Il mito di Narciso, paradigma dell’era post-moderna
di FEDERICA FRANCESCONI
Se c’è un mito che rappresenta bene la deriva autarchica dell’età post-moderna, questo è quello di Narciso, l’eterno giovane che vive della sua sola immagine riflessa, senza curarsi di ciò che gli sta attorno. Ogni aspetto dell’attuale vita politica, sociale e culturale ha un qualcosa che richiama il narcisismo patologico, dallo scollamento di gran parte della classe dei governanti dai reali bisogni della gente, spregiativamente chiamato il popolino fannullone, alla una figura ambigua dell’intellettuale contemporaneo, che oggi, anziché denunciare le contraddizioni del post-moderno, se ne fa promotore e strenuo difensore.
Se nell’antichità era Prometeo l’eroe ribelle che rubava il fuoco agli dèi per donarlo, in un estremo gesto di sacrificio, all’umanità facendola così balzare in avanti verso la civiltà vera e propria, oggi, in assenza di eroi generosi, l’unica figura in cui potrebbero identificarsi istituzioni nazionali e sovranazionali, comunità, gruppi e singoli individui, è quella di Narciso, che non combatte contro gli dèi, contro la falsa morale o contro il fanatismo religioso, ma vive di passività, di autocompiacimento e di subordinazione a una visione che rispecchia la sua falsa perfezione. Il Narciso post-moderno è incapace di pensare.
Egli si accontenta di spiegazioni posticce, di specchi artificiosi costruiti ad hoc per narcotizzare la sua coscienza e renderlo apatico rispetto ai problemi del presente; è altresì incapace di ribellarsi, impegnato com’è a contemplare una falsa immagine della realtà, presentata dai costruttori di specchi come quella migliore possibile; infine, è incapace di nutrire passioni forti e sincere, slanci ideali, poiché gli è stato inculcato dai costrutti di specchi orwelliani che scopo dell’essere umano è solo quello godere del presente.
Narciso è il politico ammanicato con il potere deviato, teso a contemplare la propria immagine di forgiatore di destini altrui, nell’illusoria convinzione di sapere qual è il bene e qual è il male, senza però ricorrere a un briciolo di etica che possa orientare le sue discutibili scelte. I sostenitori del paradigma neoliberista rientrano sicuramente nella descrizione di sopra. Essi sono devoti servitori dell’economia finanziaria, che tiene in ostaggio popoli, nazioni e interi continenti, economia che ha fatto della crescita infinita e del consumismo indotto i dogmi intoccabili della sua religione idolatrica, nella pretesa antiscientifica e insieme antiumanistica che il mercato è capace di autoregolarsi. In questa prospettiva fuorviante l’etica è concepita come una pregiudiziale da cestinare. E la politica, che fine ha fatto in questo scenario desolante? Essa è ormai scomparsa, condizionata e soggiogata com’è dai poteri economici.
La politica è stata fagocitata da un sistema finanziario che non tollera l’esistenza di zone franche, di campi neutrali dove il mercato rischia di essere contrapposto all’etica. Ed è per questo motivo che i diritti sociali, un tempo garantiti e per di più considerati un vanto per le socialdemocrazie, sono sempre più declassati a oneri, a spesa passiva che ricade sulle spalle di uno stato che non vuole mettere in discussione i principi ingiusti su cui si fonda la distribuzione della ricchezza. Ecco quindi che lo Stato sociale diventa assistenzialismo, e che i fruitori dei diritti sociali passano per parassiti. Lo Stato non è più concepito dalle élite al potere come il garante dei diritti sociali ma come un ente di beneficenza e, come tale, può anche rifiutarsi di assistere le fasce deboli della cittadinanza. Si tratta di un capolavoro, di un canone inverso di cui gli autori sono i tecnocrati, longa manus negli apparati statali della finanza disumana. Parole d’ordine come pareggio di bilancio, eccedenza passiva, circolo virtuoso dell’economia di mercato, sono diventati dei mantra da sciorinare ogni volta che un prometeo sopravvissuto all’azione livellatrice del Pensiero unico ne mette a nudo l’inconsistenza e la disumanità.
Occorre affermare la superiorità del mercato in ogni interstizio dell’esistente in cui può nascondersi un granello di eticità e di umanità. Una volta neutralizzata la politica, il secondo obiettivo che negli ultimi cinquant’anni il narcisismo finanziario ha perseguito è il soggiogamento della classe degli intellettuali in cambio di privilegi e visibilità. Oggi la maggior parte degli intellettuali, salvo qualche eccezione eccellente, è vincolata al sistema finanziario e a quello politico subordinato al primo, da un rapporto di do ut des, un doppio legame, questo, che ha comportato il superamento del ruolo dell’intellettuale come denunciatore delle storture e degli scompensi prodotti dal sistema.
L’intellettuale post-moderno è generalmente una macchietta di se stesso, un Narciso ante litteram, che non vuole e non sa più farsi portavoce di visioni altre rispetto a quelle sistemiche. Anzi, è lui stesso il protagonista principale del processo di omologazione in atto che aspira a ridurre l’umanità a una massa informe ed acritica, con la connivenza di una classe politica del tutto succube ai predoni finanziari. Il narcisi della cultura non hanno protestato nemmeno quando in una quindicina d’anni, in seguito allo sgretolamento del pubblico a tutto vantaggio del privato, gli apprendisti stregoni della finanza hanno trasformato le arti liberali in beni da vendere al miglior offerente, sancendo così la fine dell’indipendenza della cultura da poteri terzi. E così le università, da luoghi del sapere e della formazione di teste pensanti, sono scadute a livello di agenzie per il mercato del lavoro, laboratori sperimentali di inoculazione dei germi patogeni del Pensiero unico. D’altra parte, legando indissolubilmente il ruolo dell’intellettuale alla (sub)cultura dello spettacolo, si è creata una nuova categoria di narcisi, il cui reale valore o estro artistico dipende dagli indici di ascolto.
Il consenso creato ad arte per condizionare milioni di spettatori è forse l’arma più micidiale che i poteri forti hanno forgiato. In questo fenomeno, inutile nasconderlo, gli intellettuali organici al sistema giocano un ruolo decisivo. Politici e intellettuali sono oggi delle variabili dipendenti dell’economia, che aspira a tecnicizzare funzioni che, seppure screditate dalla corruzione, mantenevano un minimo di indipendenza e di umanità. I narcisi patologici che non cercano la verità, che non sanno amare, incapaci di avere un rigurgito etico, sono le pedine perfette di chi vuole cancellare le vere dimensioni dell’Essere, che non sono certo l’economia finanziaria e la tecnica asservita al mercato, prodotti avariati di un’umanità che ha perso la sua Stella Polare.
Che fare dunque? A parere di chi scrive, occorre innanzitutto recuperare la neutralità della politica e della cultura, ambiti della vita civile ormai quasi interamente inghiottiti dalle logiche della finanza. Ciò significa che lo Stato deve recuperare il suo ruolo di mediatore tra il pubblico e il privato, allo scopo di correggere gli eccessi di una dimensione, quella dell’economia, che non è più al servizio delle persone ma narcisisticamente solo di se stessa. Per fare ciò occorre sostituire la logica utilitaristica con la logica dell’umanesimo (non certo quello sbandierato da una certa sinistra ipocrita). Alla domanda “è utile?” o “è vantaggioso?” occorre dare precedenza al principio della dignità. Se un provvedimento, una legge, un prodotto culturale non è dignitoso per le persone, non ci sono appigli di sorta che possano giustificarlo.
La perdita del senso della giustizia sociale non è affatto irreversibile, come qualche cattivo samaritano vuol far credere. Certo, fin quando politici ed intellettuali seguiranno come automi il canto delle sirene finanziarie, non potrà esserci alcun cambiamento di paradigma. Per questo motivo una condizione essenziale per il recupero dell’indipendenza della politica dalla finanza è la messa in discussione dei postulati su cui si fonda il paradigma neoliberista. Per far inceppare il sistema non bastano critiche blande o l’idea semplicistica che il neoliberismo, purificato dai suoi eccessi, possa essere compatibile con la dignità della persona, poiché esso è stato creato proprio al fine di calpestare le dignità.
Mezzo secolo di fallimenti economicistici non hanno insegnato nulla? Le democrazie occidentali, o quel che rimane di esse, continuano imperterrite a scandire lo slogan del paradigma neoliberista nella sua versione moderata. Tuttavia, per usare una metafora, il vino, anche quando è annacquato, sempre vino rimane. Il veleno è veleno, anche se iniettato a piccole dosi non mortali. Il paradigma neoliberista ha fatto dell’intoccabilità del libero mercato una vera e propria idolatria e, come in tutti i culti idolatrici che si rispettino, ha allevato una genia di sacerdoti, politici ed intellettuali, a cui ha affidato il compito di convincere le persone ad assoggettarglisi.
Come uscire dall’impasse idolatrico? Il punto di partenza è sempre lo strappo del velo di apocalittica memoria: strappare il velo significa rendere manifesto ciò che è ancora occultato. Nel caso del neoliberismo bisogna rendere manifesta la sua incompatibilità con la dignità dell’essere umano. Per tale motivo l’intellettuale in questo periodo di crisi può svolgere una funzione preziosissima, quella cioè di smascherare la bontà di un sistema che sta causando più morti della I e della II Guerra mondiale messe insieme. In quest’ottica rivelatrice non c’è posto per narcisi patologici: ogni intellettuale che si rispetti non può non essere contro il sistema disumano. Se, invece, come oggi accade spesso, l’intellettuale è ricoperto di onori dal sistema che dovrebbe combattere, non è più tale ma un fenomeno da circo.
E allora, una volta riappropriatosi della sua funzione naturale, l’intellettuale può diventare un novello Prometeo, che non ha esitato a disubbidire agli dèi pur di migliorare la condizione dell’umanità, preda del freddo e delle belve feroci. Essere dei prometei del XXI secolo significa non avere paura della punizione che gli dèi tecnocrati potrebbero infliggere per aver messo in discussione il paradigma neoliberista. Sopportare le ripercussioni negative che implica attaccare il sistema ingiusto è per uomini eroici, non certo per ominicchi da avanspettacolo. Con il furto del fuoco agli dèi tecnocrati, che hanno potere di vita e di morte su miliardi di persone, l’intellettuale prometeico può riconsegnare la loro vita a se stessi e renderla così autonoma dall’arbitrio dei potenti. Certo, questo è un gesto eroico che chiama in causa doti quali il coraggio, l’abnegazione e l’amore per la verità. Tuttavia, è proprio il rischio che fa di noi degli esseri semidivini.
Chi non rischia non vive, è chi non rischia non andrà mai oltre le nebbie dell’Avalon tecnocratica spacciata per Eden terreno, né tantomeno potrà tirare fuori altri dalla coltre dell’ideologia pervasiva del neoliberismo. Ma attenzione: vivere, rischiare, significa esistere, come diceva Heidegger. Esistere è essere gettati o gettarsi nella vita? Certamente non è essere gettati passivamente nel mare del caos, tra i flutti di onde che non possiamo governare. Gettarsi è tutt’altra cosa: è riappropriarsi del logos, della propria capacità di pensare il presente, e quindi di muovere delle critiche per cambiarlo. Oggi a dominare sul logos è polemos, sotto forma di guerra civile, di guerre umanitarie, di attacco alle identica nazionali, di esibizionismo umanitario di piazza, di contrapposizione fasulle tra categorie, di criminalizzazione di chi non si sottomette al Pensiero unico, e di tutto ciò che lede il diritto delle persone e dei popoli a sopravvivere.
È la parola, quella vera, liberata da vincoli di potere, la sola in grado di spezzare le catene che schiavizzano miliardi di esseri umani a ideologie distruttive che non li rappresentano. La scoperta del logos nella seconda metà del I millennio a.C. è stato l’atto fondatore dell’Occidente, il momento in cui esso ha avuto coscienza di se stesso. Per liberare l’Occidente dalle sue aporie, di cui la dittatura finanziaria è probabilmente la più macroscopica, l’unica via perseguibile è ritornare al logos, alla parola potentemente critica, sovversiva e rigenerante. Il logos è al tempo stesso pensiero e parola, cioè vibrazione che trasforma il presente. È il logos ciò che accomuna tutti gli esseri umani e, per questo motivo, è l’unica facoltà in grado di sconfiggere gli idoli post-moderni.
fonte: ereticamente.net, 29.7.2018
Commenti recenti