Gli insegnanti: l’ultimo ostacolo alla rivoluzione digitale della scuola
di GIOVANNI CAROSOTTI e ROSSELLA LATEMPA
Poco più di venti mesi fa, appena all’inizio del primo anno scolastico successivo all’approvazione della Legge 107, venne pubblicato un documento dedicato all’innovazione digitale della didattica, uno dei primi che tentava di rendere operativi alcuni contenuti qualificanti la “Buona Scuola”.
A venti mesi da quella pubblicazione, due tra i più solerti collaboratori del ministero, nonché tra gli estensori di parte dei documenti dedicati alla “Buona Scuola”, ovvero Damien Lanfrey e Donatella Solda, hanno licenziato un nuovo testo per fare il punto sui risultati ottenuti, nonché rilanciare l’iniziativa in occasione dell’anno e mezzo trascorso dall’elaborazione del primo Piano digitale.
Il documento oggetto del nostro intervento è strutturato in diversi punti; per buona metà, esso presenta un ambizioso programma d’investimento e di digitalizzazione di tutte le scuole d’Italia, soprattutto quelle di sede periferica e maggiormente svantaggiate. Un progetto di per sé encomiabile, se lo scopo fosse quello di mettere a disposizione degli insegnanti una tecnologia di trasmissione del sapere ormai irrinunciabile e che sicuramente offre varie, molteplici e positive possibilità di approccio agli argomenti, non certamente però esclusive e in ogni caso non necessariamente da utilizzarsi in via prioritaria.
Fin qui, infatti, sarebbe un’ottima notizia quella degli investimenti del MIUR (sebbene, a onor del vero, la maggior parte dei fondi sia di provenienza europea tramite bandi PON vincolati). Lo sarebbe se tutto avvenisse nel rispetto della (oramai impronunciabile) “libertà d’insegnamento”, ovvero del diritto di ogni docente di praticare la metodologia ritenuta più adatta a comunicare, coinvolgere e far apprendere contenuti culturali irrinunciabili (la libertà d’insegnamento è ancora più di metodo piuttosto che di contenuti).
Gli estensori del documento, nei paragrafi successivi, chiariscono la questione fuori da ogni dubbio. Si tratta di “invertire la narrativa”. Detto più esplicitamente: la musica deve cambiare e l’innovazione deve entrare in ogni classe, deve essere il “kernel” della nuova scuola, attraverso una serie di azioni sistemiche (“formazione di qualità”, studio di metodologie “concretamente applicabili in ogni classe”, “piattaforma degli innovatori”) che permetterebbero addirittura di “dare struttura permanente, scientificamente validata e alla frontiera dell’innovazione”.
Risulta evidente come il richiamo alla validazione scientifica, che renderebbe obbligata la transizione intermodale verso l’“innovazione”, abbia lo scopo di scongiurare qualsiasi obiezione o approccio critico. Si tratta di un’abitudine non nuova nei testi ministeriali e nei documenti ufficiali, che apre preoccupanti scenari speculativi, rispetto ai quali dovrebbero intervenire proprio gli uomini di scienza. Questi documenti, infatti, oramai da anni, sostengono la perentorietà dei propri assunti sulla base dell’applicazione di acquisizioni “scientifiche” che non si presentano affatto come rigorose, né supportate da letteratura o ricerche di settore, ma che si ritengono tali in modo autoreferenziale e non aperto a contraddittori. Un’abitudine non nuova da parte degli “innovatori progressisti” che a fronte della provvisorietà dei dati a disposizione propongono conclusioni apodittiche, verso le quali sarebbe inutile qualsiasi argomentazione critica.
I principi su cui impostare la nuova azione didattica sono allora le “competenze”. Tra queste, la competenza digitale, da “rendere strutturale negli ordinamenti”. Nonostante l’applicazione di tale concetto alla pratica didattica susciti un contrasto d’opinioni tra gli studiosi certo non ancora risolto, l’esecutivo, forse proprio per dare una mano a dissipare tale confusione, ha intenzione di spendere diversi milioni di euro per finanziare ben 18 centri di competenze sui vari temi: in particolare, un gruppo di lavoro sulle «competenze digitali». Tra i suoi scopi c’è quello di promuovere l’utilizzo di smartphone o tablet in classe (il cosiddetto BYOD, bring your own device), e, più in generale e più minacciosamente, l’innovazione metodologica della didattica.
L’uso dello smartphone, la digitalizzazione dell’insegnamento non diventano possibili opzioni, metodologie eventualmente scelte dall’insegnante se ritenute più opportune, in base ai contenuti da trattare e al contesto-classe. Diventano le competenze di base della nuova professionalità docente, ineludibili e da applicarsi obbligatoriamente. Si capisce allora che cosa intendeva la ministra Fedeli, quando ha negato che l’insegnamento sia affatto una missione, bensì una serie di competenze tecniche da applicare. E cosa può derivarne in merito alla sicurezza del “posto di lavoro” per ogni insegnante. Il “pensiero computazionale”, nonché quello “analitico”, diventerebbero non un approccio possibile ad alcune discipline o argomenti, ma addirittura l’oggetto di un esclusivo curricolo verticale dalle elementari alle superiori, nella volontà di impostare fin dalla base un modo di ragionare tecnicistico e strettamente sequenziale, delimitato nelle possibili variabili, in un contesto di calcolo di vincoli, risorse e obiettivi.
Quali sono le implicazioni educative alla base di tale affermazioni? Quali le conseguenze di una simile scelta sul piano del linguaggio, ad esempio? Quali le ricadute sul modo di interpretare la realtà, di entrare in relazione con il mondo? Tutte questi interrogativi non trovano spazio nel documento (né in quello originario, il Piano Digitale). Si tratta di omissioni tipiche delle discussioni sull’opportunità delle nuove tecnologie in ambito scolastico, che tuttavia devono competere ad un educatore, il cui obiettivo principale non può né deve ridursi a garantire “un’interfaccia sufficientemente aggiornata” col mondo esterno ai suoi studenti.
I cambiamenti e i disagi sociali o l’ubiquità del digitale nella “società della conoscenza” non possono -a nostro avviso – giustificare trasformazioni di carattere pedagogico o educativo così radicali come quelle promosse dal Piano Digitale. Presentare la “rivoluzione digitale” come lo strumento (per eccellenza) di accesso ad un sapere miracolosamente democratico, capace di rendere possibile la tanto agognata “individualizzazione” o (addirittura) risolvere il problema della dispersione scolastica, è un espediente collaudato che sposta l’attenzione su “emergenze” di diversa natura.
Le disparità di occasioni territoriali, la difficile e precaria collocazione dei giovani nel mondo produttivo, l’attuale situazione economica, sono condizioni che la scuola subisce più che provocare. Problemi di natura politica che bisognerebbe sì affrontare con l’allocazione di risorse indicata nella prima parte del documento in esame. Tali risorse, tuttavia, non dovrebbero in alcun modo vincolare o normare il percorso scolastico, lasciando ai docenti la possibilità di trovare, in virtù della loro professionalità e di una riacquistata credibilità, le metodologie di volta in volta opportune secondo il contesto. Sempre con il proposito di permettere a tutti di accedere, ai contenuti più alti di cultura, realmente emancipativi, e non solo ad abilità operative.
Ciò che stupisce in questo documento, così tetragono nell’imporre i propri contenuti, è la totale indifferenza a quanto, su questo tema, è stato dibattuto in questi venti mesi. Qualcuno potrebbe stupirsi della protervia con cui vengono portate avanti tali politiche educative nonostante le evidenti contrarietà che esse suscitano in una parte non irrilevante non solo degli insegnanti, ma anche tra le personalità intellettuali e l’opinione pubblica. Ma è chiaro che tali dispositivi (Il Piano Digitale, il Piano di Formazione insegnanti, il nuovo disegno sul reclutamento e sulla valutazione dei neoassunti, la chiamata diretta, il ciclo di autovalutazione e miglioramento delle scuole) mirano a un unico scopo, ritenuto irrinunciabile, che è quello di recepire una modalità di organizzazione scolastica non più fondata sul valore pubblico dell’istruzione, ma su richieste dell’apparato produttivo rispetto alle quali l’autonomia dei docenti rappresenta solo un ostacolo.
Non a caso i veri nuovi protagonisti della scuola, a leggere il documento, non sono più gli insegnanti, ma gli operatori esterni alla scuola i quali, avendo molto più chiari i bisogni sociali diffusi, ritengono di avere maggiori diritti nell’elaborare pratiche, obiettivi e contenuti formativi. E rispetto ai quali i docenti devono accettare un ruolo di totale subordinazione.
Appare lecito dubitare che tali “formatori di qualità”, la cui impostazione rimanda ai criteri che abbiano sinora esposto, siano in grado di dare corpo e consistenza culturale a quelle che un tempo si chiamavano attività di aggiornamento (una sorta di “manutenzione” dovuta) e che oggi, con una mutazione semantica assai significativa, diventa formazione (nuova forma) a tutto tondo. Gli insegnanti, in questo modo, sono “ridotti a mera ruota dell’ingranaggio e devono limitarsi a impartire lezioni standardizzate, basate sulla memorizzazione e sulla promozione di capacità atte a superare test, per far sì che le scuole ‘raggiungano il vertice’. Gli insegnanti non sono più considerati fondamentali risorse civili e intellettuali, ma piuttosto strumenti e tecnici poco qualificati il cui ruolo è ridotto a formare i propri studenti ad accettare l’addestramento […] e considerare l’immaginazione come un nemico dell’apprendimento” (H.Giroux).
Qui la versione integrale dell’articolo.
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