Nazionalismo
di GIOVANNI PAPINI
Il nazionalismo, come tutte le cose in cui entra la mano o la mente dell’uomo, può essere in più modi: buono o cattivo, intelligente o sciocco, apparente o sostanziale.
C’è il nazionalismo dei letterati che, contaminando Giulio Cesare e Maurizio Barrès, un mezzo verso latino e un ritornello francese, spronano l’Italia alla conquista della Tripolitania; c’è il nazionalismo dei ragazzi scappati dal liceo che bruciano le bandiere di foglio gialle e nere sotto le finestre dei consolati austriaci; c’è il nazionalismo dei giornalisti che hanno conto corrente con le acciaierie e le fabbriche di cannoni; c’è il nazionalismo degli armeggioni che gridando Viva l’Italia sperano di acciuffare un po’ di gloria e più tardi una pensione; c’è il nazionalismo degli entusiasti idioti che ammirano qualunque sciocchezza si faccia di qua e sputano su qualunque grandezza sorga di là; c’è il nazionalismo di ottava pagina che colla scusa di proteggere l’industria paesana procura di vuotare i magazzini e di crescere i dividendi; c’è il nazionalismo dei capibanda politici che per non perdere il favor popolare in giorni d’ira o per rinverginare alla meglio la propria fama prostituita fanno discorsi di ferro additando i confini.
Ci sono tutti questi nazionalismi e poi degli altri e nessuno è il nostro.
Preso il mondo com’è fatto ora – e bisogna pigliarlo per forza così, anche se abbiamo una mezza intenzione di cambiarlo, anzi appunto perché abbiamo voglia di cambiarlo – è naturale e necessario che ogni paese non si voglia far mangiare da un altro in senso proprio e figurato e che perciò pensi a farsi rispettare anche con quei solidi mezzi che sono le mitragliatrici e le batterie da montagna.
Questa difesa può sembrare talvolta difesa d’interessi materialissimi di certe classi del paese, ma siccome non preparandola e non facendola si incoraggiano e si aiutano interessi pur materialissimi di simili classi di altri paesi non si vede la ragione per condannarla come una bestialità finché nell’uomo rimetteranno così spesso le sue ràdiche bestiali. Per quanto schifo mi facciano gli appaltatori e industriali protetti che ingrassano a spese della paura di un’invasione, mi piacerebbero anche meno quei Tedeschi che piglierebbero il loro posto e si arricchirebbero alle spalle nostre peggio di prima.
E bisogna pensare che difendendo la patria non si difendono soltanto i grossi interessi di alcuni e, certe volte, anche gli interessi di tutti, ma quel che per noi, costa più d’ogni cosa: una civiltà, una tradizione, una lingua, una cultura. Queste son veramente le cose che fanno la patria e non già i pali di legno dei confini o i colori delle bandiere o i nomi delle dinastie che riscuotono i milioni della lista civile.
E son queste cose, nello stesso tempo, che ci salvano anche da quel nazionalismo bigotto che vorrebbe fare del nostro bel nido una gabbia. Siccome lo spirito non ha confini e l’amore vien dalla conoscenza, studiando e gustando la cultura di un altro popolo si finisce coll’affezionarsi a questo popolo, col sentirsi prossimi all’anima dei suoi più grandi espressori, col farsi di quella civiltà un altro mondo nostro accanto a quello del nostro paese, tanto da sentir, come Goethe, che due anime albergano nel nostro petto.
Non ci sono stati forse stranieri che hanno amato l’Italia quasi più che la patria loro? e non ci sono fra noi spiriti serii e pensosi che si senton cittadini della Germania della fine del settecento e dei primi dell’ottocento; spiriti pratici o sognatori che provano ogni tanto il dispetto di non essere elettori britannici; o spiriti contemplativi e ambiziosi che vorrebbero essere stati partoriti sulle sponde di qualche gran fiume d’Asia?
Ma pur nonostante, sia per il fatto di esser nati qui e di questa razza, sia per l’educazione e l’abitudine e la familiarità della lingua e delle cose, noi conosciamo e comprendiamo e per conseguenza amiamo di più l’arte e la cultura del nostro popolo, della gente in mezzo alla quale siamo, respiriamo e viviamo.
E siccome noi siam quelli che per forza di cose possiamo meglio rappresentare, continuare e far comprendere quest’arte e questa cultura, saremmo dei mascalzoni e tradiremmo non solo l’Italia, ma anche gli altri paesi che aspettano la nostra parte nella grande oeuvre universale, se non si facesse di tutto per ricapire il lavoro dei nostri morti, per dissotterrar quello dimenticato, per interpretarlo con più amore e sapere ch’è possibile, per esaltarlo dinanzi al mondo quanto si merita e, infine, per seguitarlo vigorosamente, non ricopiando ma proseguendo, non serrandoci in casa nostra, ma tenendo tutte le finestre spalancate alla rosa dei venti.
[“La Voce”, 22 aprile 1909]
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