Il "servilismo" italiano e il '68
di Luigi Cavallaro il manifesto
I post-sessantottini non si chiedono in che modo ciò in cui hanno creduto e credono (e soprattutto ciò che hanno fatto dal 1989 a oggi) possa essere considerato la causa del declino economico e sociale di oggi. E Viale non fa eccezione
È un fatto difficilmente contestabile che, attualmente, le leve del potere dell'industria culturale stiano tutte in mano a (tardi) esponenti della «generazione ribelle», equamente distribuiti fra «destra» e «sinistra». L'editoria più importante non pubblica se non ciò che si richiama alla loro costellazione valoriale. In televisione, occupano la scena come anchor-men (o women) o come ospiti dotati di diritto di parola. Beninteso, qualche spazio letterario o qualche comparsata televisiva si concede anche agli extranei, ma a condizione che i beneficati non pretendano di obiettare all'idealismo (in senso gnoseologico) dei depositari del logos.
Dal punto di vista economico e politico la situazione non è differente. Anagraficamente parlando, infatti, le leve del comando stanno in mano ai baby-boomers: sono statisti, dirigenti d'impresa, leader sindacali et hoc genus omne. E anche qui l'accesso dei più giovani ai gradini più elevati della piramide sociale avviene rigorosamente per cooptazione: una cooptazione che, manco a dirlo, presuppone l'adesione incondizionata ai valori di riferimento dei «padri» (e delle «madri»).
Ora, il problema della generazione del '68 è che non sa spiegarsi come mai, una volta ascesa al potere economico, culturale, sociale e statuale, la nostra società abbia preso a declinare (in termini morali e sociali) e a decrescere (in termini di Pil). Non le torna, ad esempio, che i suoi figli debbano acconciarsi ad un futuro – che per molti è già presente – di precarietà lavorativa e progressiva erosione delle tutele del welfare, che diventa perfino drammatica quando si pensa che un trentenne di oggi avrà una pensione pari al 30% del suo (miserabile) reddito. Ancor meno le torna, per fare solo un altro esempio, che l'auspicato superamento delle costrizioni edipiche della «società disciplinare» si sia tradotto in un allentamento così marcato del controllo sociale diffuso che il 30% del nostro Pil è un'opera al nero. E proprio perché non ne capisce le cause, finisce col proiettarle all'esterno: «È colpa della globalizzazione», dicono Veltroni e Fassino agli operai costretti a sottoscrivere un accordo-capestro; «è colpa degli immigrati», dicono i leghisti ai cittadini del Nord che vedono crescere disoccupazione e criminalità; «è colpa delle mafie», dice Saviano a quelle residue minoranze del Mezzogiorno per le quali disoccupazione e criminalità rappresentano ancora un problema; «è colpa del capitale e dello stato», ripetono gli «antagonisti» di stretta osservanza settantasettina prima di proporci il loro ennesimo «oltre» – questi mitici «beni comuni», che non si sa bene cosa diavolo sono, ma solo ciò che non sono.
Ma la massima colpa, ai loro occhi, ce l'ha indubbiamente Berlusconi. È il premier, infatti, che ha stravolto il significato delle loro antiche parole d'ordine: è colpa sua se «vietato vietare» è stato tradotto in «laissez-faire» e «l'immaginazione al potere» è diventato il potere dell'immaginario televisivo; è colpa sua se «il personale è politico» oggi si declina attraverso Chi, Kalispera e le leggi ad personam o se l'esaltazione marcusiana di Narciso e del «libero amore» si è incarnata nel farsesco postribolo di cui raccontano i media.
Un secolo di psicoanalisi ci ha insegnato in cosa consistono i meccanismi proiettivi e soprattutto a cosa servono. Proprio per ciò, i post-sessantottini si guardano bene dal chiedersi in che modo ciò in cui hanno creduto e credono (e soprattutto ciò che hanno fatto dal 1989 a oggi) possa essere considerato come una premessa causale efficiente dell'oggi. Viale non fa eccezione: nonostante ammetta che alla deriva attuale hanno concorso «dal basso» le responsabilità di molti «arzilli vecchietti» che quarant'anni fa stavano sulle barricate, non si chiede se ciò non si debba al fatto che, nelle loro parole d'ordine, la (giusta) critica dei limiti dati abbia assunto inopinatamente la forma di una critica dei limiti in quanto tali. Non si domanda se la critica della stessa idea di «limite» non debba essere considerata all'origine della caduta del desiderio che viviamo nella nostra contemporaneità, sebbene un'ampia messe di studi abbia ormai delucidato il rapporto fra «libertà» e depressione, giungendo a configurare quest'ultima come una vera e propria contropartita della «sovranità individuale». Ancor meno si chiede quanto quella critica abbia concorso sul piano simbolico a rovesciare i rapporti di dominio e subordinazione fra stato e mercato che erano stati codificati nella nostra Costituzione formale e materiale. (Per inciso, apro l'ultimo numero di Alfabeta2 e leggo che Toni Negri proclama che «essere comunisti è essere contro lo stato». Perbacco, mi vien da dire, vuoi vedere che da trent'anni ci sono i comunisti al potere e io non me ne sono accorto?). Proprio per ciò Viale non può comprendere il nesso fra le sue rivendicazioni giovanili di «libertà» tout court, la riaffermazione del meccanismo della competitività e il servilismo diffuso come suo sbocco necessario.
Non vorrei essere frainteso. So bene che chiamare la generazione del '68 a rispondere delle miserie dell'oggi implica l'utilizzo retorico di quel medesimo meccanismo proiettivo che consente ai sessantottini di autoassolversi: Marx ci ha spiegato che ad un'osservazione più attenta si vedranno agire situazioni dove sembrava che agissero solo persone. Ma questa è giusto l'antitesi dell'idealismo: si chiama materialismo storico – e guarda caso, quella generazione «formidabile» non l'ha mai potuto soffrire.
Post scriptum. Qualche tempo fa, Ida Dominijanni (Berlusconi, il Grande Altro e il 68, 2/3/2010) e Rina Gagliardi (Non nasce nel '68 la libertà di Berlusconi, 10/3/2010) mi hanno rimproverato per aver ipotizzato questo rapporto di continuità storica tra la «libertà» invocata dai sessantottini e il liberismo economico moderno. Spero di essere perdonato se insisto, ma sono sempre più convinto che la «libertà» è una rivendicazione borghese, tipica di chi s'immagina degli individui tali per natura, che troverebbero in se stessi tutto ciò di cui abbisognano per godere se solo gli si togliessero i «lacci e lacciuoli» che di fatto glielo impediscono. Non a caso la sinistra comunista preferiva dire «liberazione»: perché quest'ultima alludeva ad un processo in cui gli individui avrebbero lentamente imparato a sottomettersi collettivamente le condizioni della propria riproduzione, riducendo mano a mano il tempo di lavoro all'uopo necessario e dedicando il tempo eccedente all'acquisizione di corrispondenti capacità. Che ciò richiedesse un certa idea dello stato, del «limite» e della necessità della relazione con l'altro mi pare evidente. Se fosse compatibile con le aspirazioni sessantottine non sono io a doverlo dimostrare: per me valgono le dure repliche della storia.
E tuttavia le aspirazioni sessantottine avevano senza dubbio un senso, nella società che andava configurandosi in un benessere fino ad allora sconosciuto.
Non è che il respiro della storia sia un po' più lungo dello sguardo che noi riusciamo a dare standoci immersi?
Laddove agiscono situazioni, sono in primo luogo situazioni economiche. Le problematiche sociali, anche se a prima vista possono apparire primarie, sono solo variabili dipendenti.
Senza dubbio, tutte le tue osservazioni sono ineccepibili.
Restano due fatti: 1) che l'emancipazione delle masse è sempre avvenuta introducendo nuovi doveri (altrui). Così ci si sottraeva dai poteri (mi permetto di rinviare ai commenti al mio articolo: Note per un programma di politica economica e morale, pubblicato qualche settimana fa; 2) che la libertà, rivendicata in ambito familiare, è divenuta libertà tout court. Francamente questa libertà totale, con la sola eccezione della libertà totale d'impresa, sembra molto incoerente. Anche in ambito familiare, prima ci si liberava. Quando la libertà era limitata, era possibile la "liberazione". Ora che la libertà è illimitata, non vi può essere liberazione. Io preferisco un (auto)liberato a un libero. Anche perché più osservo e più mi accorgo che coloro che nascono liberi in realtà sono schiavi.
In ogni caso, mi sembra giunto il tempo di osservare i fenomeni nella loro complessità, compresi gli esiti inaspettati. Il singolare accordo che ho, pressoché su tutte le questioni sulle quali si esprime, con Luigi Cavallaro mi ha spinto a pubblicare l'articolo.
Ciao e grazie dell'intervento
Apprezzo moltissimo i tuoi post e li condivido molto. Al punto che avendo scoperto questo sito da poco sono andato a rileggermi quelli dietro, e da questi ho rafforzato l'apprezzamento.
Condivido anche quindi la logica della riflessione di Cavallaro. E' molto che rifletto su questo paradosso illustrato nell'articolo. Aggiungerei anche che il femminismo ha "anche" prodotto il sottoderivato della società delle escort; che la garanzie dello statuto dei lavoratori hanno anche prodotto le burocrazie sindacali… ecc ecc
più che una riflessione politica questo paradosso però mi suscita una riflessione sulla natura dell'uomo, o meglio degli uomini, nelle direzioni dominanti che prende il loro agire…
siamo come lemming purtroppo.
In parte è la natura degli uomini. E in parte è la natura degli italiani. Almeno su questa seconda natura è possibile incidere. Si tratta tuttavia di processi storici molto lunghi. E soprattutto è necessaria una classe dirigente che le condizioni storiche fanno nascere una volta al secolo.
In ogni caso a me è almeno chiara la direzione che si deve perseguire. Siamo nell'epoca dei profeti? Oppure una grave crisi o il crollo cambierebbero tutte le carte in tavola e darebbero un'accellerazione ai processi? Per ora, l'importante è che si parli a coloro che si schierano a sinistra e si mostrino le contraddizioni in cui cadono. Una certa parte dei militanti di sinistra è recuperabile, se si comincia a discutere di temi che fino ad ora erano tabù. Un'altra parte no: sono libertari che desiderano avere la libertà di essere libertari, non socialisti; sono concentrati da tempo sui diritti e non sogliono chiedersi quali doveri sono necessari; e quando scoprono il lato dei doveri o degli oneri fuggono; appartengono a ceti medi o medio-bassi ma non desiderano rimanere popolari, non vogliono sentirsi membri di un popolo. Per quanto possa apparire assurdo, la sinistra avrebbe bisogno di un'ulteriore scissione, quella definitiva. Se esistessero ventimila militanti con idee simili alle mie e alle tue (e a quelle di Cavallaro), si potrebbe rivoltare l'Italia. Gli altri sarebbero i nostri nemici più acerrimi, al fianco (di gran parte) degli imprenditori.
sono assolutamente d'accordo.