Insegnare la chimica in inglese? (1a parte)
di ENRICO PRENESTI (Università di Torino)
Il momento storico-sociale nel quale ci troviamo è particolare – soprattutto per la velocità di cambiamento cui le persone sono sottoposte sul lavoro come nella vita privata – ma alcuni fenomeni che sembrano legati alla novità della globalizzazione si sono già visti nel corso della storia e ora, semplicemente, si ripresentano attualizzati rispetto ai mezzi impiegati per sostenerli e propagarli. Per quanto d’interesse specifico per l’area accademica, la globalizzazione include il fenomeno dell’anglicizzazione dell’università, con ossequio reverenziale ingravescente per la lingua e la cultura del mondo britannico o statunitense.
Dopo aver minato la qualità della didattica con il passaggio da corsi di laurea a orientamento disciplinare a corsi di laurea a orientamento tematico, dopo aver frazionato i corsi di laurea in due cicli (salvo casi di lauree a ciclo unico) dilaga ora l’orientamento esterofilo dei corsi di laurea erogati in lingua inglese. Ormai da alcuni anni gli atenei italiani si sono organizzati per erogare interi corsi di laurea in lingua inglese, con l’aggravante che i docenti sono, nella stragrande maggioranza, madrelingua italiani con conoscenza della lingua inglese perlopiù autoreferenziale.
Un’eccezione, in tal senso, è rappresentata da qualche raro docente madrelingua inglese, al quale è offerta una docenza temporanea a contratto, oppure da qualche individuo che rientra dall’estero dopo qualche esperienza tipicamente di ricerca scientifica. Dato lo sfinimento/svilimento finanziario degli atenei italiani, il fine dell’operazione menzionata è meramente mercantile, ovvero aumentare le iscrizioni – agendo su un bacino di utenza più ampio – e, quindi, le entrate.
L’anglofilia si manifesta in Italia in tantissimi ambiti e l’uso della terminologia inglese caratterizza svariate tipologie di ambienti. Purtroppo, gli italiani sono inguaribili esterofili, in tanti casi anche solo per adesione acritica a delle mode. Imitare è più comodo che impegnarsi per creare il proprio prodotto, il proprio prototipo di qualcosa da esibire con orgoglio e fierezza al mondo.
Eppure, i riscontri mondiali della valentia italiana sono numerosi e distribuiti in tanti campi, incluso quello dell’istruzione, che vanta un’antica tradizione di eccellenza ancora oggi riconosciuta in tutto il mondo. Cesare Marchi (scrittore, giornalista e autore del libro Impariamo l’italiano) rilevava che esterofilia e nazionalismo autarchico sono «le facce della stessa medaglia: l’inguaribile provincialismo. Il provinciale è un insicuro, che dubita della propria identità e si arrocca nella fortezza del nazionalismo xenofobo, oppure spalanca le porte a tutto ciò che viene da fuori».
A quale fine dire (o scrivere) match per incontro, reporter per giornalista, team per squadra, step per passo, target per bersaglio, corner per angolo, ticket per biglietto, partner per compagno, endorsement per approvazione, commitment per impegno, performance per prestazione, ecc.? Per non parlare dei tanti anglismi (o anglicismi o inglesismi [1]) quali, implementare, settare, testare, monitorare, plottare, chattare, mixare, loggare, performante e via scrivendo. Per proseguire, infine, con gli sconclusionati connubi tra italiano e inglese: ne è un esempio il nome dato al sito web Verybello.it per promuovere gli eventi culturali italiani nel periodo dell’Expo2015.
Qual è il vantaggio psicologico che le persone raggiungono con un tale comportamento linguistico? Il bisogno di distinguersi dagli altri? Il bisogno di ostentare cultura (o presunta tale)? Il bisogno di sentirsi cittadini del mondo? Il bisogno di allearsi con il più forte? Eppure, il mondo anglosassone ci deride: un articolo di Tom Kington, apparso su The Times il 19 ottobre 2016, era emblematicamente intitolato “Reinassance for the Italian language… everywhere but Italy”. In un articolo apparso su The New York Times, Beppe Severgnini [2] affronta l’interessante questione del turpiloquio e, nel contempo, dibatte sull’invasione di termini inglesi nella lingua italiana degli ultimi 30 anni. Giacomo Leopardi (linguista, oltre che poeta) già metteva in guardia dai barbarismi linguistici, ammettendo, tuttavia, l’uso di un vocabolo straniero quando non esisteva il corrispettivo italiano.
L’autarchia lessicale è insensata tanto quanto l’esterofilia lessicale: entrambe le posizioni ostacolano lo scambio pacifico di idee imponendo spostamenti eccessivi di baricentro linguistico. Da un lato è ben noto che le lingue sono oggetti fluidi e mutevoli e risentono di diversi influssi e del cambiamento che caratterizza inevitabilmente l’umanità in evoluzione, dall’altro un risveglio di vigilanza sull’imposizione egemonica dell’inglese mi pare indispensabile. L’imposizione di una lingua diversa da quella in uso in un dato territorio è un atto di soggiogamento, perché sovverte la stabilità dei vinti imponendo la visione del mondo dei vincitori. Preservare il proprio patrimonio culturale e linguistico è opporsi con fierezza al pensiero unico omologante: l’inglese, infatti, è una lingua di conquista, di dominio, parlata da un popolo esperto e consumato colonizzatore.
Secondo Claude Hagège (linguista francese): «Una lingua non si sviluppa mai grazie alla ricchezza del suo vocabolario o alla complessità della sua grammatica, ma perché lo Stato che la utilizza è potente militarmente» e «Soltanto le persone poco informate pensano che una lingua serva unicamente a comunicare. Una lingua costituisce e rafforza una certa visione del mondo. L’imposizione dell’inglese è funzionale non solo a fini coloniali, ma equivale a imporre i propri valori».
Dell’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico era ben consapevole lo stesso Sir Winston Churchill, il quale dichiarò senza sottintesi (6 settembre 1943): «Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente». Tale affermazione mostra competenza socio- e geopolitica entro la prospettiva storica, oltre a lucida e irriducibile spregiudicatezza. La lingua latina si diffuse in tutto l’impero romano: man mano che i Romani conquistavano nuove terre imponevano agli abitanti delle nazioni vinte l’uso del latino. Ancora, basta pensare allo spagnolo (pur nelle sue varianti) e al portoghese in Sud America, imposti dai conquistadores durante la colonizzazione delle Americhe dal XVI secolo.
Forzare l’introduzione di una lingua straniera in settori chiave di un paese, quale è l’istruzione con i suoi corsi, significa agevolare l’intromissione di culture e poteri estranei alla tipicità e alla sovranità nazionale, rinunciando a diventare, invece, esportatori di cultura e di prodotti che sono espressione della creatività tipicamente italiana, riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Si tratta, in sintesi, di un’operazione di svendita del Paese.
Lingua, diritti, istruzione e apprendimento
Non è solo questione di lingua, ma di cultura in generale. Tutte le lingue sono portatrici di cultura specifica, la lingua di istruzione non è mai neutra rispetto alla scelta dei contenuti. «Appare dunque evidente che nessuna lingua, per quanto eletta veicolo di comunicazione internazionale, può essere appresa al pari di un sistema segnaletico o di un codice artificiale, come quello della navigazione, ma deve essere insegnata secondo un approccio che ponga al centro del rapporto comunicativo e didattico tanto la vitalità della lingua quanto le peculiarità e le esigenze affettive e umane del soggetto in formazione» (P. Mazzotta). Nel 1999 la Conferenza generale dell’Unesco ha istituito per il 21 febbraio la Giornata internazionale della lingua madre, con «l’auspicio di una politica linguistica mondiale basata sul multilinguismo e garantita dall’accesso universale alle tecnologie informatiche» [3]; nel 2007 la Giornata internazionale della lingua madre è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’ONU.
Con la sigla L1 si indica la lingua nativa (o madre o materna o di acquisizione) dell’apprendente, qualunque altra lingua è generalmente indicata con la sigla L2. Secondo Heidi Dulay, Marina Burt e Stephen Krashen, con L2 si intende ogni lingua appresa in aggiunta alla propria lingua materna e usata come mezzo di comunicazione nel Paese in cui viene acquisita; una lingua appresa, di solito in un contesto scolastico, in un Paese in cui non serve come normale mezzo di comunicazione non è da considerarsi L2 ma lingua straniera. Il concetto stesso di lingua madre, e i diritti umani ad essa connessi, sono ancora oggetto di studio.
La modalità di apprendimento di una lingua diversa da quella nativa (diciamo, in generale, L2) è oggetto di molti studi. Un bambino, infatti, non incomincia mai ad apprendere la lingua materna studiando alfabeto o grammatica: tali procedure caratterizzano, invece, le prime fasi di apprendimento di L2. Mentre lo sviluppo di L1 ha inizio con l’uso libero e spontaneo del discorso, e culmina nella realizzazione consapevole delle forme linguistiche, in L2 lo sviluppo ha inizio con una realizzazione consapevole della lingua e culmina poi nel discorso. L’appropriazione di L1 avviene in modo inconsapevole e senza mediazione dell’intenzione e dell’impegno (quindi, senza sforzo), mentre l’apprendimento di L2 (salvo casi di crescita in contesto bilingue) richiede la mobilitazione di risorse cognitive e affettive che fanno capo allo sforzo guidato dalla motivazione. Pertanto: L1 è acquisita, L2 è appresa.
È centrale il fatto che l’apprendimento è strettamente connesso alla capacità di concettualizzazione e di astrazione che passano per pensiero e linguaggio. In linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf – altresì conosciuta come ipotesi della relatività linguistica – afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Siamo esseri linguistici, ovvero articolazione ontologica nel linguaggio.
Secondo Rafael Echeverrìa (sociologo e filosofo cileno, fondatore dell’ontologia del linguaggio), il linguaggio è in se stesso azione: «Gli individui hanno la possibilità di creare se stessi attraverso il linguaggio. Nessuno è in una forma di essere data e immutabile che non permetta infinite modificazioni» [4]. Quindi, i migliori risultati di apprendimento delle discipline si ottengono con la lezione in L1. Erogando corsi in una lingua diversa da quella nativa, l’apprendimento disciplinare è a rischio, con conseguente diminuzione della qualità della didattica e, quindi, delle prospettive lavorative. Gli studenti che cadranno nella trappola dei curricula di studi in inglese (attratti da miraggi millantati da abili persuasori):
- avranno minori possibilità di apprendere la chimica in modo approfondito (rispetto ai compagni che studiano in italiano) e, inoltre, individueranno con maggiori difficoltà i collegamenti esistenti tra i vari ambiti della scienza perché le lezioni, molto probabilmente erogate da docenti madrelingua italiani, perderanno di nitidezza e di profondità a scapito della scorrevolezza, dell’efficacia e dell’ampiezza di vedute resa possibile da una lezione fluida, appassionata, che esplora con accattivante destrezza gli stretti dintorni del tema in esposizione/dibattito;
- incontreranno difficoltà ad argomentare la chimica in italiano e, quindi, porteranno un ridotto valore professionale in Italia;
- perderanno l’opportunità di potenziare le loro competenze linguistiche di italiano e, quindi, di evolvere interiormente (sia per l’apprendimento disciplinare che per la capacità riflessiva e inferenziale che permette l’accesso allo sviluppo personale) e comunicativamente.
In seguito a un siffatto percorso di studi, gli studenti svilupperanno un modello mentale della chimica incompleto (comunque peggiore dell’attuale, già scadente rispetto a quello che ci si poteva formare con la laurea quinquennale) e saranno poco capaci di costruirsi modelli mentali plastici (scientifici o di altri ambiti) con i quali operare per affrontare e risolvere problematiche tecniche e sfide esistenziali [11].
In ogni caso, si può riconoscere un valore educativo al multilinguismo, ma l’adozione di una lingua straniera come veicolo linguistico unico nell’ambito dell’istruzione di un dato paese può solo produrre intralcio all’apprendimento con disorientamento degli studenti, appesantimento del lavoro dei docenti (con sollecito di abilità impreviste dalle condizioni di assunzione e dalla remunerazione) e disgregazione sociale e dovrebbe essere configurata tout court come vilipendio alla Repubblica. Certamente, si tratta di un’eccellente idea per chi volesse strumentalmente colpire l’istruzione italiana per promuovere l’ignoranza, con tutti i vantaggi di governabilità che ne possono derivare.
[continua]
1) Tullio De Mauro, È irresistibile l’ascesa degli anglismi?, “Internazionale”, luglio 2016
2) Beppe Sevegnini, Swearing, Italian Style, “The New York Times”,15 febbraio 2017
3) http://www.unric.org/it/attualita/15143
4) Rafael Echeverrìa, Ontología del Lenguaje, J. C. Saez Editor, 2003
5) Jeremy Holmes, La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola. Raffaello Cortina Editore, 2017
fonte: ilblogdellasci.wordpress.com
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