato sostenuto), dall’altro, il mercato unico europeo.
L’idea opposta, che è quella fondante il nostro sistema costituzionale, fatta propria dal FSI, è che occorra invece valorizzare il lavoro.
È pacifico che il lavoro subordinato sia stato colpito con riforme che hanno inciso ora sulla stabilità del rapporto, ora sull’ammontare delle future pensioni, ora sul salario (mediante una prolungata politica di moderazione salariale). Di questo il Fronte Sovranista Italiano si è già occupato con un documento specifico.
Ma il lavoro che è stato colpito non è soltanto quello dei lavoratori subordinati, bensì anche quello dei lavoratori autonomi: quello veramente autonomo, non quello formalmente autonomo ma in realtà subordinato e anzi ultrasubordinato. Infatti, se è vero che il lavoro dipendente è subordinato al capitale, è anche vero che il lavoro autonomo è (precisamente può essere) in concorrenza con il capitale o ha per controparte il capitale (è prestato a favore di quest’ultimo). Le forme dello scontro tra capitale e lavoro, insomma, sono numerose e non riducibili al conflitto tra lavoro subordinato e capitale del datore di lavoro.
Il FSI, pertanto, ritiene prioritario soffermarsi anche sulle riforme (o sulle interpretazioni di norme giuridiche) che hanno colpito il lavoro autonomo, in quanto è fondamentale da un lato unire i lavoratori, sia autonomi che subordinati, dall’altro e previamente individuare tutti i meccanismi giuridici con i quali il lavoro è stato colpito in modo da poter proporre controriforme.
Meccanismi che vanno analizzati ed adeguatamente evidenziati anche perché il “mondo del lavoro” (inteso purtroppo e maledettamente troppo spesso come il mondo del lavoro subordinato) si è sempre disinteressato ai problemi del lavoro autonomo (ovviamente è vero anche il contrario) ed anzi, sovente, ha aderito alle sirene liberiste ed è quindi caduto nella trappola del capitale costruita, come al solito, attraverso la formula del divide et impera.
Il presente documento, pertanto, seppur riferito specificamente all’avvocatura, professione che più di ogni altra coinvolge una serie di interessi e diritti costituzionalmente garantiti, la tutela dei quali richiede la predisposizione di regole specifiche, contiene considerazioni estensibili anche alle altre professioni, alle quali saranno comunque dedicati ulteriori documenti programmatici.
2. Dall’apostolato di Calamandrei al mercato
Il 21 gennaio 1940 Piero Calamandrei, impegnato nella stesura del nuovo Codice di procedura civile, in un momento estremamente delicato per il Paese, in una conferenza a Firenze intitolata “Fede nel diritto”, descriveva il ruolo del giurista e dell’avvocato nella società civile e politica con queste parole: “la professione dei giuristi […] non è una professione comoda; non è un rifugio per i pigri e per i vili. Anche il difendere le leggi comporta dei rischi; anche per servir la giustizia giuridica ci vuol del coraggio. Per difendere i deboli contro i forti, per sostenere le ragioni dell’innocenza, per sventare le inframmettenze, per dir la verità anche se cruda, per chiuder la porta in faccia alle seduzioni della ricchezza, alle promesse di onori, alle intimidazioni e alle lusinghe al solo scopo di far rispettare la legge anche se questo può dispiacere a qualcuno – per far tutto questo occorre una tale solidità morale, che può dare all’esercizio delle professioni legali la nobiltà di un apostolato.”
Non v’è chi non percepisca quanto si sia allontanata da tale visione l’attuale concezione della professione forense, ormai assorbita dalle logiche del mercato per effetto della pressione esercitata dal diritto europeo, che ha istigato e sospinto una frenesia riformatrice dell’ordinamento forense italiano in senso pro-concorrenziale, così proiettandolo distante anni luce dalla tradizione giuridica nazionale, equiparando l’attività professionale in generale, e degli avvocati in particolare, a quella dell’impresa.
Il fallace presupposto logico di fondo, purtroppo accettato anche da buona parte dei professionisti, è che la società attuale è mutata, evoluta, globalizzata, per cui le tutele delle professioni, considerate come antichi privilegi, sono indifendibili e anche l’avvocato deve essere chiamato a fare i conti con un contesto di economia globale e fortemente concorrenziale, assecondando un fenomeno di “modernizzazione” della professione e accettando di calarsi nelle logiche dell’imprenditore, così ingegnandosi costantemente a sviluppare il proprio servizio per renderlo più competitivo.
La promessa implicita con cui è stata assorbita questa “nuova” visione era che la concorrenza avrebbe aumentato le opportunità, elevato la qualità delle prestazioni stimolando l’evoluzione della classe forense.
Si è sostenuto, inoltre, che l’imposizione di tariffe professionali minime inderogabili non era più tollerabile, poiché limitava la concorrenza soprattutto da parte dei professionisti più giovani, che avrebbero potuto spostare la domanda abbassando i prezzi delle prestazioni e garantendo vantaggi ai destinatari dei servizi legali, ormai assimilati a consumatori.
In realtà, andando oltre le mere dichiarazioni di principio, la pratica dimostra che il fenomeno concorrenziale, in ogni settore, finisce per frammentare l’offerta e comportare solo una spinta al ribasso sui prezzi, alla quale non corrisponde un aumento della qualità del servizio, ma semmai il contrario.
Nell’impresa il costo viene scaricato sui lavoratori subordinati e determina la sopravvivenza delle sole strutture più grandi che, sfruttando la possibilità di spostare agevolmente i capitali, riescono a delocalizzare la produzione lì dove il costo del lavoro, ovvero il salario, è più basso.
Si passa così da un’iniziale moltiplicazione dei concorrenti a una loro progressiva riduzione, per eliminazione, ed al fenomeno delle concentrazioni in oligopoli di grandi dimensioni.
Nel lavoro autonomo, invece, il costo della concorrenza si scarica direttamente sui prestatori dell’opera, erodendone i fatturati in un percorso destinato a risalire, nel caso degli avvocati, dai piccoli studi sino a quelli di dimensioni più grandi, fino a lasciar sopravvivere esclusivamente i grandissimi studi dislocati nei grandi centri, già organizzati in forma di impresa.
Ciò è quanto sta accadendo alla professione forense per effetto del processo riformatore in senso concorrenziale nel cui ambito, non a caso, snodo fondamentale è stato l’abolizione dei minimi tariffari e la cui prospettiva futura è quella dell’esercizio in forma societaria, con l’ingresso dei soci di capitale: non è azzardato parlare di rischio di scomparsa della libera professione intellettuale, autonoma e indipendente, a tutto vantaggio del grande capitale internazionale che ha da tempo messo gli occhi su un settore che, nonostante le difficoltà, continua a produrre un giro di affari considerevole e corrispondente a una fetta rilevante di PIL.
È indubitabile che la liberalizzazione abbia avuto effetti dirompenti per le professioni e per l’avvocatura in particolare, inseritisi in un contesto di crisi generale, anch’essa figlia di quella stessa idoleogia mercatista che ha animato la riforma delle professioni e che è incarnata dall’Unione europea, in quanto rispondente ai principi fondanti i Trattati UE.
I dati forniti dalla Cassa Forense nel 2016, con riferimento alle dichiarazioni del 2015, certificano la consistente contrazione del reddito medio IRPEF della categoria: il reddito medio IRPEF rivalutato degli iscritti Cassa nel 1996 era pari ad € 54.298,00, regredito nel 2015 ad € 38.385,00. La distribuzione di tale reddito è oltremodo indicativa:
Nel 2015 un quarto degli avvocati italiani ha dichiarato meno di € 1.000,00 al mese, attestandosi su soglie di povertà mai raggiunte prima.
Su un totale di circa 240mila avvocati iscritti:
– 60mila non superano € 10.300,00 l’anno;
– 40mila arrivano a € 20.000,00 l’anno;
– 20mila hanno un reddito pari a zero;
– 20mila non hanno neanche inviato alla Cassa il modello dichiarativo per il pagamento dei contributi previdenziali.
La distribuzione del reddito penalizza gli avvocati più giovani: i redditi professionali degli avvocati fino ai 45 anni di età sono al di sotto di € 30.000,00 (€ 14.000,00 in meno rispetto al 2007), ma i più poveri sono gli under 30, che guadagnano meno di € 10.000,00 e per i quali il rischio di indigenza è al momento scongiurato solo dal sostegno delle famiglie (unico Stato sociale rimasto), laddove possono contare su entrate “sicure” spesso di natura pensionistica.
Sono inoltre almeno 8.000 gli avvocati che nel 2015 hanno dismesso la toga, non rinnovando l’iscrizione alla Cassa Forense che, dal 2012, è divenuta automatica con l’iscrizione all’Albo: numero che può sembrare esiguo in relazione ai professionisti totali, ma che è indicativo di una tendenza per nulla rassicurante, soprattutto alla luce della mole, ben più elevata, dei professionisti non in regola con gli oneri previdenziali e fiscali.
Crescono anche i professionisti indebitati con banche, istituzioni finanziarie o fornitori, o che danno fondo ai risparmi accumulati in anni di attività.
Analizzare le cause di questo stato di cose, certamente determinato da una pluralità di fattori, sia pur ricollegabili, richiede la rinuncia ad alcuni pregiudizi e a convinzioni stratificate, spesso derivanti dall’adesione a quel generalizzato atteggiamento di favore che ha accompagnato, nell’opinione pubblica, il processo di unificazione europea e, conseguentemente, da una acritica accettazione della asserita positività del fenomeno concorrenziale, che dell’Unione è caposaldo imprescindibile: un professionista del diritto, in grado di conoscere e leggere le norme, non può permettersi di ignorare la assoluta incompatibilità fra il nostro sistema costituzionale e l’impianto dell’Unione europea.
Il numero degli avvocati, passati dallo 0,9 per ogni mille abitanti dell’anno 1985 al 3,9 del 2015, è certamente una componente importante nella genesi delle difficoltà della categoria, ma non spiega tutto e, per la verità, sta a dimostrare la assoluta fallacia del presupposto che ha animato il processo riformatore, ovvero l’assenza di concorrenza:
L’enorme aumento dei professionisti, peraltro, non è indipendente dal generale percorso riformatore che negli ultimi decenni ha interessato ogni settore del nostro ordinamento e che non ha lasciato indenni le università, anche’esse moltiplicate e aziendalizzate, proiettate nelle logiche di mercato, in ragione delle quali lo scopo formativo è passato in secondo piano rispetto alla necessità di accaparramento di un numero di iscritti in grado di garantire la sopravvivenza degli atenei.
La prassi dimostra che le iscrizioni alle facoltà di Giurisprudenza sono avvenute sempre più spesso senza una reale consapevolezza, da parte degli studenti, delle prospettive professionali riconnesse al titolo da conseguire. L’accesso al praticantato forense ha finito così per costituire, per molti laureati, una soluzione di “parcheggio”, che si è accompagnata alla valutazione di soluzioni più confacenti alle aspettative individuali e al tentativo di ottenere un’occupazione più stabile mediante la partecipazione a pubblici concorsi, con gravi ripercussioni sulla effettività ed efficacia del tirocinio medesimo.
V’è da dire, in proposito, che agli inizi degli anni ’90 i laureati in Giurisprudenza trovavano agevolmente un’occupazione: solo una parte puntava al mondo forense (avvocatura o magistratura), mentre maggioritari erano gli sbocchi verso la Pubblica Amministrazione, istituti bancari, compagnie assicurative o altre imprese. Il blocco delle assunzioni nella P.A. e la crisi del settore privato hanno quindi influito enormemente sulle opportunità di impiego post laurea.
Progressivamente, quindi, l’esercizio dell’attività professionale è stato vissuto sempre più spesso come una soluzione di ripiego necessitata dal fallimento nella ricerca di altri sbocchi, con estremo nocumento per la effettiva assimilazione della funzioni e responsabilità sociali delle quali l’avvocatura è depositaria, destinati a soccombere di fronte alla necessità di garantirsi un reddito ed alle “opportunità” e “nuovi” valori indotti dal mercato.
Tutto ciò in un contesto in cui, con buona pace dell’assunto per cui l’accesso alla professione sarebbe eccessivamente regolamentato, si è registrato l’abbassamento dei criteri di valutazione degli aspiranti professionisti, arrivando a mettere in discussione anche il valore legale della laurea e la sopravvivenza medesima dell’esame di abilitazione.
Del resto l’evoluzione del reddito professionale medio dell’avvocatura segnala un crollo successivo all’avvio delle liberalizzazioni (Decreto Bersani del 2006) e in concomitanza con l’esplosione della crisi, mentre certifica negli ultimi 2 decenni un aumento progressivo del reddito complessivo di categoria che, se parametrato alla percentuale di aumento degli iscritti e all’andamento del reddito medio, depone per una tendenza alla redistribuzione della ricchezza verso l’alto, a vantaggio di un numero esiguo di professionisti.
Tali considerazioni devono far abbandonare definitivamente il luogo comune, ancora radicato e probabilmente alimentato dalla presenza sempre più nutrita sui media di pochi avvocati ricchi e famosi, di un mondo forense popolato da privilegiati, benestanti ed esosi professionisti che riescono a garantirsi un tenore di vita notevolmente sopra la media, grazie a privilegi e restrizioni assicurati dalla normativa professionale.
La crisi economica, ormai decennale, ha quindi influito decisamente sul declino delle professioni, ma trattasi di fenomeno dipendente dalla medesima frenesia riformatrice, necessitata dall’adesione all’Unione europea, che ha costretto lo Stato italiano ad abdicare alle sue funzioni fondamentali, nonché ad assoggettarsi a rigidissimi vincoli di bilancio e al costante “giudizio dei Mercati”, formula con la quale non si indica altro che i desiderata dei grandi investitori internazionali.
La narrazione di una crisi determinata da un eccesso di spesa pubblica, infatti, non solo è smentita dai dati ufficiali, che certificano la stabilizzazione della spesa primaria dello Stato italiano (ovvero della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito) sin dai primi anni ’90, ma anche dal riscontro degli effetti nefasti dei tagli e delle riforme che avrebbero dovuto risollevare il Paese. Vero è, al contrario, che il sistema derivante dai Trattati europei e dalle misure imposte dall’Unione risulta in sé disfunzionale, poiché priva lo Stato italiano della possibilità di programmare una propria ed autonoma politica economica ed industriale, costringendolo a perseguire continue dismissioni di patrimonio e servizi pubblici e a un progressivo aumento della pressione fiscale, scaricata sui ceti medio bassi.
Perdipiù l’adozione di una moneta unica per Paesi con strutture produttive, tassi di inflazione e di interesse disomogenei e la totale liberalizzazione della circolazione dei capitali sia all’interno dell’Unione che verso l’esterno, hanno favorito il formarsi di squilibri commerciali che, allo scatenarsi della crisi, prima finanziaria e poi economica, sono stati fronteggiati con ulteriori tagli alla spesa pubblica, incremento della pressione fiscale e riforme compressive dei diritti dei lavoratori, con il fine di ridurne loro salario reale e lasciare che i Paesi dell’area euro competessero tra loro riducendo la domanda interna.
Si è così innescata una crisi ancora più profonda e durevole, data l’impossibilità per gli Stati, stanti i vincoli europei, di adottare efficaci misure di politica economica.
La spinta deflazionistica perseguita ha conseguentemente colpito non solo i lavoratori subordinati, ma ampi settori e categorie di piccoli professionisti, imprenditori e artigiani, che vivono di domanda interna.
Il generale impoverimento della popolazione, la crescita della disoccupazione, i fallimenti delle imprese, hanno infatti generato una forte riduzione della richiesta di servizi professionali.
Evidentemente anche la crisi della giustizia, ennesima vittima di un processo riformatore schizofrenico, di continui tagli, di aumento dei costi e di lentezze che, dissuadendo il cittadino dal far valere i propri diritti, definiscono un quadro sempre più frequente di giustizia negata, incide drammaticamente sia sui cittadini che sui professionisti.
Il processo di liberalizzazione delle professioni non è pertanto avulso dal contesto generale, nel quale all’avvocato è stato richiesto di snaturare i propri tratti distintivi divenendo imprenditore, in un mercato, volutamente, sempre più concorrenziale.
Sotto questo profilo, ancor più dei numeri, è l’esperienza quotidiana a palesare come i professionisti abbiano visto mutare, non sempre e non necessariamente per effetto dell’evoluzione tecnologica, la professione e l’organizzazione del proprio lavoro, a cominciare dal rapporto con il cliente.
Ancora negli ’90, nonostante il numero già considerevole di avvocati, il professionista forense, svolto il tirocinio e la c.d. “gavetta”, aveva la possibilità di avviare il proprio studio e stabilizzare la propria posizione, acquisendo la clientela perlopiù attraverso la propria rete di relazioni interpersonali, grazie alle quali riusciva a far apprezzare le proprie qualità, sia professionali che umane, che gli garantivano un rapporto fiduciario con il cliente, talvolta mediato (il c.d consiglio dell’amico al quale si chiedeva un “bravo avvocato”).
Tale rapporto spesso si consolidava nel tempo fidelizzando la clientela, mentre il prestigio acquisito per effetto dei successi professionali consentiva di incrementarla.
Il percorso di consolidamento professionale è divenuto oggi sempre più arduo, mentre per molti sta avvenendo un processo inverso per effetto egli oneri crescenti e della riduzione dei fatturati, cui si cerca di sopperire attraverso la condivisione delle spese di studio con i colleghi e tagliando quelle non indispensabili.
La perdita di clientela è spesso riconducibile non ad insoddisfazione o alla preferenza per le doti professionali dei concorrenti, bensì alla mera esigenza di risparmio, quando non addirittura alla cessazione delle attività dei clienti (non di rado per fallimento), o alla rinuncia alla tutela legale per impossibilità di sostenerne i costi o per sfiducia in un effettivo risultato soddisfacente.
Per altro verso le attività richieste dalla clientela sono mutate parallelamente alle crescenti difficoltà economiche e alle necessità, indotte dalla crisi, non più di sviluppo e crescita, ma di sopravvivenza.
Sopravvivenza con la quale, conseguentemente, deve fare quotidianamente i conti buona parte della classe forense, ingabbiata fra i crescenti costi dell’attività, più oneri fiscali e previdenziali, che inducono a un ridimensionamento dello studio derivante non solo e non sempre dalla riduzione della clientela o degli incarichi, ma anche dalla frequente impossibilità di riuscire ad ottenere il pagamento delle prestazioni effettuate.
Le vicende che hanno interessato le tariffe professionali hanno certamente avuto un peso determinante.
Di fatto l’abolizione dei minimi tariffari non ha prodotto gli effetti annunciati dai fautori, bensì è servita a quelle grosse imprese ed agli enti pubblici che hanno il potere di imporre la misura del compenso al professionista.
Non sono pochi gli avvocati fiduciari di banche, assicurazioni e imprese medio-grandi, che si sono visti proporre (imporre) convenzioni tariffarie “oscene” e offensive del decoro professionale, spesso incompatibili con il grado di responsabilità richiesto dall’incarico: ciò è accaduto anche per collaborazioni professionali pluridecennali, il che rende palese come la qualità delle prestazioni fornite sia stata ritenuta, dal grande cliente, spesso ininfluente nella scelta del professionista, a clamorosa smentita di tutta la retorica celebrativa delle virtù della concorrenza.
Il dato è stato recentemente confermato dal presidente di Cassa Forense, Avv. Nunzio Luciano, che fra i fattori impeditivi del regolare versamento dei contributi previdenziali ha individuato anche le “grandi assicurazioni che non retribuiscono il legale in base a parametri di minimo perché non esistono più. La retribuzione è ridotta all’osso a scapito della qualità”.
Purtroppo l’avvocatura non è riuscita a comprendere (o l’ha fatto tardi) cosa le stesse accadendo, finendo per rimanere vittima dei cortocircuiti di una categoria ammaliata dalle opportunità della globalizzazione e dell’integrazione europea, che si interroga oggi sulle possibilità di una “Giustizia senza processo” (titolo dell’ultimo Congresso Nazionale Forense tenutosi a Rimini nell’ottobre 2016), invitando i professionisti ad approfittare delle nuove frontiere del mercato internazionale o a snaturare il proprio ruolo diventando amministratori di procedure di crisi (come quella da “sovraindebitamento” introdotta dalla Legge 27 gennaio 2012, n.3).
Lo schizofrenico percorso di riforma è stato sostanzialmente avallato dalle sue istituzioni rappresentative, la cui opposizione all’abbattimento della funzione sociale dell’avvocatura ha pagato la sostanziale incomprensione delle dinamiche in atto e la fiducia incondizionata ad un modello concorrenziale che, anziché essere rifiutato, è stato posto alla base delle rivendicazioni di categoria (assimilabili a quello stesso masochistico atteggiamento che parallelamente è stato caratteristico della contrattazione sindacale nel lavoro subordinato), che hanno finito per tradursi nella richiesta di essere parte attiva del processo riformatore e tempistiche più lunghe per l’assorbimento delle innovazioni.
Le “vittorie” così ottenute, in parte già vanificate da successive novelle, saranno destinate a schiantarsi contro la dura realtà dei principi dell’ordinamento sovranazionale e contro il muro dell’inconciliabilità fra la “Europa dei diritti” e il dogma della “concorrenza senza distorsioni”, informatore del mercato unico.
Rispondere alla globalizzazione pensando di poter sopravvivere adattandosi alle richieste del concorrente più pericoloso, ovvero il grande capitale, cercando nuovi mercati ed evolvendo l’offerta, significa rinunciare a comprendere la gravità di un fenomeno epocale che sta riguardando tutte le fasce della popolazione, destinate a scomparire dall’orbita della giustizia.
Significa accettare il darwinismo sociale e adottare un atteggiamento masochistico, tipico della mentalità liberale, di chi si ostina ad avere una visione parziale e limitata del contesto in cui opera, nel quale ritiene di poter continuare a restare a galla con le sole proprie capacità, omettendo di utilizzarle per contribuire a realizzare quella inversione di tendenza che può essere generata solo dalla riscoperta massiccia del ruolo dello Stato.
Significa rinunciare alla funzione sociale che l’avvocatura ha sempre svolto nella storia del Paese, che è quella di farsi carico non solo dei problemi dei clienti, ma della collettività in generale per tornare ad essere motore di progresso sociale.
3. La funzione costituzionale dell’avvocatura
La difesa è un diritto fondamentale in quanto strumento attraverso il quale il cittadino può ottenere l’affermazione dei propri diritti e interessi legittimi e, nel contempo, costituisce imprescindibile garanzia contro le limitazioni alla libertà personale e contro possibili soprusi anche da parte della pubblica autorità.
Per esercitare tale diritto e renderne effettiva la tutela i cittadini hanno necessità di rivolgersi, nella maggior parte dei casi, agli avvocati, in virtù del bagaglio di conoscenze e di esperienza di cui sono in possesso, in ragione delle quali la difesa tecnica è a loro riservata.
La funzione dell’avvocato è quindi una funzione sociale il cui alto valore costituzionale ottiene consacrazione nell’art. 24 della Costituzione:
“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.”
Applicazione di tale principio sono il gratuito patrocinio per i non abbienti e la garanzia di una difesa d’ufficio nei procedimenti penali.
Il Codice Penale (art. 359) ricomprende l’attività forense fra quelle definite come “servizio di pubblica necessità”, mentre la Legge 146/90 qualifica l’avvocato come esercente un “servizio pubblico essenziale”, ossia talmente indispensabile da risultare incompatibile con l’esercizio del diritto di sciopero (l’avvocato può solo “astenersi” dallo svolgimento di attività di udienza, qualora sia stata proclamata l’astensione dagli organi forensi).
Corollari della essenziale funzione sociale dell’avvocatura sono:
– la necessità di garantirne l’indipendenza;
– il rispetto del dovere di doppia fedeltà, al cliente e all’ordinamento costituzionale, attualmente sancito dall’art. 10 del Codice Deontologico Forense (“L’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa”).
L’avvocato deve evitare quindi di essere sensibile solo alle ragioni dei clienti che gli hanno conferito il mandato, con particolare riferimento a quelli più solvibili e facoltosi, per rendersi potenzialmente disponibile alla difesa di chiunque si trovi nelle condizioni di dovere resistere ad un’offesa, anche qualora provenisse dalle stesse istituzioni.
Per tali ragioni l’avvocato sino al 2012 prestava giuramento di svolgere i suoi doveri professionali per i fini della giustizia e gli interessi superiori della nazione, e attualmente, dopo la riforma forense del 2012, pronuncia il seguente “impegno solenne”: “Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento”.
Il quadro dei valori costituzionali manifesta quindi la specialità della professione forense sotto una duplice valenza:
– in relazione alla tutela dei diritti dei cittadini;
– in funzione dell’amministrazione della giustizia e dell’attuazione dell’ordinamento, risultando essenziale anche per la magistratura, con la quale collabora nella realizzazione dell’attività giurisprudenziale stimolandone un’incessante opera interpretativa, in un contesto di certezza del diritto che deve contribuire a promuovere e difendere.
Quanto alla prima ovviamente il riferimento è al già citato articolo 24 della Costituzione, da leggere in stretta connessione con:
– l’articolo 2, attesa la evidente strumentalità della difesa legale al fine di assicurare una garanzia effettiva dei diritti inviolabili dell’uomo;
– l’articolo 3, poiché la concreta affermazione dei principi di libertà e uguaglianza sostanziale passano necessariamente dall’attività svolta dall’avvocatura a difesa dei diritti e nell’ottica dell’attuazione dell’ordinamento costituzionale;
– l’articolo 28, in funzione della difesa dei diritti dalle offese provenienti dalla pubblica autorità.
Sotto il secondo profilo, il rilievo costituzionale della professione forense emerge dallo stretto collegamento con la funzione giurisdizionale, discendente dagli artt. 101 (“La giustizia è amministrata in nome del popolo”) e 111 della Costituzione (giusto processo, principio del contraddittorio, imparzialità del giudice): nel processo il diritto oggettivo sancito sulla carta viene attuato attraverso l’eliminazione di situazioni di incertezza che possono sorgere nella pratica o reprimendo le infrazioni che attentano alla sua applicazione.
La sostanziale natura dell’interpretazione giudiziale, che manifesta un elemento di creatività, ma anche possibilità di errore del giudice, richiede la presenza necessaria delle parti (in nome delle quali la giustizia è amministrata e che ne subiscono le decisioni) nel procedimento di formazione del suo convincimento e il loro contributo efficace e costruttivo, fornito attraverso il difensore, allo svolgimento delle sue funzioni.
Il ruolo di coprotagonista imprescindibile dell’avvocato nel processo si concretizza nel contraddittorio attraverso il quale, mediante l’esposizione e lo svolgimento delle opposte ragioni delle parti e degli elementi probatori, la giurisdizione tende all’accertamento della verità: il difensore, con le sue deduzioni e allegazioni, contribuisce alla formazione di una corretta decisione da parte del giudice.
L’indipendenza e la libertà dell’avvocato sono, quindi, condizione e garanzia dell’imparzialità del giudice e dell’attuazione della giustizia, che solo così può essere effettivamente amministrata in nome del popolo, come richiesto dall’art. 101 Cost..
Conferma del ruolo costituzionale attribuito all’avvocatura si rinviene inoltre in quegli articoli della Costituzione che dalla categoria forense attingono membri di organi costituzionali o di rilievo costituzionale, come il Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Cost.), la Corte di Cassazione (art. 106 Cost.), la Corte Costituzionale (art. 135, comma 2, Cost.); trattasi di cariche riservate a soggetti (come gli avvocati, magistrati, professori universitari) per i quali la Costituzione garantisce libertà, autonomia e indipendenza.
Questi profili evidenziano come la professione forense non possa essere disciplinata in maniera corretta se i connotati della dignità, del decoro e della libertà non vengano assicurati in maniera effettiva.
Le stesse caratteristiche del massimo organo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura, il Consiglio Nazionale Forense, rispecchiando il dovere di doppia fedeltà al cliente e alla legge che segna il tratto fondamentale dello status dell’avvocato, valorizzano ulteriormente la rilevanza sociale della professione.
Il Consiglio Nazionale Forense non è infatti solo un organo rappresentativo di una specifica categoria professionale, ma è un organo dell’ordinamento statuale, è l’ente pubblico associativo, che non a caso ha sede in Roma presso il Ministero della Giustizia, cui è istituzionalmente affidato il compito di salvaguardare libertà e indipendenza dell’avvocatura nell’espletamento della sua funzione costituzionale.
Le competenze attribuitegli dalla legge sono sia di natura amministrativa (ed es. tenuta dell’Albo degli avvocati abilitati dinanzi alle magistrature superiori, aggiornamento e proposta delle tariffe professionali, designazione dei componenti le commissioni di esame di abilitazione) che giurisdizionale sui ricorsi proposti avverso le decisioni degli Ordini territoriali in materia disciplinare.
Trattasi in particolare di giurisdizione speciale ed esclusiva sugli avvocati italiani, riconosciuta dalla Corte Costituzionale e ribadita dall’art. 36 della Legge 31 dicembre 2012, n. 247 (“Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”), le cui decisioni sono ricorribili in Cassazione.
In buona sostanza le normative e i principi esaminati confermano come l’avvocatura non possa che essere al diretto servizio, prima ancora che del singolo cliente, della Costituzione e delle libertà fondamentali, la cui funzione non cambia nel tempo.
Le nuove esigenze scaturenti dall’innovazione tecnologica, dall’evoluzione dei mercati e dall’intervento del diritto sovranazionale, non possono in alcun modo modificare la consolidata collocazione della professione forense nel ruolo di garanzia dei diritti.
L’unica modernizzazione plausibile può riguardare, semmai, le modalità di esercizio della professione e i profili meno caratterizzanti della stessa.
Ciononostante, con l’affermarsi della c.d. globalizzazione, l’apertura dei mercati e l’accelerazione del processo di integrazione europea, è stata introdotta nell’immaginario collettivo, spinta dai vertici del mondo imprenditoriale ed economico e fatta propria dal Legislatore, una visione imprenditoriale e concorrenziale della professione forense, che ha finito per snaturare la concezione garantistica radicata nella nostra tradizione, che non si era riuscito a mettere in discussione neanche nei periodi più bui della nostra storia.
Il processo di mercificazione della tutela legale realizzato nel contesto globalizzatore ha invece relegato l’avvocato a mero produttore di servizi, in concorrenza non solo con i propri colleghi, ma anche con altri professionisti e prestatori di servizi e, soprattutto, in varie forme, con il grande capitale.
4. L’avvocato nell’Italia liberale e nel ventennio fascista
La pubblica rilevanza della professione forense, per il ruolo svolto a tutela dei diritti e nell’amministrazione della giustizia, per il contributo tecnico scientifico garantito all’elaborazione di leggi e codici, nonché per il numero di avvocati fornito alla classe dirigente (il giurista dell’età liberale per definizione era avvocato e parlamentare), è un dato consolidato nella nostra tradizione.
Gli avvocati ricoprirono un ruolo fondamentale sia nella formazione dello Stato unitario (con la forte partecipazione alle lotte risorgimentali), sia in tutto il periodo liberale.
Nell’Italia liberale la cultura prevalente ritenne prioritario garantire l’indipendenza dell’avvocatura, partorendo la prima disciplina organica della professione forense, con l’istituzione dell’Ordine degli avvocati e dei procuratori mediante la Legge n. 1938 dell’8 giugno 1874 (e l’emanazione del successivo regolamento d’esecuzione), che introdusse regole certe e unitarie per l’ammissione all’esercizio della professione e sanzioni per i comportamenti deontologicamente scorretti, da comminare da parte degli stessi Ordini.
Era l’epilogo di un lungo dibattito giuridico e politico, avviato a partire dalla proclamazione del Regno d’Italia, sulla necessità di unificare la disciplina delle professioni forensi in tutto il territorio nazionale, data la varietà degli ordinamenti in vigore negli Stati preunitari, in cui tuttavia era già presente la distinzione (sopravvissuta sino alla Legge 24 febbraio 1997, n. 27, che ha abolito l’albo dei procuratori) tra la funzione di procuratore, incaricato della rappresentanza (non necessariamente laureato) e avvocato, “alfiere” della difesa (in possesso del requisito della laurea), che godeva di una considerazione di gran lunga superiore.
Sin dalla Restaurazione era apparsa evidente l’esigenza di bilanciare forme di controllo statale con la garanzia di un certo grado di autonomia di una professione la cui importanza e rilevanza politica erano ormai riconosciute per la tutela dei diritti dei cittadini, anche nei confronti dello Stato.
I “liberali puri”, che militavano perlopiù nella Destra, erano per principio contrari a tutte le forme di corporazione, nel nome del laissez faire, ritenendo l’associazionismo in sé un ostacolo alla libertà dell’individuo. Vedevano quindi nell’istituzione dell’Ordine degli avvocati un ritorno alle corporazioni e ai privilegi di un Ancien Régime definitivamente superato dallo Stato liberale.
Prevalse, tuttavia, la maggioritaria corrente delle forze liberali, che considerava l’Ordine degli avvocati come elemento fondamentale per la difesa dei diritti dei cittadini e, in tale prospettiva, vedeva nell’autonomia e organizzazione degli avvocati strumenti indispensabili per l’affermazione dell’autonomia e indipendenza anche della magistratura.
Nel 1876 Zanardelli, in un discorso tenuto a Brescia sull’avvocatura, evidenziò l’opportunità di garantire la indipendenza dell’avvocato proprio per il perseguimento degli obiettivi cui la stessa professione nella sua più alta accezione deve tendere, segnalando a tal fine la necessità di conferire autonomia al relativo Ordine inteso come “diritto di reggersi da se stesso, senza alcuna ingerenza amministrativa di estranee autorità per guisa che l’Ordine stesso sia veramente signore del suo albo e della sua disciplina”.
La rilevanza estrema del ruolo e dell’indipendenza dell’avvocatura fu ben presente anche al regime fascista, che individuò subito in quella forense la più importante e la più pericolosa tra le professioni, in quanto strumento di mediazione tra il cittadino e le istituzioni (funzione ben evidenziata da Gramsci quando definì gli avvocati, tra gli “intellettuali di tipo rurale”, il vero trait d’union tra le masse contadine e l’amministrazione pubblica, centrale o locale, con “una grande funzione politico-sociale, perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile da quella politica”), tanto da dedicarle il primo intervento di riforma.
Seppure nelle dichiarazioni il fascismo fin dall’inizio riconobbe nell’avvocatura il “fossile sociale” (queste le parole di Sergio Panunzio) che andava cancellato, reale obiettivo del regime ne fu la sola neutralizzazione politica (come chiarì il Ministro Alfredo Rocco, non poteva essere “consentito di avvalersi della toga e della funzione forense… per combattere la Nazione”).
Ricordava Calamandrei che gli avvocati furono oggetto “di uno dei più cospicui tentativi di disciplinamento sociale, di neutralizzazione politica, e di inquadramento istituzionale attivati nell’area delle professioni intellettuali”.
Due furono le leggi del regime che interessarono l’ordinamento forense.
La prima, del 1926 (L. 453 del 25 marzo 1926), fu definita dal Ministro della Giustizia Alfredo Rocco la “meno fascista” delle leggi, in risposta alle critiche sul carattere autoritario della proposta (che introdusse ad esempio il requisito della “condotta specchiatissima ed illibata” dell’aspirante avvocato, che costituì poi uno strumento importante per la futura espulsione dagli Ordini dei professionisti antifascisti, ovvero “macchiatisi” di condotte “antinazionali”).
Come annunciato dallo stesso Ministro la riforma fu improntata a pochi concetti fondamentali, ma capaci di introdurre un controllo gerarchico: parziale autonomia degli Ordini forensi, ma senza il riconoscimento della personalità giuridica; albi non chiusi, ma con iscrizione limitata; mantenimento della divisione delle professioni (tra procuratori e avvocati); introduzione dell’esame di Stato per diventare procuratori e avvocati; istituzione di un organo centrale di governo dell’avvocatura, il Consiglio superiore forense, i cui membri erano nominati per metà dagli Ordini e per metà dal Governo.
L’interesse effettivo del regime non fu quindi quello di annientare la classe forense, ma di riportare la professione sotto il controllo dello Stato (in una circolare del 1929, il segretario del Partito, Augusto Turati, si premurò di definire le note distintive dell’avvocato fascista, che ricopriva una funzione sociale da svolgersi nella consapevolezza piena degli interessi della “Nazione e del Regime”): annullati gli oppositori, si cercò di compiere un’operazione in qualche modo egemonica sull’avvocatura, ponendo alla sua testa quello che era ritenuto il meglio della scienza giuridica e forense dell’epoca, identificando l’avvocato non solo come un professionista che presta la sua opera al privato, ma anche, e soprattutto, come un “organo” necessario al funzionamento della giustizia.
In una seconda fase, con il R.D.L. 1578 del 27 novembre 1933, il regime intervenne per completare l’inquadramento della categoria risistemando tutta la materia, in particolare attraverso la soppressione degli Ordini degli avvocati e dei procuratori (già nel frattempo realizzata di fatto con il loro scioglimento accompagnato dalla contestuale nomina di Commissioni che dovevano provvedere alla revisione straordinaria degli albi), con attribuzione delle loro funzioni ai sindacati forensi fascisti e l’istituzione di una Commissione centrale per gli avvocati e procuratori (che sostituiva il Consiglio superiore forense) questa volta integralmente di designazione ministeriale.
Nel complesso il fascismo realizzò una sorta di compromesso con una parte dell’avvocatura che, più o meno esplicitamente, aderì ai principi ispiratori del regime, ma le misure adottate, come la “pulizia” degli albi, la soppressione (prima di fatto e poi di diritto) degli ordini forensi e la loro sostituzione con i sindacati fascisti, non fiaccarono la “grande massa antifascista” che si trovava fra gli avvocati italiani e che, infatti, diede il suo grande contributo alla Resistenza, in Costituente e alla ricostruzione.
Piero Calamandrei (commissario del sindacato nel 1943, poi, dal 1946 al 1956, presidente del Consiglio Nazionale Forense) avrebbe governato la difficile fase del ritorno alla democrazia con la ricostituzione degli Ordini degli avvocati (prevista nel 1944).
Anche nel ventennio, ad ogni modo, non venne mai meno la considerazione e il riconoscimento dell’elevata capacità della classe forense di incidere nel contesto sociale e politico e del suo ruolo centrale nell’amministrazione della giustizia.
Tant’è che il codice penale approvato con R.D. 19 ottobre 1930 n. 1398, come ricordato, qualificò i “privati che esercitano professioni forensi” come esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 359).
Il codice civile approvato con R.D. 16 marzo 1942, n. 262 individuò i caratteri specifici delle professioni intellettuali nella:
– necessaria iscrizioni agli Albi tenuti dalle associazioni professionali, cui si demandava il potere disciplinare sugli iscritti, seppure sotto la vigilanza dello Stato (art. 2229);
– esecuzione personale dell’incarico (2232);
– compenso adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione, con divieto di patto di quota lite per gli avvocati (2233).
La Legge 13 giugno1942, n. 794 disciplinò specificamente gli onorari degli avvocati e procuratori, sancendo (art. 24) l’inderogabilità dei minimi tariffari, venuta meno solo nel 2006 con il Decreto Bersani.
Lo stesso impianto normativo dell’ordinamento forense disegnato nel 1933, le cui disposizioni prettamente “politiche” furono spazzate via con i decreti luogotenenziale dal 1944, è rimasto in piedi sino al 2012.
Mai l’avvocato è stato considerato come mero prestatore di servizi, riconoscendosi sempre alla categoria quelle esigenze di dignità e decoro caratteristiche della professione intellettuale e l’assoluta impossibilità di assimilarne l’operato a quella dell’imprenditore.
5. Il processo di liberalizzazione della professione forense
La particolare natura della professione forense e la funzione sociale, di rilievo costituzionale, sempre riconosciuta all’avvocatura, l’ha a lungo preservata dalle insidie delle logiche di mercato e dalla capitolazione ai dogmi della concorrenza.
Era generale convinzione che il libero esplicarsi delle dinamiche di mercato fosse inidoneo ad assicurare lo svolgimento efficiente della professione ed al contempo ad apprestare tutela all’interesse generale ad essa sotteso.
Lo Stato garantiva autonomia e indipendenza agli enti rappresentativi della categoria, a fronte dell’impegno di quest’ultimi di vigilare sul decoro e l’onore della professione, in tal modo tutelando sia gli utenti che la società nel suo complesso.
Ciò è stato possibile attraverso una serie di vincoli normativi e regole deontologiche volti a disciplinare sia l’accesso alla professione, sia l’esercizio dell’attività stessa.
Lo snaturamento delle professioni intellettuali, e di quella forense in particolare, è avvenuto invece per impulso del processo di integrazione europea, mediante l’estensione ai professionisti della disciplina comunitaria della libera circolazione e della concorrenza.
Sotto il primo aspetto sono stati progressivamente affermati e disciplinati per i professionisti (e nello specifico per gli avvocati), in particolare attraverso direttive europee recepite dall’ordinamento italiano, i principi dei Trattati relativi alla libertà di stabilimento (art. 49 TFUE – ex articolo 43 del TCE) ossia il diritto di svolgere permanentemente la propria attività in uno Stato membro diverso da quello di origine, alle stesse condizioni che la legislazione dello Stato membro attribuisce ai propri cittadini, e la libertà di prestazione dei servizi (artt. 26 e 56 TFUE – ex artt. 14 e 49 TCE), ovvero la possibilità di esercitare temporaneamente la propria attività in un altro Stato membro, alle stesse condizioni che lo Stato de quo impone ai propri cittadini.
L’assorbimento delle professioni nell’ambito più specifico della concorrenza, che è l’oggetto specifico del presente documento, si è invece verificato prima negli anni ’90 attraverso l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia interpretativa dei principi dei Trattati e, successivamente, negli anni 2000, sotto la diretta spinta delle istituzioni europee, che hanno sollecitato il Legislatore nazionale a rimuovere quei vincoli che, si asseriva, impedivano all’economia e ai consumatori di beneficiare dei (promessi) vantaggi della concorrenza.
Nell’impianto dell’Unione europea, infatti, la concorrenza è ritenuta strumento di stimolo per la libertà d’iniziativa e per l’innovazione, nonché fattore promotore di progresso tecnologico ed economico. I Trattati sono ciecamente e solidamente fondati su tale assunto.
Inglobare le professioni nelle dinamiche del mercato avrebbe dovuto comportare positive ripercussioni sull’economia in generale, ma anche vantaggi sia per i professionisti che i fruitori dei loro servizi, come promesso da Mario Monti nel 2004, al tempo Commissario europeo per la concorrenza: “Il settore dei servizi è il principale motore di crescita dell’Unione europea e i servizi professionali forniscono un importante contributo a tale settore. L’alleggerimento della regolamentazione permetterebbe di offrire servizi più competitivi alle imprese e ai consumatori, e quindi contribuirebbe a far crescere la competitività dell’Europa in linea con l’agenda di Lisbona.”
Tappa fondamentale del processo di riforma delle professioni in una prospettiva di valorizzazione della concorrenza è stata infatti il Consiglio europeo tenutosi a Lisbona il 23 e 24 marzo del 2000, il cui intento dichiarato, ma all’evidenza dei fatti miseramente fallito, era quello di imprimere un nuovo corso allo sviluppo socio-economico europeo, attraverso un piano strategico, la c.d. Strategia di Lisbona (cui si riferiva per l’appunto Monti nella citazione sopra riportata), finalizzato a trasformare l’economia europea tra le più competitive del mondo entro il 2010.
Per la verità l’Unione europea si è accodata a una tendenza già emersa a livello internazionale: quando le istituzioni europee hanno deciso di “incoraggiare” gli Stati membri ad aprire i servizi professionali alla concorrenza, non stavano facendo altro che seguire l’indirizzo statunitense, promosso dalla “Scuola di Chicago” con l’avallo della giurisprudenza della Corte Suprema (che aveva sancito l’assoggettabilità dei professionisti alle regole antitrust e affermato l’incostituzionalità del divieto per gli avvocati di avvalersi del mezzo pubblicitario, in quanto contraria al primo emendamento alla Costituzione americana volto a garantire la libertà di espressione).
Nel 1985 l’Organization of Economic Cooperation and Development (OECD), alla quale l’Unione europea prende parte, aveva pubblicato un rapporto dal titolo “Competition Policy and the Professions” per sottolineare l’eccessivo grado di regolamentazione presente nel comparto dei servizi professionali e, quindi, la necessità, nonostante le conclamate potenziali disfunzioni del mercato, di:
– rimuovere gli ostacoli relativi all’accesso alle professioni;
– abolire le predeterminazioni tariffarie;
– consentire le più ampie forme pubblicitarie;
– aprire le professioni alle strutture organizzative societarie.
Eccezioni dovevano essere solo le sole restrizioni necessarie per assicurare il perseguimento del pubblico interesse.
Tale orientamento è stato approfondito nel 2000, in occasione della pubblicazione della rapporto dal titolo “Competition in Professional Services”, nonché ribadito nel 2008, con specifico riferimento alla professione forense, nel rapporto “Competitive Restrictions in Legal Professions”.
Le analisi condotte dall’OECD hanno costituito il fondamento teorico dell’azione delle Istituzioni europee, intervenute a più riprese per affermare la necessità di riconoscere l’applicabilità del diritto comunitario della concorrenza anche al settore delle professioni intellettuali, sollevando dubbi circa la proporzionalità e congruità di talune misure restrittive nazionali rispetto al fine ultimo di apprestare un’idonea tutela alla società nel suo complesso.
Principi dirompenti affermati dapprima per altre professioni, sono stati successivamente estesi a quella legale, con un atteggiamento ipocrita passato attraverso affermazioni di principio rispettose della specificità della sua natura e funzione, ma che, progressivamente, ha finito per inglobare tutte le professioni nel tritacarne del mercato e della “concorrenza senza distorsioni”.
L’assoggettabilità dei servizi professionali alle norme sulla concorrenza (antitrust) è stata fatta discendere così, in primis, dalla qualificazione dei professionisti come imprese.
La nozione comunitaria di impresa nasce dall’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, registratasi a partire dagli anni ’80, nonché da un’interpretazione sistematica e funzionale del diritto europeo, in relazione agli scopi e ai principi dei Trattati.
Per il diritto europeo impresa è qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, indipendentemente dallo status giuridico (pubblico o privato) della stessa e dalle relative modalità di finanziamento (Corte di Giustizia, 23 aprile 1991, C-41/90, Hofner ed Elser c. Macroton; Corte di Giustizia, 16 luglio 1987, C-118/85, Commissione c. Italia).
Una definizione così ampia, idonea ad inglobare qualsiasi attività che consiste nell’offrire beni o servizi in un determinato mercato, a prescindere dalle qualificazioni giuridiche nazionali, dalla natura intellettuale del servizio offerto (Corte di Giustizia, 9 febbraio 1994, C-119/92, Commissione c. Italia) e relative peculiarità (che per i professionisti forensi si sostanziano nella intellettualità, autonomia, indipendenza, discrezionalità, personalità della prestazione) estende in maniera spropositata l’applicabilità delle regole antitrust.
Ed infatti la Corte di Giustizia ha finito per riconoscere espressamente che “Gli avvocati svolgono un’attività economica e, pertanto, costituiscono imprese ai sensi degli artt. 85, 86 e 90 del Trattato (divenuti artt. 81 CE, 82 CE e 86 CE)” (Corte di Giustizia, 19 febbraio 2002, C-309/99, Wouters e altri v. Algemene Raad van de Nederlandse Orde van Advocaten).
Da qui la qualificabilità dei loro enti rappresentativi come associazioni di imprese ex art. 101, paragrafo 1, TFUE e l’affermazione che le delibere adottate dagli Ordini professionali, o da essi proposte ai Governi nazionali, rappresentano “decisione di associazioni di imprese”.
Tratte queste conclusioni, è irrilevante è che alcuni Ordini professionali abbiano uno status giuridico pubblico, risultando sufficiente la presenza di un’organizzazione corporativa, che abbia il potere di adottare provvedimenti vincolanti per gli associati, ad assoggettarli agli artt. 101 e 102 TFUE (già artt. 81 e 82 TCE).
L’art. 101 TFUE vieta gli accordi e pratiche anticoncorrenziali fra imprese, decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate, che posseggono effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, idonei a pregiudicare il commercio tra gli Stati membri.
L’art. 102 TFUE sancisce, invece, il divieto per le imprese di abusare di una posizione dominante all’interno del mercato globale o in una sua parte rilevante.
Invero, come sottolineato nel caso Wouters, talune misure, sebbene restrittive, possono essere giustificate dalla necessità di tutelare gli interessi pubblici riconnessi all’esercizio della professione forense, purché (test di proporzionalità) risultino necessarie e proporzionate al raggiungimento dello scopo perseguito, ovvero legittimate da normative statali.
Tuttavia la disciplina della concorrenza può incidere anche sull’attività degli Stati membri, ai quali è fatto divieto di autorizzare le imprese ad agire in violazione del diritto della concorrenza. Dal combinato disposto dell’art. 101 TFUE e dell’art. 4, n. 3, TUE (già art. 10 TCE), che impone un generale dovere di cooperazione e leale collaborazione tra Unione e Stati membri ai fini di conseguire gli obiettivi del Trattato, e, in senso lato, dell’art. 3, n. 3, TUE, che sancisce il principio della concorrenza libera e non falsata all’interno del mercato unico, emerge l’obbligo per gli Stati di non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche legislativi o regolamentari, in grado di pregiudicare l’applicazione alle imprese delle regole di concorrenza (Corte di Giustizia, 21 settembre 1988, C-267/86, Van Eycke; Corte di Giustizia 17 novembre 1993, C-185/91, Reiff; Corte di Giustizia 9 giugno 1994, C-153-93, Delta Schiffahrts-und Speditionsgesellschaft).
Sancita dalla giurisprudenza l’assoggettabilità delle professioni alla regole antitrust, le istituzioni europee hanno iniziato a rivalutare il grado di competitività presente nel mercato europeo dei servizi legali e ad auspicare una maggiore liberalizzazione di tale settore.
Il tutto si è sviluppato ipocritamente, riconoscendo il ruolo basilare che le libere professioni svolgono nella nostra società, l’importanza delle associazioni professionali, dei loro codici deontologici e, quindi, di una regolamentazione adeguata a garantire l’etica professionale, la qualità dei servizi e l’interesse pubblico, ma sottolineando come tutto ciò debba essere conciliato con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, vantaggio e necessità per i professionisti stessi.
Il Consiglio europeo svoltosi a Lisbona nel marzo 2000 ha quindi adottato un programma di riforme economiche mirante, come detto, a trasformare entro il 2010 l’economia della UE nella “economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”.
Cinque sono le categorie principali di regolamentazione individuate come potenzialmente restrittive nei servizi professionali, che hanno per oggetto le seguenti aree:
1) la fissazione dei prezzi,
2) la raccomandazione dei prezzi,
3) la pubblicità,
4) i requisiti di accesso e i diritti esclusivi,
5) la struttura aziendale e le pratiche multidisciplinari.
Il Parlamento europeo già negli anni ’90 aveva invitato più volte la Commissione a promuovere la concorrenza nel settore delle professioni intellettuali. Nel post Lisbona, pur riconoscendo la specificità ed importanza degli ordinamenti professionali, dei loro codici deontologici e quindi di una regolamentazione adeguata a garantire l’etica professionale, la qualità dei servizi e l’interesse pubblico, ha sempre ribadito l’inderogabilità delle regole della concorrenza (Risoluzione 5 aprile 2001; Risoluzione 16 dicembre 2003; Risoluzione 23 marzo 2006 e 12 ottobre 2006).
Propulsore delle riforme è stata la Commissione, che nel 2001 ha affidato al centro di ricerca viennese Istitut fur Hohere Studien – IHS uno studio sistematico, volto a raccogliere informazioni ricognitive di legislazione, regolamentazione e codici di condotta nei diversi Stati membri in materia di accesso ed esercizio di alcune professioni intellettuali, ed in particolare di avvocati, notai, commercialisti, architetti, ingegneri e farmacisti (Economic Impact of the of Liberal Professionals in Different Member States).
Nonostante lo studio non avesse tra gli obiettivi dichiarati quello di suggerire linee d’azione e di riforma, ha comunque formulato alcune considerazioni di politica economica, sul presupposto che negli stati maggiormente regolamentati non si registrano livelli ottimali di sviluppo economico e di tutela dei consumatori, mentre maggior creazione di ricchezza si registra nei mercati più liberalizzati, concludendo che i modelli economici dei paesi maggiormente restrittivi avrebbero potuto essere deregolamentati senza pregiudizio per la qualità dei servizi professionali.
I risultati dell’indagine condotta dall’IHS sono stati resi pubblici nel marzo 2003 durante il discorso in cui Mario Monti, al tempo Commissario alla concorrenza, annunciava presso il BRAK (Bundesanwaltskammer) di Berlino l’inizio dello “Stocktaking Exercise” (monitoraggio), invitando le parti interessate a presentare osservazioni sullo stato e sugli effetti delle proprie regolamentazioni interne.
La UE ha quindi innestato i propri successivi interventi sui risultati dello studio dell’IHS e delle analisi condotte dall’OECD.
La Commissione ribadita l’esigenza di rimuovere gli ostacoli al mercato interno (Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo – Lo stato del mercato interno dei servizi (presentata nell’ambito della prima fase della strategia per il mercato interno dei servizi) idonei a pregiudicare il processo di integrazione nel mercato delle professioni, nel febbraio 2004 tramite il Report on Competition in Professional Services ha iniziato la sua opera di “advocacy”, per “sensibilizzare” gli Stati a modernizzare le proprie regolamentazioni strutturandole sul principio della concorrenza, quindi eliminando, con specifico riferimento alla professione legale:
– barriere all’accesso e riserve di attività;
– tariffe prestabilite;
– limiti all’esercizio in forma societaria dell’attività;
– restrizioni all’uso di mezzi pubblicitari.
Agli Stati membri si è raccomandato (secondo il noto ritornello) di mantenere unicamente le norme oggettivamente necessarie per la tutela dell’interesse pubblico, data la peculiare natura delle prestazioni professionali e la consapevolezza delle possibili carenze del mercato, individuando tre ragioni che possono astrattamente legittimare un certo grado di regolamentazione:
– l’asimmetria informativa tra clienti e prestatori di servizi, dovuta al livello elevato di conoscenze tecniche di cui dispongono i professionisti e di cui i consumatori possono essere privi;
– le esternalità, in quanto i servizi, come quelli connessi al buon andamento della giustizia, possono avere un impatto (positivo o negativo) anche su terzi;
– nel caso di alcune professioni, la produzione di “beni pubblici” che presentano un valore per la società in generale.
In sostanza l’Unione europea ha optato per una “better regulation”, individuando il punto di equilibrio nel c.d. “test di proporzionalità”: le misure adottate devono essere le uniche idonee a garantire il soddisfacimento delle esigenze di interesse pubblico, non ottenibile con modalità meno restrittive, ed al contempo devono essere proporzionate al fine perseguito e quindi non comportare oneri eccedenti rispetto allo scopo prefissato.
Sulla base di tali linee guida la Commissione ha, dunque, invitato le autorità di regolamentazione degli Stati membri e gli organismi professionali, in collaborazione con le Autorità antitrust nazionali, ad un lavoro di revisione della disciplina esistente.
5.a. Le principali restrizioni all’esercizio della professione: tariffe e pubblicità
Particolarmente significativa è stata l’attività delle istituzioni europee in materia di tariffe professionali e pubblicità.
La libera determinazione dei prezzi di prodotti e servizi rappresenta uno dei modi essenziali in cui la concorrenza si manifesta, per cui secondo l’Unione la regolazione dei medesimi, soprattutto mediante la fissazione di tariffe minime e massime, ha un impatto sul mercato non sempre giustificabile dalla necessità di assicurare la correttezza degli operatori, la qualità dei servizi offerti e, dunque, più in generale, a correggere i ben noti fallimenti di mercato ed a perseguire le esigenze di interesse collettivo.
L’art. 101 TFUE, infatti, nell’enunciare le ipotesi esemplificative delle fattispecie vietate, riserva il primo posto proprio alla fissazione dei prezzi.
L’incompatibilità dell’assenza di una libera contrattazione dei prezzi con il diritto antitrust era stata affermata dalla Corte di Giustizia (17 gennaio 1984, cause riunite 43/82 e 63/82, VBVB e VBBB; 30 gennaio 1985, C-123/83, BNIC-Clair), ritenendo che, seppur la fissazione dei prezzi di un prodotto possa rappresentare una garanzia contro pratiche sleali, essa non costituisce comunque una ragione sufficiente per sottrarre un intero mercato alle regole della concorrenza.
Relativamente ai servizi professionali la particolarità del settore ha indotto la Corte di Giustizia a un atteggiamento cauto, volto a vagliare caso per caso la compatibilità dei singoli sistemi tariffari con le norme dei Trattati, ribadendo la necessità che eventuali restrizioni siano giustificate dal bisogno di tutelare l’interesse generale e proporzionate per il perseguimento di tale fine.
In data 18 giugno 1998 (causa C-35/96, Spedizionieri doganali) la Corte ha statuito che la decisione con cui l’organo di categoria imponga ai propri membri l’osservanza di una tariffa unica e inderogabile (sia pur resa pubblica da un intervento del tutto formale del Ministero delle Finanze) deve ritenersi in contrasto con l’art. 101 TFUE (ex art. 81 TCE), escludendo giustificazioni sul terreno dell’interesse pubblico, anche poiché il prezzo delle operazioni poste in essere dagli spedizionieri doganali non è generalmente ancorato al parametro della qualità della prestazione o alla tipologia del servizio offerto, ma al valore delle merci o del relativo peso.
Nel caso Arduino (Corte di Giustizia, 19 febbraio 2002, C-35/99) è stato affrontato lo specifico tema della compatibilità dei minimi tariffari previsti per gli avvocati nel sistema italiano con gli artt. 4, paragrafo 3, TUE e 101 TFUE (ex artt. 10 e 81 TCE), ribadendo che è configurabile la violazione dei Trattati nel caso in cui uno Stato membro imponga o agevoli la conclusione di accordi in contrasto con l’art 101 TFUE o ne rafforzi gli effetti, ovvero privi la propria normativa del carattere pubblico delegando ad operatori privati il potere di adottare decisioni in materia economica (pur precisando che tali fattispecie non ricorrono qualora lo Stato, come nel caso italiano, mantenga un controllo sostanziale sull’adozione della tariffa).
Successivamente la Corte, pronunciandosi nelle cause riunite Cipolla e Macrino (Corte di Giustizia, 5 dicembre 2006, procedimenti riuniti C-94/04 e C-202/04) ha affrontato nuovamente la questione delle tariffe dei professionisti forensi, ma questa volta in riferimento alla compatibilità delle tariffe stragiudiziali con il diritto di libera prestazione di servizi intra UE, riconoscendo un potenziale effetto lesivo della normativa italiana, in quanto il divieto di derogare ai minimi tariffari può rendere più difficile l’ingresso nel mercato italiano dei servizi legali degli avvocati stabiliti in uno Stato membro diverso
Cauto sul tema si è mostrato anche il Parlamento europeo, ritenendo le tariffe obbligatorie compatibili in ipotesi con il diritto antitrust nel caso in cui “gli Stati membri controllino attivamente l’intervento di operatori privati nel procedimento decisionale” (Risoluzione del Parlamento europeo sulle professioni legali e l’interesse generale nel funzionamento dei sistemi giuridici, 23 marzo 2006) e tale misura risulti, in ultima analisi, adeguata e proporzionata rispetto all’obiettivo di proteggere la collettività, e non pura espressione degli interessi di categoria (Risoluzione del Parlamento europeo sul seguito alla relazione sulla concorrenza nei servizi professionali, 12 ottobre 2006).
Più decisa la posizione della Commissione, secondo cui le restrizioni della concorrenza relative al sistema tariffario e alla pubblicità stentano a trovare giustificazione sul terreno dell’interesse pubblico e i prezzi fissi o prezzi minimi sono gli strumenti normativi più deleteri per la concorrenza, in quanto in grado di eliminare o ridurre sensibilmente i vantaggi che agli utenti possono derivare dai mercati competitivi (Report on Competition in Professional Services del 2004): non solo non garantiscono una riduzione dei costi delle prestazioni, ma non possono nemmeno essere ritenute idonee a proteggere la qualità dei servizi poiché non impediscono a professionisti meno qualificati di offrire servizi sul mercato, né tutelano i consumatori da eventuali comportamenti opportunistici.
La seconda tipologia di restrizioni prese in considerazione, spesso prevista nei codici deontologici delle professioni regolamentate, riguarda il divieto o la limitazione alla possibilità per il professionista di farsi pubblicità.
La Commissione ritiene ingiustificati eventuali divieti e limitazioni della stessa, ma addirittura considera la libera diffusione delle informazioni concernenti i servizi professionali un modo per assicurare la qualità delle prestazioni legali. Un miglioramento della disponibilità e qualità delle informazioni rese dai professionisti comporterebbe una maggior opportunità per gli utenti di scegliere consapevolmente il servizio di cui necessitano. La pubblicità professionale maggiormente libera da vincoli si tradurrebbe, pertanto, nella misura meno restrittiva in grado di garantire la qualità dei servizi, in una dinamica caratterizzata da asimmetrie informative, rendendo così superflua e sproporzionata la fissazione di prezzi fissi inderogabili.
Effetto, peraltro, abbastanza dirimente sull’ammissibilità della pubblicità nel contesto delle professioni, è da imputarsi alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, 2006/123/CE (Direttiva Bolkestein), relativa ai servizi nel mercato interno, che obbliga gli Stati membri (art. 24) ad abolire ogni divieto di comunicazioni commerciali, temperata per la professione forense dall’imposizione di una conformità del messaggio alle regole professionali: la direttiva preclude quindi i divieti assoluti, in quanto restrizione alla libera prestazione dei servizi transfrontalieri, mentre i Paesi membri possono solo fissare eventuali limiti al contenuto ovvero alle modalità delle comunicazioni commerciali, purché giustificati e proporzionati all’obiettivo di garantire l’indipendenza, la dignità, l’integrità della professione, nonché il segreto professionale.
Sul tema la Corte di Giustizia (che sulle tariffe, stante la procedura di formazione del sistema tariffario e la rilevanza sociale della professione forense, non aveva espresso opposizioni tout court alla previsione di tariffe imposte) si è espressa per la rigorosa applicazione della Direttiva Bolkestein.
Sulla stessa linea il Parlamento europeo, ritenendo le misure restrittive, nella maggior parte dei casi, ingiustificate e pregiudizievoli e auspicando l’eliminazione dei vincoli relativi alla pubblicità, salvo i casi eccezionali debitamente giustificati, in un’ottica di tutela degli utenti e del loro diritto ad essere informati.
6. Le riforme in Italia
Le tendenze europee in tema di professione forense e concorrenza hanno inciso profondamente sull’ordinamento italiano, comportando una progressiva riduzione delle limitazioni esistenti all’esercizio della professione di avvocato e proiettandola all’interno delle logiche del mercato.
Gli interventi più significativi sono stati a volte adottati con decreti legge in via d’urgenza o inseriti in provvedimenti dal tenore decisamente più ampio e collegati a esigenze di stabilizzazione finanziaria. Alcune disposizioni hanno riguardato le professioni in generale, altre sono state rivolte specificamente alla professione forense.
Tappe fondamentali e per certi versi antitetiche di questo percorso sono state l’adozione del c.d. Decreto Bersani nel 2006 (Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge 4 agosto 2006, n. 248) e la Legge di riforma dell’ordinamento forense del 2012 (Legge 31 dicembre 2012, n. 247).
Il Decreto Bersani in conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, è stato emanato con la dichiarata finalità di assicurare agli utenti dei servizi professionali un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato.
La Legge di riforma dell’ordinamento forense, salutata con entusiasmo dai vertici dell’avvocatura italiana in quanto normativa speciale, ovvero attenta alle esigenze di categoria e non destinata a tutte le professioni, è stata frettolosamente celebrata come una vittoria dell’autonomia e indipendenza dell’avvocatura, sia pur con la emblematica precisazione (Alpa) che “Non si tratta di una norma corporativa o anticoncorrenziale”.
Si tratta certamente della prima legge organica sull’avvocatura, dopo quelle del 1874 e del 1933, che regola in particolare l’organizzazione degli studi professionali, il segreto professionale, l’impegno solenne, l’incarico ricevuto dal cliente e il compenso dell’avvocato, l’obbligo di formazione continua e di assicurazione, il mandato professionale, le sostituzioni e le collaborazioni, gli albi, le incompatibilità, la continuità dell’esercizio della professione, gli organi e le funzioni degli ordini forensi, la istituzione di camere arbitrali e di conciliazione, lo sportello del cittadino le pari opportunità, i compiti e le prerogative del Consiglio Nazionale Forense, l’Osservatorio permanente sull’esercizio della giurisdizione, il Congresso nazionale, il tirocinio professionale e i rapporti con l’università, le Scuole forensi, la formazione e l’esame di Stato, il procedimento disciplinare e i consigli distrettuali di disciplina.
Si riconosce che la professione forense deve essere esercitata “con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza” (art. 3 comma 2).
L’art. 2 sottolinea la funzione difensiva dell’avvocatura, di cui riconosce il ruolo fondamentale in considerazione della primaria rilevanza giuridica e sociale dei diritti alla cui tutela essa è preposta, e precisa che “sono attività esclusive dell’avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, l’assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali”. Per la prima volta nella storia dell’avvocatura una legge disciplina anche la consulenza, la quale, ove connessa all’attività giurisdizionale, è di competenza degli avvocati (comma 6).
Al Consiglio Nazionale Forense sono confermati sia il potere giurisdizionale proprio di un giudice speciale, sia la funzione istituzionale e regolamentare.
La riforma delinea inoltre il percorso della formazione dell’avvocato, dal tirocinio, abbreviato e anticipato all’università, alla preparazione e poi all’esame di Stato, e poi all’esame per il patrocinio dinanzi alle Corti superiori.
Effettivamente ha segnato per certi versi un timido arresto del percorso di liberalizzazione, destinato in ogni caso a risultare effimero, a fronte alle pressioni provenienti dall’Unione europea e mai in principio avversate dalla categoria, tant’è che la successiva legislazione ha prodotto decisi passi indietro.
Queste le tappe più rilevanti del percorso di adeguamento dell’ordinamento italiano alle istanze europee sulla concorrenza.
Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge 4 agosto 2006, n. 248: “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materi di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”.
Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con Legge 14 settembre 2011, n. 148: “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”.
– 2011: LEGGE DI STABILITÀ 2012
Legge 12 novembre 2011, n. 183: “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”.
Decreto Legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con Legge 24 marzo 2012, n. 27: “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”.
– 2012: RIFORMA DEGLI ORDINAMENTI PROFESSIONALI
D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137: “Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali, a norma dell’articolo 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138”.
– 2012: RIFORMA DELL’ORDINAMENTO FORENSE
Legge 31 dicembre 2012, n. 247: “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”.
Legge 4 agosto 2017, n. 124: “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”.
Un decisivo impulso al processo di liberalizzazione delle professioni è stato dato dall’autorità Antitrust italiana (AGM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) la quale, recependo l’orientamento europeo, ha condotto analisi sistematiche nel settore fornendo linee guida per incrementare la competitività nei servizi professionali, in particolare attraverso due indagini conoscitive.
La prima, avviata nel 1994 e conclusa nel 1997 (INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI ORDINI E COLLEGI PROFESSIONALI – IC15) con lo scopo di verificare l’adeguatezza della regolamentazione in vigore in relazione all’obiettivo di consentire un consono sviluppo delle attività professionali, ha censurato il carattere marcatamente restrittivo della regolamentazione italiana, rispetto a quelle in vigore nella maggior parte degli altri Stati membri.
L’autorità ha sottolineato quindi l’opportunità di procedere ad una riforma in senso pro-concorrenziale attraverso la rimozione degli ostacoli allo sviluppo economico ancora presenti. In linea con l’indirizzo europeo ha in particolare auspicato il mantenimento delle sole regolamentazioni restrittive effettivamente fondate su un rapporto oggettivo di necessarietà e proporzionalità tra la misura limitativa della concorrenza e la tutela dell’interesse pubblico riconnesso all’esercizio della professione.
I risultati dell’indagine e l’attività dell’Antitrust hanno quindi portato il Legislatore italiano ad avviare un processo di liberalizzazione delle attività professionali, sfociato nell’adozione Decreto Bersani (Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge 4 agosto 2006, n. 248), che ha introdotto significative modifiche in senso pro-concorrenziale nell’ordinamento italiano dei servizi professionali, imponendo l’adeguamento delle disposizioni deontologiche non conformi entro il primo gennaio 2007, sancendo la nullità delle disposizioni non modificate entro tale data, risultanti in contrasto con la nuova normativa.
La seconda, avviata nel 2007 e conclusa nel 2009 (INDAGINE CONOSCITIVA RIGUARDANTE IL SETTORE DEGLI ORDINI PROFESSIONALI – IC34) al fine di valutare il grado di recepimento del Decreto Bersani nei codici deontologici di alcune professioni, tra cui quella forense, ha registrato una certa ritrosia da parte degli Ordini professionali ad adeguarsi.
L’evoluzione nel settore legale, in particolare, è stata caratterizzata dalla continua tensione tra richieste dell’Antitrust e repliche del Consiglio Nazionale Forense volte a rivendicare la specificità della professione forense e la proporzionalità di talune limitazioni, in particolare relativamente alle tariffe e alla pubblicità.
Ciononostante, gli effetti delle novità introdotte hanno impattato drasticamente sulla disciplina, non solo normativa, ma anche deontologica della professione.
Le innovazioni hanno riguardato in particolare:
– limiti tariffari;
– pubblicità;
– esercizio della professione in forma societaria.
6.a. Tariffe
Per quanto attiene al tema dei compensi per l’avvocato, l’inderogabilità dei minimi tariffari era statuita dall’art. 24 della legge 13 giugno 1942, n. 794, che prevedeva la nullità di ogni previsione contraria.
Il Codice Deontologico, originariamente (art. 43, quinto comma), consentiva tuttavia al professionista di concordare onorari a forfait nel caso di prestazioni continuative stragiudiziali, da commisurare in base all’impegno profuso; tuttavia la norma, in un secondo momento, è stata abrogata.
Era inoltre vietato il c.d. patto di quota lite, sia dal codice civile (l’art. 2233 comma 3 sanciva la nullità dei patti fra avvocati e clienti che riguardassero i beni oggetto delle controversie loro affidate) che dal Codice Deontologico (art. 45: “È vietata la pattuizione diretta ad ottenere, a titolo di corrispettivo della prestazione professionale, una percentuale del bene controverso ovvero una percentuale rapportata al valore della lite”): la ratio di questo divieto, corollario del più ampio principio di dignità e decoro, risiedeva nella necessità di salvaguardare l’indipendenza del professionista, il quale doveva assumere un ruolo di terzietà rispetto alle sorti della vertenza. Al contempo tendeva a tutelare l’interesse dello stesso cliente.
Si consentiva pertanto solo l’eventuale mera pattuizione del c.d. palmario, ovvero un supplemento di compenso per l’esito favorevole della lite, purché contenuto in limiti ragionevoli e giustificato dal risultato).
Recependo le sollecitazioni dell’Antitrust (che nel 1997 aveva sottolineato l’assenza di un nesso eziologico tra tariffe predeterminate ed imposte e qualità dei servizi legali offerti sul mercato, sostenendo che quest’ultima sarebbe stata meglio garantita da misure diverse e meno restrittive, attinenti alle condizioni di accesso alla professione ovvero a meccanismi di responsabilità professionale) l‘art. 2 del Decreto Bersani ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime.
La norma ha fatto salve le eventuali tariffe massime imposte a tutela degli utenti e il riferimento alle tariffe predefinite in caso di liquidazione giudiziale e gratuito patrocinio (il decreto legge nella versione originaria, è stato mitigato in sede di conversione, in quanto sanciva l’abrogazione diretta delle previsioni volte alla “fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime“, senza rinvio alla tariffa professionale per la liquidazione giudiziale dei compensi professionali).
La stessa disposizione ha inoltre modificato l’art. 2233 comma 3 c.c. eliminando il divieto di patto di quota lite e limitandosi a prevedere in generale la forma scritta, a pena di nullità, degli accordi sui compensi.
A seguito di tali innovazioni il Codice Deontologico Forense ha subito evidenti modifiche (l’art. 45, poi rubricato “accordi sulla definizione del compenso“, è stato riformulata per consentire la pattuizione con il cliente di compensi correlati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, fermo il divieto dell’articolo 1261 c.c., non interessato dalla riforma, e sempre che i compensi siano proporzionati all’attività svolta).
L‘Antitrust nella seconda indagine, nella fase di consultazione degli Ordini, aveva sostenuto che la formulazione dell’art. 43 secondo comma (“L’avvocato non deve richiedere compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta”) e dell’art. 45 si prestava alla reintroduzione dell’obbligatorietà delle tariffe, stante la mera previsione della proporzionalità del compenso all’attività svolta, auspicando quindi l’inserimento dell’inciso “fermo restando il principio di libera determinazione del compenso“.
In particolare censurava il formale rinvio della normativa deontologica all’art. 2233, secondo comma, c.c. che fa riferimento all’adeguatezza e al decoro come parametro per la determinazione del compenso professionale, senza tuttavia richiamare l’art. 2, primo comma, lettera a) della legge Bersani, omettendo così di evidenziare l’intervenuta abrogazione dell’obbligatorietà delle tariffe fisse e minime.
L’Ordine forense, con modifica del 2008, ha disposto l’integrazione solo della previsione dell’art. 45 mediante l’introduzione della clausola “fermo il principio disposto dall’art. 2233 del codice civile“, senza operare alcun rinvio alla riforma Bersani.
Successivamente la Manovra bis del 2011 (Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con Legge 14 settembre 2011, n. 148) ha sancito la necessità, per tutte le professioni, di pattuizione per iscritto del conferimento dell’incarico, prendendo come riferimento le tariffe professionali, facendo comunque salva la possibilità per il professionista di derogare al sistema tariffario.
Il rinvio a quest’ultimo, invece, è stato previsto in caso di mancata determinazione consensuale del compenso, quando il committente è un ente pubblico, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse dei terzi.
A carico del professionista è stato altresì posto il dovere di informare il cliente sul livello di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento sino alla conclusione dell’incarico.
Con il Decreto Monti (Decreto Legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con Legge 24 marzo 2012, n. 27) il sistema per la determinazione del compenso per l’attività professionale ha subito una ulteriore importante trasformazione: l’art. 9 ha statuito l’abrogazione, in via generale, di tutte le tariffe previste per le professioni regolamentate, ivi compreso il sistema tariffario forense, stabilendo contestualmente l’implicita abrogazione delle norme che rinviano ai sistemi tariffari per la determinazione del compenso professionale.
Il criterio principale per la determinazione del compenso è diventato, dunque, l’accordo tra cliente e professionista, in assenza del quale subentra la liquidazione in sede giudiziale, secondo i parametri ministeriali, fissati con decreto per le diverse categorie professionali.
La Riforma dell’ordinamento forense (Legge 31 dicembre 2012, n. 247) approvata dopo un iter durato quattro anni ed entrata in vigore il 2 febbraio 2013, è una legge speciale che deroga alla normativa generale sulle professioni e disciplina in maniera organica l’avvocatura.
Ha introdotto un sistema speciale di determinazione e liquidazione del compenso per la categoria forense, ripreso dall’art. 25 del vigente Codice Deontologico del 31 gennaio 2014 (rubricato “Accordi sulla definizione del compenso”) che deve essere generalmente concordato per iscritto al momento dell’incarico, e può essere pattuito secondo diverse modalità, ovvero a forfait, a tempo, per convenzione su uno o taluni affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi, prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o di quanto si prevede possa giovarsene il cliente, anche a prescindere da un profilo meramente economico, indipendentemente dall’effettivo esito o risultato raggiunto.
La norma reintroduce il divieto di patto quota lite, precedentemente abrogato con la riforma Bersani, sancendo dunque la nullità dei patti che prevedono che il compenso consista “in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”.
È previsto l’obbligo di fornire un preventivo in forma scritta, che distingua tra oneri, spese e compenso professionale, ma solo su richiesta del cliente, sancendo inoltre in capo all’avvocato il dovere di fornire al cliente informazioni sulla complessità dell’incarico e sugli oneri ipotizzabili dal conferimento dell’incarico alla conclusione dello stesso.
In assenza di pattuizione scritta, o nel caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse dei terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge, trovano applicazione i parametri ministeriali, adottati con decreto, su proposta del Consiglio Nazionale Forense, ogni due anni.
Il DDL Concorrenza 2017 (Legge 4 agosto 2017, n. 124), infine, ha come detto segnato un passo indietro rispetto alle conquiste ottenute con la riforma forense del 2012, in quanto ha introdotto l’obbligo per gli avvocati di fornire a tutti i clienti un preventivo relativo alla prestazione richiesta con i costi dettagliati per ogni voce di spesa, sempre in forma scritta, indipendentemente dalla richiesta del cliente.
È esteso a tutti i liberi professionisti l’obbligo di comunicare ai committenti il grado di complessità dell’incarico e gli estremi della polizza assicurativa.
6.b. Pubblicità
Insieme all’abolizione dei minimi tariffari attuata con il Decreto Bersani, le innovazioni in tema di pubblicità sono state le conseguenze più impattanti sulla disciplina della professione forense.
Nell’ordinamento italiano le restrizioni alla facoltà per gli avvocati di avvalersi del mezzo pubblicitario erano, infatti, particolarmente stringenti, stante il divieto di pubblicizzare la propria attività ai terzi, ritenuta incompatibile con la natura della professione forense, in quanto idonea ad incidere negativamente sulla dignità, discrezionalità, riservatezza, lealtà e correttezza dell’avvocato.
In ossequio a tali valori il Consiglio Nazionale Forense aveva censurato con rigore assoluto tutti i comportamenti qualificabili come violazioni del divieto di pubblicità, spesso posto in correlazione con l’ulteriore divieto di accaparramento di clientela, giungendo ad affermare, in relazione a uno stampato autoelogiativo, che “il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell’Avvocatura italiana, che nel corso di decenni ha sempre confermato il rifiuto di forme di emulazione diverse da una dignitosa gara di meriti dimostrati attraverso le opere e lo studio”.
Il principio è stato poi codificato nel Codice Deontologico del 1997 (all’art. 17), che sanciva un categorico divieto di qualsiasi forma di pubblicità dell’attività professionale, fatta salva la mera possibilità per l’avvocato di indicare i propri particolari settori di operatività e specializzazioni, di fornire informazioni a colleghi e clienti sull’organizzazione dell’ufficio e sull’attività professionale, nonché di utilizzare il nome di un avvocato defunto che avesse fatto parte dello studio (se tale professionista a suo tempo o per testamento lo avesse espressamente consentito, ovvero previo consenso unanime degli eredi).
L’attività di informazione doveva, in ogni caso, essere realizzata secondo verità e nel rispetto dei doveri di dignità e decoro.
Una prima apertura vi è stata con la riformulazione del predetto articolo 17, con delibere CNF del 1999 e del 2002 che hanno abrogato il divieto e modificato la rubrica in “informazioni sull’attività professionale”, ribadendo la distinzione tra pubblicità, con scopo meramente promozionale, e informazione, ovvero esternalizzazione dell’attività con fini promozionali indiretti, unica attività confacente alla professione forense.
È stata così prevista la possibilità di dare informazioni relative alla propria attività professionale, “secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli obblighi di segretezza e riservatezza” ed elencando le modalità consentite e i divieti relativi ai contenuti. In particolare, è stato permesso l’utilizzo di mezzi ordinari (carta da lettere, biglietti da visita, targhe), brochures informative (opuscoli, circolari) inviate anche a mezzo posta a soggetti determinati, annuari professionali, rubriche, riviste giuridiche, repertori e bollettini con informazioni giuridiche, rapporti con la stampa (secondo quanto stabilito dall’articolo 18 del Codice Deontologico Forense), siti web e reti telematiche purché propri dell’avvocato o di studi legali associati o di società di avvocati, previa segnalazione al Consiglio dell’ordine.
Restavano vietati i mezzi televisivi e radiofonici, i giornali e gli annunci pubblicitari, i mezzi di divulgazione anomali e contrari al decoro, le sponsorizzazioni, le telefonate di presentazione e le visite a domicilio non specificatamente richieste, l’utilizzazione di internet per offerta di servizi e consulenze gratuite.
Venivano consentiti seminari e convegni organizzati direttamente dagli studi professionali, previa approvazione dal Consiglio dell’Ordine, nonché la consulenza attraverso la rete internet e il sito web, nel rispetto di taluni obblighi.
La norma deontologia stabiliva, inoltre, il divieto di diffondere informazioni relative ai dati di terzi, ai nomi dei clienti, alle specializzazioni, ai prezzi delle prestazioni, alle percentuali di cause vinte o ai meriti, al fatturato individuale o dello studio, alle promesse di recupero.
All’Antitrust non è bastato. Sul presupposto che solo l’abolizione i ogni divieto pubblicitario fosse in grado di consentire ai clienti di orientarsi nella scelta dei servizi di cui necessitano con maggior consapevolezza, ha quindi sollecitato il CNF a un’ulteriore modifiche, in parte ottenute.
Il Consiglio Nazionale Forense ha dapprima (delibera 27 gennaio 2006) previsto la possibilità di fornire informazioni sui titoli conseguiti e sui diplomi di specializzazione, ed introdotto l’art. 17 bis, rubricato “Mezzi di informazione consentiti“, diretto a disciplinare le modalità con cui le informazioni potevano essere fornite.
Il Decreto Bersani ha sancito l’abrogazione delle disposizioni prevedenti “il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine” (il decreto legge nella versione originaria, anche i tal caso è stato mitigato in sede di conversione, in quanto non attribuiva agli ordini professionali alcun potere di verifica sulla trasparenza e veridicità delle pubblicità).
Conseguentemente il CNF ha rielaborato l’intera materia (delibera del 14 dicembre 2006), rivedendo completamente la logica della normativa, affermando il generale diritto in capo all’avvocato di diffondere informazioni relative ai propri servizi, con i mezzi più idonei, salva la coerenza del contenuto e della forma scelti con la finalità della tutela dell’affidamento della collettività e la corrispondenza ai criteri di trasparenza e veridicità. In tal modo il fondamento della pubblicità e dei suoi limiti non è più solo rinvenibile nei principi dell’onore e del decoro, ma altresì nelle protezione di un interesse pubblico riferibile alla generalità indistinta dei cittadini.
I commi secondo e terzo dell’art. 17, che prevedevano rispettivamente il divieto di offrire le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico e il divieto di offrire, in assenza di specifica richiesta, una prestazione ad una persona determinata, sono confluiti nell’art. 19 (“Divieto di accaparramento di clientela”).
L’art. 17 bis, non più rubricato “Mezzi di informazione consentiti”, bensì “Modalità dell’informazione”, non contemplava più le limitazioni relative ai mezzi pubblicitari utilizzabili, ma indicava le informazioni che il professionista aveva l’obbligo di fornire al cliente (sede, recapiti, Ordine di iscrizione, luogo di esercizio, titoli, specializzazioni, settori di attività prevalente, struttura e composizione dello studio).
Risultavano invece facoltative altre informazioni come quelle relative a titoli accademici, diplomi di specializzazione, l’abilitazione all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori, lingue conosciute, logo dello studio).
L’Antitrust ha ritenuto eccessivamente stringente la disciplina relativa alla pubblicità, per quel che attiene al divieto di pubblicizzare i compensi e di svolgere pubblicità comparativa, nonché alla previsione di un potere di controllo dei contenuti dei messaggi da diffondere sul web e del potere di autorizzare, in via preventiva, la possibilità per gli iscritti di tenere o curare rubriche su organi di stampa (art. 18, terzo comma).
Nel mese di giugno 2008, il CNF ha introdotto ulteriori modifiche (art. 17 bis: previsione dell’obbligo di previa tempestiva comunicazione del contenuto del sito web anziché l’obbligo di previa comunicazione; art. 18: obbligo di previa comunicazione, anziché il parere favorevole dell’Ordine, per la partecipazione a rubriche fisse, trasmissioni televisive o radiofoniche o presso organi di stampa).
Il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137 (Riforma degli ordinamenti professionali) ha consentito ai professionisti di svolgere con ogni mezzo pubblicità informativa, avente ad oggetto anche l’attività professionale esercitata, i titoli, le specializzazioni del professionista, l’organizzazione dello studio, nonché i compensi praticati, richiedendo che l’informazione sia funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non lesiva del segreto professionale e non equivoca, ingannevole o denigratoria.
La riforma dell’ordinamento forense del 2012 ha mantenuto la possibilità per l’avvocato di avvalersi in via generale del mezzo pubblicitario “sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti” (art. 10), ma è stata, tuttavia, omessa la citazione, tra le informazioni ammesse, di quelle relative al compenso. Peraltro, in assenza di un espresso divieto si ritiene tale informazione inclusa fra quelle consentite. Anche tale disciplina prevede che le informazioni diffuse, con qualsiasi mezzo, anche informatico, debbano risultare trasparenti, veritiere, corrette e non equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive.
La disposizione maggiormente restrittiva della nuova disciplina è invece rinvenibile nell’espresso divieto per i professionisti forensi di effettuare pubblicità comparativa.
Principi ribaditi nel vigente Codice Deontologico, che il 31 gennaio 2014 ha semplificato la materia, confermando all’art. 35 (“Dovere di corretta informazione”) la possibilità in via generale di fornire informazioni sulla attività, specificando quelle che l’avvocato deve in ogni caso fornire (titolo professionale, denominazione dello studio e Ordine di appartenenza) e alcune limitazioni (ad esempio utilizzabilità del titolo accademico solo se in materie giuridiche), imponendo il rispetto dei principi di dignità e decoro della professione e “i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale”, mentre nell’art. 37 è confluito il “Divieto di accaparramento di clientela”.
6.c. Società fra professionisti
L’esercizio delle professioni intellettuali “protette” in forma societaria era vietato dall’art. 2 della Legge 1815/39, in quanto ritenuto contrario a due principi fondamentali: il carattere rigorosamente personale della prestazione professionale ex art. 2232 c.c., il compenso adeguato al “decoro professionale” del professionista ex art. 2233 c.c..
Si intendeva così garantire un collegamento diretto tra professionista e l’esecuzione della prestazione, a garanzia per il cliente, che entrava in rapporto esclusivamente con una determinata persona fisica, iscritta in un albo professionale in seguito a un rigoroso controllo della sua preparazione.
L’unica forma associativa consentita era quella dello “studio associato” tra soggetti regolarmente iscritti a un albo professionale, comprendente nella denominazione il nome e il cognome di tutti gli associati (art. 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815), con prestazione riferibile sempre al singolo professionista, e non allo studio, che non ha personalità giuridica.
L’art. 24 della prima legge Bersani (Legge 7 agosto 1997, n. 266) aveva abrogato il divieto di società tra professionisti, prevedendo tuttavia norme di attuazione di fatto mai emanate.
La liberalizzazione dell’esercizio delle attività professionale sotto forma di società di persone è stata ciononostante operativa, seppur con qualche incertezza di applicazione, mentre alcune categorie professionali come quella forense, sono state oggetto di disciplina specifica.
Il riferimento è al Decreto Legislativo 96/2001, in base al quale la Società Tra Avvocati (STA) è regolata dalle norme sulle società in nome collettivo (art. 16, comma 2), con esclusione di ogni possibilità di costituirne sotto forma di società di capitali, e con partecipazione limitata solo a professionisti in possesso del titolo di avvocato.
Rispondendo alle sollecitazioni dell’Antitrust, il secondo intervento normativo targato Bersani (Decreto Legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge 4 agosto 2006, n. 248) è stato più incisivo, abrogando per tutte le professioni le disposizioni che prevedevano:
“il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità“.
Si eliminava così, come si legge nella relazione di accompagnamento, “l‘anacronistico divieto di erogare servizi professionali utilizzando la forma della società di persone o quella della associazione tra privati, divieto che oltre tutto penalizza i professionisti italiani che sono costretti a subire passivamente la concorrenza di società di professionisti provenienti da altri Paesi europei”.
Il Decreto Bersani non interveniva però sul divieto di costituire società professionali sotto forma di società di capitali, principio che risponde alla preoccupazione legittima che la partecipazione del capitale in siffatte società ne possa compromettere la trasparenza e l’indipendenza professionale.
Sempre sollecitato dall’Antitrust, il Legislatore è intervenuto nuovamente con la Legge di stabilità per il 2012 (art. 10 Legge 12 novembre 2011, n. 183 e successivo decreto attuativo del Ministero della Giustizia 8 febbraio 2013, n. 34) per consentire ai professionisti iscritti agli ordini di esercitare la loro attività anche secondo uno dei modelli di forma societaria previsti dai titoli V e VI del libro V del codice civile, quindi anche attraverso la società di capitali ed in forma multidisciplinare, seppur limitando la partecipazione di ogni professionista a una sola società e imponendo di sottolinearne la natura nella ragione sociale (con l’espressione “Società Tra Professionisti” – STP).
Possono essere ammessi in qualità di soci, pertanto, anche soggetti non professionisti, esclusivamente in relazione alla esecuzione di prestazioni tecniche ovvero per finalità di investimento, il cui numero e partecipazione al capitale sociale non deve superare 1/3, pena lo scioglimento della società e la cancellazione dall’albo.
Il CNF ha contestato tuttavia l’applicabilità agli avvocati di tale normativa, rilevando che la legge di Riforma dell’ordinamento forense del 2012 (Legge 31 dicembre 2012, n. 247, art. 5) aveva configurato per gli avvocati un tipo societario speciale, affidando al Governo il compito di adottare un decreto legislativo delegato per le Società Tra Avvocati prevedendo, in particolare, che tutti i soci dovessero essere avvocati.
È invece recentemente intervenuto il DDL Concorrenza 2017 (Legge 124 del 4 agosto 2017) a ricalcare la disciplina generale, prevedendo che la professione forense possa essere esercitata anche attraverso società di capitali, cui possono partecipare (fino a un terzo) soci non professionisti. I soci dovranno essere avvocati iscritti all’albo per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, e anche i componenti dell’organo di gestione dovranno essere per la maggioranza avvocati e comunque mai estranei alla compagine sociale. Resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale.
È stato poi abrogato il divieto per gli avvocati di partecipare a più associazioni, previsto dalla riforma forense (legge 247/2012).
Con ciò dimostrando ancora una volta quanto fosse effimera la soddisfazione della categoria per i “successi” ottenuti con la nuova legge professionale che, alla luce degli orientamenti e del diritto europeo, non potranno che essere ulteriormente rivisti.
PARTE SECONDA
1. Considerazioni
Da quanto illustrato emerge come i liberi professionisti, e gli avvocati in particolar modo, siano stati colpiti in vario modo dal processo di liberalizzazione di matrice europea, a tutto vantaggio del capitale.
Tre le aggressioni più importanti.
a. In primo luogo, i liberi professionisti sono stati colpiti dalla abolizione dei minimi tariffari. La ideologia comunemente definita “mercatista, globalista e concorrenzialista” sospinta dall’Unione europea ha sostenuto che la riforma era necessaria per affermare la regola del libero gioco della domanda e dell’offerta: per introdurre la concorrenza in un settore protetto. Complessivamente, asserivano i sostenitori del pensiero unico, introdotta la riforma legislativa, sarebbero diminuiti i compensi percepiti dai liberi professionisti e ciò a tutto vantaggio dei “clienti” e quindi anche dei “consumatori”. Qui l’obiettivo di impoverire i liberi professionisti era dichiarato ed esplicito. L’impoverimento avrebbe dovuto consistere in tutta quella parte dei compensi che i professionisti riuscivano fino ad allora a percepire per mezzo dei minimi tariffari, i quali li sottraevano (secondo l’ideologia concorrenzialista) al libero gioco della domanda e dell’offerta.
La premessa del ragionamento seguito dai sostenitori del pensiero unico era falsa e perciò le conseguenze della modifica legislativa sono state diverse da quelle “previste” (in buona o mala fede). Non è mai accaduto che un comune cittadino, anche nella qualità di piccolo imprenditore o commerciante, si sia presentato da un libero professionista comportandosi nel modo (falsamente) presupposto dai teorici. Il comune cittadino, che magari si presenta dall’avvocato per sottoporgli casi di modesto valore, non vuole comportarsi come presuppongono i “concorrenzialisti”; non ama comportarsi in quel modo; non lo reputa giusto né, soprattutto, opportuno, perché sa che se si reca da tre avvocati per chiedere i “prezzi” e li fa lavorare (tra appuntamenti, colloqui e studio preliminare del caso) anche soltanto sei ore ciascuno, deve intanto retribuirli per le (almeno) diciotto ore di lavoro. Il cittadino è un uomo serio, dotato di moralità e senso di responsabilità e rispetto per il lavoro altrui (al più è disonesto perché non paga); non è lo stupido, arido, aziendalistico, miserabile homo oeconomicus che i concorrenzialisti economicisti credono che sia.
Tant’è che sono stati richiesti e introdotti mutamenti legislativi volti a trasformarne il comportamento e le abitudini.
Se effettivamente il comune cittadino non ha approfittato dell’abolizione dei minimi tariffari – non avrebbe saputo, non avrebbe voluto e non ne avrebbe avuto il potere – al contrario, le grandi imprese capitalistiche (assicurazioni, banche e multinazionali di vario genere) avendone il potere, hanno approfittato della nuova disciplina. Prima erano costrette a stipulare convenzioni con i professionisti che prevedessero il pagamento dei minimi tariffari. Con le riforme hanno iniziato a stipulare convenzioni che prevedono il pagamento di una percentuale dei minimi, per esempio il 60% (ma anche meno). Con la conseguenza che il piccolo professionista che fatturava diecimila euro l’anno ad una grande impresa, ne ha persi 4.000 – quattromila euro trasferiti dal lavoro del professionista al capitale – e il grande professionista che ne fatturava centomila ne ha persi 40.000 – quarantamila euro trasferiti dal lavoro del professionista al capitale. Soltanto le grandi imprese capitalistiche (e invero anche le pubbliche amministrazioni), le quali conferiscono più incarichi annuali al professionista, e quindi possono approfittare del potere di ricatto fondato su questa quantità – che consente al professionista di lavorare al di sotto dei minimi, facendo affidamento su un certo flusso di denaro che assicuri il pagamento delle spese dello studio – hanno beneficiato dell’abolizione del divieto di pattuire compensi inferiori ai minimi tariffari. Si è trattato, dunque, di un puro trasferimento di ricchezza dal lavoro (autonomo) al capitale.
Perdipiù si è tentato ipocritamente di “compensare” gli avvocati con la possibilità di stipulare un patto di quota lite – vietato per duemila anni – che essi avrebbero avuto il potere di imporre ai più poveri dei comuni cittadini, ma non certo alle grandi imprese capitalistiche. Alla fine coloro che ci hanno rimesso sono stati proprio i comuni cittadini (e segnatamente i più poveri tra di essi), ossia coloro che secondo l’ideologia e la pseudoscienza mercatista, avrebbero dovuto trarre vantaggio dalla riforma legislativa.
b. In secondo luogo i liberi professionisti sono stati colpiti dal fatto che il Legislatore non ha difeso e anzi ha lasciato aggredire ed eludere il principio del carattere personalissimo della prestazione professionale. L’elusione è avvenuta a causa della diffusione dei grandi studi professionali di stampo angloamericano. Dispone, infatti, l’art. 2232 c.c., sotto la rubrica “Esecuzione dell’opera” che “Il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto. Può tuttavia valersi, sotto la propria direzione e responsabilità di sostituti ed ausiliari, se la collaborazione di altri è consentita dal contratto o dagli usi e non è incompatibile con l’oggetto della prestazione”.
Orbene, nessuna tenace lotta è stata condotta contro gli studi professionali angloamericani o di stampo angloamericano, che si sono ampiamente diffusi e nei quali centinaia di “liberi professionisti” sono di fatto “assunti” (sono in realtà lavoratori subordinati con ampi tratti di lavoro servile), per lavorare mediamente (minimo) settanta ore a settimana, da pochi “soci”, i quali, già a causa dell’enorme numero dei “dipendenti” e degli incarichi, si valgono di sostituti e ausiliari che, esattamente come avviene nelle grandi imprese, operano sotto la direzione di altri “professionisti” che, a loro volta, rispondono nei confronti di alcuni “caposettore”, i quali (al più) operano sotto la direzione dei soci (quando questi ultimi non svolgono soltanto l’attività di pubbliche relazioni).
Questi studi di stampo angloamericano sono fondati essenzialmente sul capitale – e infatti implicano enormi investimenti di capitale (gli studi sovente acquistano, sia pure per interposta persona, immobili che valgono decine di milioni di euro nel centro delle grandi città italiane) – e su quella forma specifica di capitale che è costituita dalle pubbliche relazioni (è la legislazione o l’orientamento giurisprudenziale che ammette i grandi studi di stampo angloamericano a “trasformare” in capitale le pubbliche relazioni).
Il principio del carattere personalissimo delle prestazioni professionali implica che se un libero professionista ha talmente tante capacità nelle pubbliche relazioni da riuscire ad ottenere mille incarichi annuali, novecento li deve rifiutare, perché è impossibile che gli incarichi vengano svolti direttamente da sé medesimo o dagli ausiliari sotto la sua personale direzione. Invece, di fatto, si è consentito di aggirare il divieto ammettendo la costituzione di quelle che, al di là della forma, sono società di capitali che svolgono attività professionale mediante “professionisti dipendenti” (anche se formalmente autonomi), sebbene, talvolta, ben pagati. È agevole concludere che, ammettendo la possibilità di costituire validamente questi grandi studi professionali, si trasferisce ricchezza dal lavoro (dei professionisti dipendenti e dei professionisti che non operano nella “forma” del grande studio, i quali, se non esistessero i grandi studi professionali, avrebbero un maggior numero di incarichi) al capitale (appartenente a coloro che, avendo molte relazioni importanti e soldi da investire e magari ignorando completamente i principi essenziali della professione, sono “soci” del grande studio professionale).
Ed è appena il caso di osservare che i professionisti formalmente autonomi sono vincolati da un rapporto che ha tutti i lati negativi del rapporto di lavoro subordinato (in particolare la specializzazione) e non ne ha invece le tutele (orari anche doppi rispetto al lavoratore subordinato; nessuna garanzia contro il “licenziamento”, che ovviamente non sarà denominato così ma che è un vero e proprio licenziamento; e così via).
Anche in questo caso il lavoro è stato colpito lasciando libero di operare il principio della libera concorrenza, che è stata intesa come possibile concorrenza del capitale – che si avvale di lavoro subordinato (formalmente libero) – al lavoro autonomo.
Sotto questo profilo, la progressiva apertura del Legislatore all’esercizio della professione in forma societaria e all’ingresso di soci di capitale, rischia di essere devastante. Inutile illudersi che il limiti imposti dalla normativa alla partecipazione degli investitori possano costituire un efficace argine: l’evoluzione normativa e la prassi dimostrano che, una volta affermati un principio e una tendenza, il Legislatore finisce per essere restio al respingimento delle richieste “modernizzatici” del grande capitale.
Con l’ovvia conseguenza di minare ulteriormente il fondamentale principio di autonomia e indipendenza dell’avvocato, che avrà anch’esso difficoltà sempre maggiori ad adempiere alla propria funzione sociale di garanzia della tutela dei più deboli, laddove tali istanze si trovino a scontrarsi con interessi forti.
L’eliminazione del divieto di partecipare a più associazioni o società professionali, peraltro, favorisce il conflitto di interessi, mentre l’ingresso di meri finanziatori che, con il 30%, possono controllare le società, è un regalo ai grandi investitori, considerato che i settori professionali, con i loro 196 miliardi di euro di volume d’affari, fanno gola alla grande finanza che da anni cerca di entrare in quello che per i professionisti è un lavoro mentre per gli investitori è un mercato.
Con il rischio collaterale di generare pratiche di sollecitazione del contenzioso di massa in particolari ambiti (come quello risarcitorio), sul modello statunitense, indipendentemente dalle effettive ragioni di tutela della singola fattispecie e dalle possibilità di esito favorevole della controversia.
c. Infine, i liberi professionisti (e i cittadini più poveri e meno in grado di scegliere i professionisti che forniscono un servizio di qualità) sono stati colpiti dalla ideologia della concorrenza in un terzo modo: attraverso l’abbassamento dei criteri di valutazione degli aspiranti professionisti negli esami di abilitazione, che ha consentito a migliaia di persone di esercitare la professione dopo aver superato un facile esame di abilitazione (non si intende qui entrare nel merito delle note distorsioni che inquinano la fase di valutazione delle prove scritte, che non sempre garantisce la selezione di chi ha svolto un serio ed effettivo praticantato) e attraverso la caduta del divieto di pubblicità.
L’ideologia concorrenzialista ha tuonato contro la stessa esistenza di esami di abilitazione (ma c’è fortunatamente un articolo della Costituzione che li prevede: art. 33, comma 5) e a favore dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio. È il “Mercato” che dovrebbe decidere chi può e chi non può fare il libero professionista; ed è il “Mercato” che dovrebbe decidere se un professionista deve avere molti o pochi clienti.
Orbene, le conseguenze di un numero elevato di professionisti e della mancanza di un severo esame volto ad accertare la preparazione dei medesimi – le conseguenze vere, non quelle asserite dai sostenitori della pseudoteoria mercatista – sono le seguenti: i) abbassamento del livello medio delle prestazioni professionali; ii) riduzione dei compensi dei professionisti; iii) crescita delle spese, perché nel mercato aperto delle professioni, non diversamente dal mercato aperto dei beni e degli altri servizi, l’immagine diventa importante.
E immagine significa costi, il che rende evidente, ancora una volta, come le pressioni verso lo sdoganamento dello strumento pubblicitario nelle professioni esprimano esigenze non di categoria o di tutela dei “consumatori”, bensì dei soli professionisti che quei costi possono permettersi, secondo un’ottica che mal cela il fine esclusivo di conquista di sempre maggiori fette di mercato.
In tale contesto mercatista l’affermazione dei principi di dignità e decoro della professione rischia di rimanere lettera morta, mentre è concreto il rischio di introiettare modelli pubblicitari sempre più spregiudicati, sul modello statunitense.
Del resto anche la distinzione fra pubblicità lecita e pubblicità ingannevole può risultare spesso labile, essendo connaturata allo strumento promozionale commerciale per eccellenza la tendenza ad una non fedele rappresentazione della realtà.
Varcato il confine fra informazione circa le caratteristiche dell’attività professionale e pubblicità commerciale, risulta difficile porre argini e le resistenze del Consiglio Nazionale Forense a consentire la pubblicità sui compensi, ad esempio, sono destinate all’insuccesso poiché il quadro europeo pone l’economia e la concorrenza al centro di ogni valutazione, e il principale dato economico è proprio il prezzo delle prestazioni, la cui pubblicità, in un contesto concorrenziale, difficilmente può essere limitata.
Tant’è che il Consiglio di Stato (Sezione Sesta, Sentenza 22 marzo 2016, n. 1164) ha recentemente confermato la sanzione di € 912.536,40 inflitta al CNF dall’AGCM (in un primo momento parzialmente annullata dal TAR) per aver adottato due decisioni ritenute in contrasto con i Trattati UE e la disciplina della concorrenza.
Nello specifico il CNF avrebbe illegittimamente censurato la pubblicità svolta da alcuni avvocati mediante il canale di diffusione “Amica Card”(che garantiva, previa iscrizione a pagamento sia per i professionisti che per i clienti) un sistema di sconti e, in secondo luogo, avrebbe reintrodotto surrettiziamente la vincolatività dei minimi tariffari, con circolare 22 del 2006 nella quale segnalava che, nonostante il Decreto Bersani, la conclusione di accordi prevedenti un compenso inferiore al minimo tariffario, pur legittimi civilisticamente, avrebbe potuto risultare in contrasto il Codice Deontologico “in quanto il compenso irrisorio, non adeguato, al di sotto della soglia ritenuta minima, lede la dignità dell’avvocato e si discosta dall’art. 36 Cost.”.
Il Consiglio di Stato, richiamando la qualificazione di matrice europea del Consiglio Nazionale Forense quale “associazione di imprese” e, quindi, l’assoggettabilità del medesimo alle previsioni di cui all’art. 101 TFUE, nonché la perentorietà dei principi sanciti con la Manovra bis del 2011 (il citato decreto legge 13 agosto 2011, n. 138), per cui “gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza”, e dal Decreto Bersani, ha ritenuto pienamente legittima la sanzione inflitta dall’Antitrust.
È la riprova del fatto che, sino a quando il Legislatore e i giudizi nazionali, ma anche l’avvocatura, continueranno ad assecondare pedissequamente la visione e la normativa sovranazionale sulla concorrenza, il decoro e la dignità della professione forense resteranno mere enunciazioni di principio.
2. PROPOSTE
Alla luce delle ampie considerazioni che precedono è evidente come, senza una decisa e coraggiosa inversione di tendenza che parta dal totale rifiuto (effettivo e non di mera facciata) della mercificazione della professione legale e della sua assimilazione nelle dinamiche della concorrenza, ogni tentativo volto a rivendicare e difendere l’indipendenza e autonomia dell’avvocatura, e con esse la sua sopravvivenza come libera professione intellettuale, sarà destinato a naufragare.
I valori fondanti il nostro ordinamento costituzionale, che l’avvocatura è chiamata ad attuare, patiscono la assoluta incompatibilità con le dinamiche della globalizzazione e con i principi del libero mercato sui quali è stata edificata l’Unione europea.
La peculiarità e la ricchezza dell’ordinamento istituzionale ed economico del Paese è sempre stata la dimensione medio-piccola, finanche territoriale, sia nell’imprenditoria che nel lavoro autonomo, che per decenni ha potuto contare su un ruolo attivo dello Stato quale motore dell’economia e creatore di ricchezza diffusa.
Nessun beneficio reale invece le nostre imprese e i lavoratori, sia subordinati che autonomi, hanno tratto dall’apertura delle frontiere, dalle spinte concorrenziali e dalla tendenza al “gigantismo”, indotte dal fallace assunto secondo cui per competere bisogna necessariamente ampliare le dimensioni della propria attività.
Gli stessi utenti finali, oggi definiti genericamente e volgarmente “consumatori”, hanno fruito di ben pochi vantaggi indotti dalla concorrenza, che non ha mantenuto le promesse in termini di riduzione del prezzo di prodotti e servizi, ma soprattutto ne ha spesso compromesso la qualità. I consumatori, perdipiù, hanno subito l’effetto delle concentrazioni societarie e dello spostamento su scala internazionale dei centri di produzione, che in molti settori li ha lasciati privi di referenti territoriali con i quali rapportarsi e far valere i propri diritti, costringendoli a fare i conti con inefficienti e spesso fastidiosi call center di società multinazionali.
Il rischio di una tale deriva, purtroppo già avviata, nelle attività professionali, è assolutamente da scongiurare.
Un percorso riformatore votato alla eliminazione dei sedimenti depositati della visione mercatista, dovrà quindi partire dalla negazione assoluta dell’assimilazione della professione legale all’impresa commerciale, riaffermandone con forza la dignità e il decoro, ma insieme ad esse anche la responsabilità sociale, della quale gli avvocati per primi dovranno essere consapevoli e rispettosi.
La legge professionale del 2012, che ha ribadito la specificità della professione forense attraverso una disciplina organica, è certamente un buon punto di partenza, dal quale andrà tuttavia espunta ogni adesione, esplicita o implicita, alla logica concorrenziale e ogni richiamo alla normativa europea.
Una seria proposta di riforma non potrà quindi che procedere seguendo 2 linee fondamentali, che dovranno riguardare:
1) l’accesso alla professione;
2) l’esercizio dell’attività in ragione della specificità della professione forense.
1) Sotto il primo profilo, dovrà innanzitutto essere garantita l’effettività e proficuità del tirocinio professionale. La vigente legge professionale ha opportunamente previsto il limite massimo di 3 praticanti per avvocato, che andrà mantenuto ed applicato rigorosamente.
Di dubbia efficacia sembra invece la mera facoltà di riconoscere al praticante un’indennità o un compenso per l’attività svolta per conto dello studio, commisurati all’effettivo apporto professionale. Il riconoscimento economico dell’apporto del praticante dovrà divenire invece obbligatorio, prevedendosi soglie minime di compenso nel rispetto dell’art. 36 della Costituzione, anche attraverso adeguati piani di inserimento professionale finanziati dallo Stato, richiedendosi in tal modo alla categoria forense un impegno concreto per scongiurare il fenomeno della pratica fittizia e stimolando, attraverso il proficuo inserimento del praticante nell’attività dello studio, una efficace trasmissione dei valori e conoscenze peculiari della professione.
Dovrà inoltre essere salvaguardata la necessità di svolgere un esame di abilitazione come condizione per l’esercizio dell’attività professionale, punto di equilibro fra le esigenze di autonomia dell’ordinamento forense ed il compito di vigilanza dello Stato, consacrato nell’art. 33, comma 5, della nostra Costituzione.
L’esame di Stato dovrà essere sufficientemente severo, ma esclusivamente nei limiti in cui ciò sia necessario a consentire l’accesso alla professione a chi abbia acquisito adeguata preparazione ed efficacemente svolto il tirocinio.
2) Per ciò che concerne più specificamente l’attività professionale, dovrà innanzitutto essere reintrodotta l’inderogabilità dei minimi tariffari, quale presidio indispensabile, come dimostrato dalla prassi degli ultimi anni, per garantire la dignità e l’indipendenza della professione e dovrà essere salvaguardato il divieto di patto di quota lite.
Sarà inoltre eliminato l’assurdo obbligo di preventivo, incompatibile con la tipologia delle prestazioni normalmente richieste all’avvocato, il cui impegno professionale, per durata e mole, non è preventivabile al momento del conferimento dell’incarico ed è strettamente dipendente da variabili, spesso processuali, non individuabili a priori dal professionista.
Quanto all’utilizzo dello strumento pubblicitario, è innegabile che l’evoluzione tecnologica abbia inciso profondamente in tale ambito.
Se è forse impensabile tornare all’assoluto divieto originario, dovrà in ogni caso essere mantenuta la distinzione, anche terminologica, fra pubblicità con finalità promozionale, da bandire, e informazioni sull’attività professionale, consentite ma con finalità meramente illustrative, vietandosi quelle autocelebrative, tenendo fermi i caratteri della verità e della stretta rispondenza alla dignità e decoro della professione, escludendosi ogni possibilità di effettuare qualsiasi tipo di campagna promozionale e, in modo particolare, la possibilità di fornire indicazioni sui compensi, comparazioni con i colleghi e attività di accaparramento di clientela.
Dovranno infine essere rigorosamente tutelati il carattere personale della prestazione professionale e il rapporto diretto e fiduciario con il cliente.
Sarà quindi vietato l’esercizio della professione in forma societaria, che non risponde a un reale interesse né dell’avvocatura, né della clientela, bensì alle smanie di profitto del capitale.
L’avvocatura ha infatti sostanzialmente ignorato lo strumento societario, dimostrando che esso non risponde a un’esigenza di migliore esercizio dell’attività professionale.
Il cliente ha invece estremo bisogno di un sistema giudiziario efficiente e con meno ostacoli, nonché di un avvocatura preparata, deontologicamente impeccabile e realmente indipendente, con la quale recuperare e valorizzare il rapporto fiduciario, unica garanzia che consente al cittadino di poter affrontare con maggiore serenità le avversità della vita alle quali l’avvocato è chiamato a fornire soluzione.
Sarà quindi necessaria una riforma dell’ordinamento giudiziario (alla quale verrà dedicato uno specifico documento) che dovrà segnare anch’essa una decisa inversione di tendenza volta a contrastare il fenomeno, in atto, di svilimento dell’avvocatura nel processo e di sostanziale privatizzazione della giustizia.
In relazione al primo aspetto sono da censurare i recenti provvedimenti mirati alla compressione di facoltà processuali, all’introduzione di severe decadenze e sanzioni per inesatta applicazione delle nuove e spesso schizofreniche regole, alla limitazione del contenuto degli scritti difensivi, alla riduzione della “sospensione feriale dei termini processuali”.
Proprio la riduzione di un terzo (operata con Decreto Legge 132 del 2014, convertito con Legge 10 novembre 2014, n. 162) del predetto periodo di sospensione (dal 1 al 31 agosto, anziché dal 1 agosto al 15 settembre) è emblematica dell’atteggiamento del Legislatore: propagandata come un provvedimento volto all’accelerazione dei processi e allo smaltimento degli arretrati (motivazione già di per sé risibile), è stata spacciata mediaticamente e politicamente come l’eliminazione di un privilegio di magistrati e di avvocati, accusati di godere di troppe ferie.
Ovviamente la realtà era ed è ben diversa, atteso che la sospensione delle udienze e dei termini ordinari non comporta chiusura degli studi legali e degli uffici giudiziari, né esenzione dall’attività di elaborazione e redazione degli atti per far fronte alle scadenze, o di preparazione delle udienze fissate a ridosso del periodo feriale.
In buona sostanza il provvedimento, rivelatosi ovviamente ininfluente sulla durata dei processi, ha solo anticipato al mese di agosto tutta quell’attività che normalmente veniva svolta nelle prime due settimane di settembre, con grande pregiudizio per avvocati e magistrati, ma anche per i cittadini interessati da procedimenti le cui incombenze ricadano in quel periodo: sarà pertanto da revocare.
Quanto al secondo aspetto, l’attuazione dell’art. 24 della Costituzione non potrà prescindere dalla effettiva assicurazione della possibilità di agire in giudizio dinanzi al giudice naturale precostituito per legge e dalla salvaguardia della qualità delle decisioni. Gli strumenti c.d. deflattivi del contenzioso introdotti (come la mediazione e la negoziazione assistita obbligatorie) costituiscono un oneroso ostacolo all’attuazione del precetto costituzionale. D’altro canto i costi di accesso alla giustizia e i lunghi tempi necessari ad ottenere una decisione, contribuiscono a scoraggiare il cittadino, indotto a rinunciare alla tutela: è impensabile porre rimedio a tale stato di cose, come tenta di fare l’attuale Legislatore, falciando i contenziosi attraverso balzelli crescenti o, addirittura, mediante la limitazione di talune facoltà processuali e possibilità di impugnazione che, inevitabilmente, finiscono per sacrificare l’effettività della giurisdizione e mortificare l’esigenza di giustizia.
Il percorso di riforma, pertanto, non potrà che passare attraverso un piano di ingenti investimenti pubblici, l’eliminazione delle barriere che impediscono o rallentano l’accesso del cittadino al processo e, quindi, la progressiva riduzione (e tendenziale eliminazione) di quelle spese vive (come contributi di iscrizione a ruolo, imposte di bollo, ecc.) che pregiudicano l’effettività della tutela dei diritti in sede giurisdizionale, la salvaguardia della giustizia di prossimità messa a rischio dai tagli dei Tribunali “minori”, l’implementazione sia del numero dei magistrati che del personale ausiliario.
In tale ottica dovrà quindi essere valutata la possibilità, quantomeno in una fase transitoria ed anche al fine di sfoltire l’eccessivo numero di professionisti, di consentire agli avvocati che non intendano proseguire nella libera professione (come dimostrato dalla recente massiccia partecipazione al concorso indetto per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari) di valorizzare le competenze acquisite, ponendole al servizio della pubblica amministrazione, in particolare introducendo quale requisito preferenziale nei bandi per i pubblici concorsi inerenti l’amministrazione della giustizia o affini, il conseguimento dell’abilitazione e l’aver esercitato la professione per un adeguato numero di anni.
Fondamentale, per realizzare tutto questo, sarà una costante e crescente opera di stimolo, che il Fronte Sovranista Italiano intende svolgere, nei confronti di una categoria fortemente demotivata, affinché possa riscoprire nella propria storia il proprio destino e, quindi, mettere il sapere, la competenza e i valori dei quali è depositaria, al servizio non solo della propria attività professionale, ma della collettività intera, fornendo un imprescindibile contributo alla rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, come richiesto dalla nostra Costituzione, ovvero da quel “pezzo di carta” la cui attuazione, ricordava il già citato padre dell’avvocatura repubblicana, Piero Calamandrei (nel celebre discorso del 1955 agli studenti milanesi), impone ai cittadini l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere le promesse in essa sancite e la propria responsabilità, perché ogni giorno “sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica”.
Lorenzo D’Onofrio per “Fronte Sovranista Italiano”
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