Sulla “Teoria della classe disagiata”: una recensione e una critica sociale (2a parte)
di FRANCESCO BERNI
In Italia manca una classe come quella di Ibn Khaldun, che sappia fare un discorso serio sul perché ormai sia saltata la asabiyya ed ogni sua ricerca: la asabiyya è definita a pagina 61 come “la capacità di autorganizzarsi, di operare collettivamente, di cooperare invece di bruciare ingenti risorse nella lotta per il prestigio”. Le risposte che fornisce Ventura non mi soddisfano appieno, perché non è affatto vero che i posti sono pochi: manca semmai la capacità di assaltarli, democratizzarne l’accesso e soprattutto manca qualcuno che la smetta di trattare la cultura come un prodotto qualsiasi, come un bene posizionale.
La cultura è ciò che muove il mondo e le idee.
Tra l’altro non solo non è vero che i posti da grafico, da pittore, da scrittore, sono pochi: una realtà che Ventura non vede è data dalla miriade di trentenni di oggi che, per quanto impegnata nella lotta per i beni posizionali, si accontenterebbe di un posto da impiegato catastale o da personale ATA. Il problema, come ricordavo sopra citando Bazzocchi, è che i ceti subalterni hanno rifiutato il paradigma keynesiano e la lotta gramsciana per l’egemonia, abbracciando tutte le storture culturali e politiche del ‘68 e del ‘77.
Ventura, che vorrebbe salvare i disagiati facendo loro prendere coscienza di classe, ovvero del fatto che hanno preteso troppo e dovrebbero quindi abbassare le loro aspettative, commette però lo stesso errore della classe disagiata. Pur criticando aspramente il Sessantotto culturale, Ventura considera il keynesismo come una bestemmia ideologica, iscrivendosi così a tutti gli effetti tra gli autori there is not alternative. Non c’è alternativa allo stato di cose presenti ed accettare l’impoverimento è l’unica cosa che si può fare: Ventura lo sostiene con una tesi al di fuori della grazia di Dio, ossia che il capitalismo si stia contraendo. Che ci sia una fase di stagnazione simile a quella di fine ‘800, lo sostiene anche Gianfranco La Grassa: ma una cosa è la stagnazione, un’altra la contrazione.
Parlare di caduta tendenziale del saggio di profitto in un mondo in cui le corporations sono più “ricche” degli Stati nazionali mi sembra veramente assurdo. Come è strano parlare di contrazione, quando mai come oggi è alto il divario tra salari dei lavoratori e produttività del lavoro. E poi, sempre rimanendo in canoni macroeconomici, Ventura fa il classico (anzi neoclassico) errore di trattare il debito pubblico di uno Stato come fosse il debito privato di un’azienda.
Inoltre, di quale classe disagiata parla Raffaele Alberto Ventura? Di quella europea? Di quella italiana? La lettura sembrerebbe sottointendere quella italiana: e allora perché l’autore non analizza le politiche economiche che hanno impoverito l’Italia, che ci hanno fatto abbandonare il virtuoso ciclo di partecipazioni statali in settori strategici + miriadi di pmi a corollario? Perché non dice che in Italia, secondo i canoni della sua disquisizione economica, le cose potevano andare male invece sono andate peggio? Perché non parla delle privatizzazioni selvagge, della morte dell’IRI, come causa di un aggravamento di una crisi che secondo la sua trattazione sarebbe avvenuta naturaliter? Perché il focus sull’Italia è solamente accennato? Alla fine dell’articolo proverò a dare una spiegazione.
Il saggio ha il merito di aver delineato i problemi della classe disagiata, ma scambia le cause con gli effetti. La corsa alla scolarizzazione è causata non da una smania di diventare archistar, ma dalla contrazione macroeconomica della macchina industriale (dovuta a precise scelte della classe dirigente italiana, ma Ventura sembra non ricordarlo) a cui si risponde sperando che l’arricchimento delle proprie competenze aiuti a sopravvivere. Questa corsa alla sopravvivenza implica già un’aprioristica accettazione di un livello di reddito inferiore a quello dei propri genitori. Un livello minimo che permetta però l’acquisto dei beni posizionali in modo da non essere emarginato (ma l’acquisto dei beni posizionali riguarda ormai anche il tuo compagno di classe delle elementari che fa l’idraulico da quando aveva 16 anni).
Nel suo slancio di critica al diritto allo studio, che non farebbe altro che creare una generazione di choosy e bamboccioni con la pretesa addirittura di cercare dei mezzi di sopravvivere, si dimentica l’unica critica élitaria che avrebbe senso. Con l’incremento della scolarizzazione di massa diminuiscono i pensatori veri e puri, gli uomini di cultura di rottura, i giganti del pensiero, perché come sosteneva Costanzo Preve “l’incredibile novità del nostro tempo è che oggi gli intellettuali sono stupidi”.
Ventura intuisce i meccanismi illusionistici della platform economy: essa esprime il sogno della voce a tutti, dello spazio per tutti, e invece è la posa plastica della cittadella arroccata che ha la potenza devastante di eliminare chi è fuori dal giro nonostante le promesse di disintermediazione. La scolarizzazione di massa ha messo tutti in concorrenza perché non esiste più la mediazione degli istituti di cultura, delle accademie – la maestra e la prof che ti dicevano “Mario va all’Ipsia, Giovanna allo Scientifico”, o per rimanere al 1968, l’esponente del clero che manda Mario Capanna a studiare alla Cattolica di Milano. Su questo l’autore ha ragione, ma non fornisce né immagina soluzioni alternative… questo sì che è spreco di risorse intellettuali!
Tornando alle parole di Rino Formica, non si può far altro che notare che la generazione dei nati nei ‘40 e nei ‘50 ha creato un mondo che garantisse la loro eterna giovinezza, avvelenando i pozzi, non soltanto impedendo la mobilità sociale per le generazioni future ma facendo cadere sulle stesse i loro fallimenti, ovvero con la creazione di una struttura ideologica impermeabile al cambiamento, criminalizzando chiunque pensasse fuori dal recinto.
Tu stai in quel recinto, ma nella fortezza ci siamo noi e i nostri figli: voi al massimo potete fare i servitori della gleba, anzi ci dovete ringraziare che vi permettiamo ancora di partecipare ai circuiti del consumo e vi facciamo leggere qualche libro. Hanno reciso la possibilità di assaltare quei feudi, perché hanno reso la cultura un mero prodotto di consumo. Tutti gli strumenti culturali organizzativi per fare il salto egemonico non esistono più, ma soprattutto non c’è alcun interesse da parte della classe disagiata di crearne di nuovi, perché tutto sommato questa situazione stagnante non dispiace.
In questo Raffaele Alberto Ventura ha ragione: quel surplus formativo, che non ha nessun tipo di sbocco ed è in via d’estinzione, non basta per migliorare la propria condizione, perché “non basta avere ragione, devi avere qualcuno che te la dia”, in quanto risulta un mero tecnicismo che non si innesta in alcun modo nella società. La questione dell’educazione, del surplus educativo, che non produrrebbe maggiore ricchezza né uguaglianza, ci indica che non si risolvono certe questioni solo con la tecnica. L’autore ha ragione da vendere quando scrive: “il fatto che esista una correlazione tra livello di educazione e reddito individuale non implica in nessun modo che debba esserci, globalmente, un’influenza dell’educazione sulla crescita economica”.
Quella questione, dalla notte dei tempi, si risolve con le dinamiche sociali e per una lotta redistributiva, ma se si nega il keynesisimo allora non è possibile pensare alcun tipo di futuro né a breve né a lungo periodo: e infatti Ventura accetta che “saremo tutti morti”; il “diritto allo studio” è tutta una questione meramente tecnica per cui la corsa all’armamentario formativo non genera automaticamente mobilità sociale, quindi è un male: perciò i poveri non devono più studiare e non devono più nemmeno vagheggiare di tentare di darsi un futuro migliore individuale o collettivo.
Visto che la tecnica impedisce che più studio significhi più mobilità sociale, allora è impossibile pensare che questo possa avvenire. L’autore a tal proposito si inventa la fattispecie del Mutuo Declassamento Assicurato, come se la guerra del tutti contro tutti fosse una scelta e non un obbligo per tentare di sopravvivere. Il punto è che dimentica che anche i descolarizzati vivono la crisi.
I titoli, per quanto inflazionati, non sono stati ottenuti per “scavalcarsi reciprocamente per ottenere i posti più ambiti, e lasciare il resto del lavoro agli immigrati del terzo Mondo”, ma semplicemente per sopravvivere o per cercare il proprio posto nel mondo Ventura, dimenticando la lotta per la sopravvivenza, si sofferma con gran mestiere e bravura sulla seconda fattispecie: coloro che cercano il proprio posto narcisistico nel mondo. Lo fa a pag 234, introducendo la figura degli individui narcisistici pieni di ambizioni smisurate che non possono accettare una vita umile. In questo modo nasce l’anomia: una reazione spettacolare in omaggio alla società, in cui la ribellione è vissuta solo per soddisfare la nostra vanità. Qui l’autore non coglie la grande verità di quello che ha detto, ossia che l’evoluzione del militante politico occidentale è nel sentiero dell’anomia.
Da cavaliere dell’idea “rivoluzionario di professione “ o “soldato politico nichilista” o “amico democristiano e devoto” o “compagno mazziniano repubblicano”, una buona parte dei militanti politici degli ultimi decenni non è mossa dal fuoco ideale delle ideologie, ma sceglie l’azione politica solo per trarre godimento da una realtà che esiste solo nelle loro menti. Perciò la guerra di tutti i movimenti moltitudinari degli ultimi anni, ignorando l’esigenza della “conquista del potere”, è stata solo una valvola di sfogo di entità desideranti in cerca di godimenti alternativi e non si sa per quale motivo migliori.
Non tutti i desideri sono buoni da soddisfare e in quelli buoni da soddisfare non c’è una gerarchia di bontà: la classe disagiata, invece, pensa che ogni desiderio individuale abbia piena legittimità. L’autore conclude affermando che il risentimento della classe media nasce da un doloroso malinteso, cioè il cosiddetto welfare novecentesco. La realtà dei fatti ci indica però che, con la produttività alle stelle e ormai slegata dalla creazione di posti di lavoro e con la divaricazione dalla giusta remunerazione di quei posti che vengono creati, il risentimento della classe media è sacrosanto.
Ventura rifiuta pervicacemente il Novecento – non è un caso il continuo riferimento a romanzi ottocenteschi… ed è a tutti gli effetti poco innovativo in questo: sono venticinque anni che si cerca di uscire dal Novecento, ma poi alla fine si propina la solita logica liberale in cui ci si rifiuta, tra l’altro, di porsi davanti alla questione nazionale, quindi anche a quella della redistribuzione dei redditi all’interno di un dato territorio. L’autore parla della classe disagiata italiana ma la universalizza, privandola dei suoi caratteri nazionali; non parla mai del contesto, seppure fa un’analisi globale (con cui concordare o meno), non spiega nel dettaglio perché in Italia le cose siano andate peggio o meglio rispetto ad altri paesi occidentali.
Nell’equazione di Ventura, la deindustrializzazione italiana è una costante che non può essere toccata, così come la prevalenza dell’economico sul politico. Rimanendo in termini gramsciani, in un clima politico e culturale antigramsciano quale mai si è respirato nella storia recente italica, per uscire dall’empasse il “nuovo” che potrebbe sorgere dalle dinamiche sociali e di classe (anche disagiata) italiana, dovrà porsi le seguenti sfide:
- creare una classe pronta a conquistare la forza di far funzionare meglio le cose
- porre al centro la questione nazionale italiana
- porre al centro la questione della crisi economica in termini innovativi quanto antichi
- porre al centro la questione dell’egemonia, terminando con la retorica assembleare, dei flashmob e della democrazia disintermediata
- trovare nuove forme di Principe e di Intellettuale Collettivo sulle grandi questioni che attanagliano il mondo (a molte delle quali non ho fatto neanche cenno)
Ci vorranno dei decenni: non sarà l’attuale classe disagiata a portare avanti questa agenda perché, citando un mio caro amico su Facebook su un recente caso di cronaca politica, “la farsa catalana e’ stata come un flash mob di massa, un collettivo apericena equo-solidale, una raccolta dal vivo di firme su change.org. La causa della Repubblica avrebbe meritato forme di lotta più novecentesche, di quel secolo in cui era la fame e non l’egocentrismo a muovere i popoli. Qualcosa di più serio.”
Forse ha ragione Ventura: fino a che sarà l’egocentrismo a muovere i popoli, there is not alternative, e magari è meglio ambire ad essere Franchino piuttosto che Steve Jobs. Ma qui si continuerà a tifare “Organizzazione Filini”.
fonte: stampanews.it
[Qui la prima parte dell’articolo]
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