Sulla “Teoria della classe disagiata”: una recensione e una critica sociale (1a parte)
di FRANCESCO BERNI
Teoria della classe disagiata (minimum fax, Roma 2017, pp. 262, 16 euro) è un saggio imprescindibile per comprendere la situazione sociale dei nati negli anni Ottanta, per cui bisogna dire un enorme grazie all’autore Raffaele Alberto Ventura, noto anche per essere il fondatore di Eschaton, al di là di tutte le critiche che si possan fare al libro. Questa è la premessa doverosa di questa mia recensione che vorrebbe porre anche una critica sociale alla teoria di Ventura.
Il saggio parte con questo elemento di valutazione: l’Italia è un paese in fase di deindustrializzazione che non ha più bisogno di un solido sistema nazionale di istruzione, perché i posti di comando sono stati già assegnati, vengono sfornati da poche università private e al di là dell’industria dell’intrattenimento c’è poco o niente. Parafrasando Caterina di Boris, “la ristorazione è l’unica cosa seria rimasta in Italia”. Purtroppo i trentenni sono stati progettati male come i Betamax e sono stati di conseguenza esclusi: perciò nasce il fenomeno della proletarizzazione degli intellettuali, al quale i laureati, invece di prendere atto, rispondono con uno spreco ulteriore di proprie risorse, facendosi la guerra tra loro per accaparrarsi quei pochi posti rimasti, svilendo il valore del lavoro culturale e investendo tutte le loro finanze per i beni posizionali vebleniani che servono per competere in questa corsa.
Il principale errore dell’autore è il focus esclusivo sui laureati che acquistano beni posizionali per non scendere nella scala sociale. Sarebbe stato più corretto un focus su tutti i trentenni, i quali sono tutti in competizione per acquistare beni posizionali, lottano tutti per accaparrarsi una posizione di sopravvivenza e un ruolo all’interno dei circuiti edonistici dell’industria dell’intrattenimento.
Il focus di Ventura è dichiaratamente ristretto ai wannabe laureat e metropolitani, quando la realtà che descrive colpisce in verità tutti i trentenni italiani, anche quelli con la terza media e che abitano a Castel Sant’Elia. Nella definizione di classe disagiata, la grande confusione di Ventura sta nel fatto di mischiare quattro fattispecie sociali di trentenni (anzi, tre le dimentica di proposito).
Fattispecie numero 1
Il wannabe che tarda deliberatamente a inserirsi nel mondo del lavoro, vive a casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e costituisce oggettivamente un peso per la società (figura tipica di aree metropolitane)
Fattispecie numero 2
Quello che è stato costretto a studiare perché era bravo a scuola, ma non era inserito nei circuiti che contano ed è costretto a marcire nella disoccupazione, perché i genitori non possono imbucarlo in qualche posto garantito o perché è troppo bravo e preparato (o meglio è troppo retrogrado il tessuto economico in cui vive). Si parla di figure difficilmente assorbibili sia con lavori impiegatizi che con lavori umili. È quello che ha sicuramente più risentimento, e può decidere di continuare o meno nella coltivazione delle sue velleità culturali
Fattispecie numero 3
Il plurilaureato che di fronte al fatto che mai sarebbe stato assunto per fare lo storico dell’arte, si è adattato a fare il cameriere per partecipare comunque al circuito bovarista e divertentistico, e tutto sommato ci è riuscito. Una figura che potrebbe quasi essere un sottogruppo della prima fattispecie.
Fattispecie numero 4
Il diplomato che vuole comunque partecipare alla generazione di plusvalore artistoide e divertentista ma che comunque ha difficoltà a trovare un lavoro che gli permetta di stabilizzarsi. La società stimola anche loro nella produzione artistica, ma Ventura se ne dimentica.
Il primo gruppo voleva bovarizzarsi, il secondo, il terzo e il quarto ne sono stato costretti ma tutto sommato lo hanno accettato di buon grado. A tal proposito, come sostiene il filosofo Claudio Bazzocchi in un recente intervento sul suo profilo facebook, “il mondo del compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro è stato rifiutato dai ceti subalterni in nome di una vita meno costretta dai rigidi schemi del welfare e del capitalismo societario e quindi più creativa, più libera a partire dal luogo di lavoro. Giusto, sbagliato, vero, non vero, questo è stato il sentimento che ha trovato nelle promesse del neoliberalismo una risposta che continua a essere tuttora egemonica nell’immaginario di milioni di persone.”
La seconda critica che posso fare al saggio di Ventura è la supina accettazione della deindustrializzazione italiana iniziata venticinque anni fa, dello status quo, irrorata di critica al keynesisimo e alla programmazione economica primorepubblicana. Non viene mai citata la “vicenda” mediatico-giudiziaria di Tangentopoli: francamente non si può parlare di crisi economica italiana senza un’attenta ed eretica analisi delle vicende di Mani Pulite. Ventura accetta lo status quo e se ne compiace.
Non risponde sufficientemente sui motivi per cui i posti sono sempre meno, o meglio fornisce una sua interpretazione, e si focalizza sui lavoratori culturali, dimenticando completamente i lavoratori manuali, i quali con la filosofia user generated content di massa fanno parte ormai anche loro del circuito di produzione culturale. Pur spiegando le motivazioni per cui i produttori culturali di successo sono una casta arroccata come non mai (nonostante la molteplicità degli attacchi alla cittadella), e lo fa giustamente sviscerando i meccanismi della platform economy (che è modello di business di Amazon Air BnB, Uber), non pone l’accento sui loro meccanismi di cooptazione ossia su come si può entrare a far parte di quel giro.
Ventura fa una critica spietata, che secondo me è il vero punto di forza della trattazione, dei motivi sovrastrutturali della crisi culturale che ha portato alla nascita della classe disagiata. Fattori, che nella mia modesta interpretazione, sono anche la base sovrastrutturale dell’accettazione da parte dei ceti subalterni della deidustrializzazione del Paese.
Ventura mette all’indice la mentalità sessantottina della morte dell’autorità, dell’indisciplina come virtù, della negazione della finitezza e della complicatezza dell’uomo per cui basta la tecnica a sanare le contraddizione umane e politiche dei popoli. Ottimo anche il focus sull’educazione di noi nati negli anni ‘80 (trattati come bambini che possedevano aprioristicamente dei caratteri speciali), sulla corsa all’autorealizzazione del sé, sul non accontentarsi mai.
A questo si aggiunge la critica durissima e necessaria del paradigma operaista e post operaista per cui “l’ideologia lavorista del ‘lavoro che rende liberi’ e che ‘nobilitava’ moriva definitivamente nel cervello e nei cuori di un’intera generazione che al ‘diritto al lavoro’ preferiva la fine del lavoro salariato ed il diritto alla felicità.”
A questo punto vorrei citare due miei maestri del pensiero e di azione, Riccardo Lombardi e Rino Formica. Il primo nella sua definizione di società diversamente ricca indicava la via: “Vogliamo un diverso tipo di benessere, che domanda più cultura, più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso.” Quindi non la fine del lavoro, ma il lavoro nobilitante e nobilitato che permetteva non tanto al figlio dell’operaio di diventare dottore, ma al figlio dell’operaio di diventare uomo libero e di cultura.
Sulla generazione dei sessantottini e dei settantasettini inserisco una citazione recente di Rino Formica che anticipa un concetto sul quale mi soffermerò più tardi: “Siamo stati cattivi maestri dei nostri figli. Abbiamo voluto metterli al riparo delle nostre amarezze, dalle dure esperienze di una maturità senza giovinezza, li volevamo giovani e liberi per un periodo lungo e senza fine. Era un modo per poter vivere la nostra mancata giovinezza.”
Tornando alla classe disagiata e alla citazione di Bazzocchi, notiamo che l’antica piccola e media borghesia e altri ceti subalterni hanno accettato e metabolizzato ormai da tempo il paradigma dell’universalizzazione del lavoro con le caratteristiche delle mansioni della classe cognitiva: intraprendenza, gavetta, intuito, autoimprenditorialità. Questo ha portato, per esempio, a difendere più di buon grado le esigenze del brillante ricercatore “cervello in fuga” piuttosto che quelle del compagno delle elementari con la terza media che fa l’operaio. La classe disagiata, accettando questo campo da gioco, ha creato in primis un inferno culturale per i lavoratori, in quanto esistono solo il talento, la creatività e l’intraprendenza e non ha più cittadinanza ideologica “la ricerca della garanzia”.
Viene vissuto quasi come vergognoso il rivendicare il diritto al cartellino, alla garanzia, al riposo, alla “sana” inefficienza comunitaria, a quello che Gobetti chiamava “parassitismo della solidarietà”. In questo obbligo creativo e intraprendente che travalica nord e sud e accomuna una generazione, i consumi posizionali sono di massa, non solo del grafico che vuole fare il grafico. Tutti oggi ascoltano indie, tutti vogliono frequentare i giri giusti, anche il compagno di classe che fa l’idraulico, tutti vogliono essere creativi.
D’accordo che l’errore stia proprio nel pensare che cercare il proprio posto speciale nel mondo sia un obbligo sociale. Uno può anche cercare un posto normale, ordinario, da ragionier Filini, ma nell’Italia di oggi anche questo è impossibile.
L’autore sembrerebbe proporre il “più Filini meno Steve Jobs”, quando in realtà, rimanendo in tema di personaggi fantozziani, propone un “più Franchino meno Steve Jobs”. Il “più Filini meno Steve Jobs” presupporrebbe che i giovani borghesi italiani studiassero per ambire ad essere luogotenenti di Adriano Olivetti o Enrico Mattei, invece Ventura propone il “più Franchino meno Steve Jobs” come mera decrescita culturale e accettazione supina di sessioni di caccia al pesce ratto.
Definire la classe disagiata come classe è troppo, o meglio, essa non lo è nel senso marxista: attualmente l’unica classe è quella dei vittoriosi che stanno nei famosi “pochi posti” e hanno coscienza della loro essenza di classe. La cosiddetta classe disagiata è un’accozzaglia di individui: per dirla alla Fusaro siamo “all’atomistica liberale degli io irrelati”. Non è classe perché manca ogni preparazione o ogni volontà protesa alla conquista del potere non per gusto del potere ma per far funzionare meglio le cose, per creare un sistema più giusto ed efficace (afflato di base di tutti i movimenti operai e piccolo borghesi e quindi antiliberali).
Le quattro fattispecie, descritte da me all’inizio del pezzo, cercano di sfuggire in qualche modo alla vacua insensatezza dell’Io con la ricerca spasmodica del godimento illimitato quando va bene, o con la depressione quando va male. Tornando ai primi tre gruppi sociali: se gli intellettuali non si pongono come classe o non si inseriscono nella connessione sentimentale con alcuni strati precisi della popolazione, non hanno ragione di esistere.
Quindi l’attualità dei lavoratori culturali è questa: o sei cooptato nei circoli dei dominanti oppure non esisti, quindi sei condannato all’estinzione. Non esisti perché non sei in grado di connetterti e dirigere una battaglia egemonica per far emergere il “nuovo” nel senso gramsciano. Anzi, le tre fattispecie di esclusi, talvolta rappresentano l’esercito di riserva delle classi dominanti, pronti ad accusare tutti gli “altri sconfitti della globalizzazione” di anafabetismo funzionale, rossobrunismo, fascismo, razzismo ecc.
Ventura a pag 64 definisce la classe disagiata come “il residuo umano lasciato dalle crisi di sovrapproduzione nel momento in cui non è più possibile finanziare il consumo improduttivo” che si esprime politicamente con quella che Costanzo Preve indicava come “la differenza fra il liberale normale e l’anarchico disobbediente: il liberale è disposto a pagare per consumare, mentre l’anarchico disobbediente vorrebbe consumare senza pagare, e chiama questo comunismo”. Quella che Ventura chiama “classe disagiata” e che io chiamerei “massa atomizzata desiderante” ha un altro trait d’union, ovvero il profondo antigramscismo: la non volontà di diventare classe dirigente ma bearsi di una presunta superiorità culturale.
Per parafrasare quanto dice l’autore: “se ascolti musica indie norvegese anni ‘80 non sei superiore a chi ascolta neomelodica napoletana”. Questa “superiorità” esprime una sorta di egemonia culturale della non volontà di creare egemonia culturale, preparando così il terreno alla devastazione di questo Paese. Classe che non vuole emergere e ne è fiera: questo deriva dal ‘77 e, siccome in Teoria della classe disagiata si fanno molti riferimenti letterari, reputo che questo processo culturale fosse già ben descritto nel romanzo Vogliamo tutto di Nanni Balestrini.
Quello che non afferma mai l’autore, che secondo la mia opinione è il punto vero della questione, è che gli esclusi disagiati non hanno alcun afflato egemonico per la conquista del potere (l’unico che potrebbe salvarli) perché sono troppo impegnati alla ricerca della propria felicità e perché la generazione dei nati tra i ‘40 e i ‘60 ha eliminato ogni luogo della mediazione politica ed economica, ogni luogo che aveva permesso storicamente l’avvio di una grande fase di mobilità sociale e di industrializzazione del Paese.
Il ciclo è questo:
- si deindustrializza il Paese e se ne distruggono i corpi intermedi;
- le classi subalterne accettano il processo e spingono per la ricerca della loro felicità attraverso il circuito edonistico dell’intrattenimento;
- resesi atomi alla ricerca del godimento illimitato, esse non sono in grado di organizzarsi e non hanno più i luoghi politici, economici e sociali per farlo;
- non pensano più che possano esistere soluzioni politiche ed egemoniche.
Quindi il lavoro culturale non viene più messo in piedi per fare del bene alla società, semmai ci si limita ad intrattenerla con i meme per la propria autorealizzazione (bellissimo il pezzo del saggio sulla produzione memetica), non certo per creare un mondo migliore. Per questo il lavoro culturale è vissuto come un’opportunità, non come qualcosa che debba garantire lo sviluppo della società: il lavoro culturale e politico non è più visto come servizio agli altri ma solo come realizzazione di se stessi.
fonte: stampanews.it
[continua]
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