I prodigi della Corte (in)Costituzionale
Claudio Martini Mainstream
Come commentare l'ultima sentenza della Corte Costituzionale, la prima del 2013, quella che risolve il conflitto di attribuzioni sollevato da Giorgio Napolitano in favore di quest'ultimo?
In primo luogo possiamo ricordare che quest'esito era ampiamente prevedibile, e da noi a suo tempo previsto.
Poi possiamo prendere atto della incontenibile soddisfazione della stampa mainstream, che non aspettava migliore occasione per manifestare il proprio conformismo (qui e qui).
E se poi volessimo sentire il parere di un giurista, allora dovremmo rivolgerci a Franco Cordero. Il quale ha scritto il miglior commento a questa sentenza…più di un mese fa, quando era noto soltanto il dispositivo. Non c'era bisogno di aspettare le motivazioni, a quanto pare. Non sembra ci sia molto da aggiungere. Ingiustizia è fatta.
Oppure, potremmo cogliere alcuni aspetti della sentenza che oscillano tra il ridicolo e l'inquietante, com'è prassi nel nostro paese nei suoi momenti difficili.
Infatti è evidente come tutta la parte in diritto delle motivazioni è attraversata da una deferenza quasi sacrale dei confronti di Napolitano, e di malcelata paura che qualcuno scopra che diamine ha detto quell'uomo. Davvero, sembra di vedere i giudici che cercano un angolino dietro al quale nascondersi. E questo fa dire loro delle mezze scempiaggini.
Mi sembra di poter individuare tre elementi importanti:
1) Quello che preme è che nessuno sappia cosa si sono detti i vecchi amici Giorgio e Nicola. Infatti si legge:
La soluzione del presente conflitto non può che fondarsi – in base a quanto detto sinora sull’affermazione dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee telefoniche del Palazzo del Quirinale.
Lo strumento processuale per giungere a tale risultato, costituzionalmente imposto, non può essere quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacché tali norme richiedono la fissazione di un’udienza camerale, con la partecipazione di tutte le parti del giudizio, i cui difensori secondo quanto prevede il comma 6 del citato art. 268, «hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni», previamente depositati a tale fine. Anche la procedura di distruzione regolata dai commi 2 e 3 del citato art.
269 è incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con la sentenza n. 463 del 1994, sull’adozione del rito camerale e dei connessi strumenti di garanzia del contraddittorio.
Chiaro? L'importante non è nemmeno che i verbali vengano distrutti, quanto impedire che qualcosa trapeli. A questo fine va sacrificato tutto, anche il rispetto del principio del contradditorio. Ma con quale procedura si arriva alla distruzione?
Anche se la Corte sposa la tesi del ricorrente (il mitico "non spettava di omettere"), essa non può fare quello che Napolitano avrebbe voluto, e che l'avvocatura dello stato non ha avuto il coraggio di scrivere: ordinare alla procura di distruggere i verbali. Infatti:
Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate.
Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia
dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento.
La Corte invece indica alla procura di chiedere al GIP la distruzione degli stessi, saltando l'udienza di stralcio. Domanda: e se il GIP non accoglie la richiesta della procura, e indice l'udienza? Sollevano un altro conflitto, da decidere nel senso che non spetta al gip di omettere di accogliere la richiesta, o mandano direttamente i carabinieri? E poi questo benedetto GIP dovrà ben ascoltarle, queste intercettazioni, a meno di che non considerare del tutto formale questo passaggio (e allora avrebbe potuto essere il PM a procedere alla distruzione); e se poi ne parla a qualcuno? È tutto piuttosto sghagherato, in questa sentenza.
2) L'idea che emerge del ruolo del Presidente della Repubblica. Vale la pena di leggere esteso alcuni brani dell'apparato motivazionale:
(..) la ricostruzione del complesso delle attribuzioni del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in rilievo che lo stesso è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che incidono su ognuno dei citati poteri, allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica della posizione del Presidente si riflette sulla natura delle sue attribuzioni, che non implicano il potere di adottare decisioni nel merito di specifiche materie, ma danno allo stesso gli strumenti per indurre gli altri
poteri costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni, da cui devono scaturire le relative decisioni di merito. (..)
8.3.– Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche, indicare ai vari titolari di organi costituzionali i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il più possibile condivise dei diversi problemi che via via si pongono. È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di persuasione”, essenzialmente composto di attività informali, che possono precedere o seguire l’adozione, da parte propria o di altri organi
costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per valutare, in via preventiva, la loro opportunità istituzionale, sia per saggiarne, in via successiva, l’impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri dello Stato. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.
Le suddette attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori. Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite. L’efficacia, e la stessa praticabilità, delle funzioni di raccordo e di persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della
Repubblica sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale. Non solo le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma costituiscono modalità imprescindibili di esercizio della funzione di equilibrio costituzionale – derivanti direttamente dalla Costituzione e non da altre fonti normative – dal cui mantenimento dipende la concreta possibilità di
tutelare gli stessi diritti fondamentali, che in quell’equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare.
9.– Dalle considerazioni svolte consegue che il Presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte.
Che meraviglia! L'idea di PdR che ha la Corte è quella di un personaggio che trama nell'ombra, che brega e intriga in maniera informale, un soggetto i cui reali intendimenti devono essere sconosciuti al grande pubblico pena l'insorgenza di gravi complicazioni. Più che la massima carica dello Stato assomiglia alla descrizione di un Gran Visir. Elegantissimi poi i passaggi che tentano di conciliare la pretesa natura super partes del PdR ideale con l'inaudito interventismo del PdR reale, e cioè di Giorgio Napolitano, un Presidente che minaccia di sciogliere le Camere in presenza di una maggioranza parlamentare (da qui il governo Monti) e che accetta le dimissioni del Presidente del Consiglio senza che queste vengano precedute da voto di sfiducia (da qui le elezioni a febbraio). E così ci si inventa la "Magistratura d'influenza", un super-potere costituzionale che inquadra il PdR come grande burattinaio della vita istituzionale della Repubblica. Ovviamente al di là di qualsiasi trasparenza e controllo democratico.
3) il clou: a partire dal punto 8.2 in avanti l'estensore si lancia in una mini-teoria generale dell'ermeneutica giuridica. Le leggi non valgono per quello che dicono, questo sarebbe un metodo "primitivo". Al contrario, le leggi valgono in quanto corrispondono ai "principi" che stanno nella testa del'interprete; e se la legge non sembra davvero considerare quei "principi", gli si fa dire il contrario. Ecco un passaggio chiave:
La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente
considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela.
Facile, no? È il metodo deduttivo: postulato il principio "il Capo dello Stato è Sacro e Inviolabile", vi si deducono le norme. Quando il testo costituzionale non ne fa menzione, si integra con la fantasia. Non a caso questo tema è al centro dei commenti mainstream sopra citati.
Passata questa soglia, tutto è possibile.
Sapevamo bene di esserci giocati la Corte Costituzionale. Non pensavamo che saremmo giunti a questi grotteschi limiti.
Questi ultimi anni ci lasciano solo le macerie del nostro ordinamento democratico-costituzionale. Dopo, bisognerà ricostruire.
Commenti recenti