Le arti audiovisive e il tema della sovranità: quattro esempi da Corea del Sud, Giappone, Spagna e Norvegia
di Ricccardo Paccosi (*)
In Italia, la sempre più ridotta e tuttavia persistente egemonia ideologica dell’eurofederalismo e del globalismo sui media mainstream, impedisce talvolta di percepire come, a livello internazionale, alcune trasformazioni politiche e geopolitiche della presente fase storica stiano, al contrario, cominciando a consolidarsi nell’immaginario collettivo e, conseguentemente, entro la sfera culturale.
Conferendo allo sguardo una gittata oltre confine, dunque, risulta più nitidamente percepibile la comprensione diffusa del fatto che le relazioni internazionali stiano muovendo verso un configurazione multipolare, alla quale si sta associando altresì un processo generale di ri-nazionalizzazione del mondo.
Chi persegue la prospettiva sovranista, sa che questi fenomeni rappresentano un prerequisito, un contesto più favorevole, ma non ancora un effettivo recupero di quel principio di potere costituente basato sulla sovranità popolare che la recente fase globalista ha gravemente messo in discussione. Ciò malgrado, è interessante notare come il tema della sovranità, oltre a egemonizzare l’agenda politica di un numero crescente di paesi, cominci ad affiorare nei linguaggi artistici e culturali e finanche entro i canali della cosiddetta industria culturale. Parlando di quest’ultima, data la maggiore potenza di fuoco sul versante economico e della penetrazione nell’immaginario, assume un ruolo strategicamente decisivo l’ambito delle arti audiovisive, vale a dire il cinema e le serie televisive.
Senza alcuna pretesa di esaustività, propongo allora una rapida ricognizione analitica con quattro esempi di arte audiovisiva, relativamente recenti, incentrati sul tema della sovranità: quatto esempi provenienti da quattro differenti paesi del mondo.
1) THE FLU (regia di Kim Sung-su, 2013, Sud Corea)
Questo film sudcoreano, rielabora a modo proprio il genere americano denominato disaster movie: ovvero una linea narrativa corale e di massa incentrata su una catastrofe coinvolgente la società intera, contrappuntata dall’intreccio sentimentale e/o famigliare d’un gruppo delimitato di individui coinvolti nell’evento.
Nel film, lo scoppio di un’influenza pandemica e mortale impone al governo sudcoreano di mettere in quarantena un’intera città. Immediatamente, la situazione di crisi porta gli alleati militari della Corea del Sud – ovvero gli Stati Uniti – a intervenire con forza ovvero a impartire ordini al governo di Seul. Specificamente, i militari statunitensi insistono sulla necessità – vista la pericolosità e velocità del virus pandemico – di bombardare la città contagiata e in quarantena, sterminandone gli abitanti e impedendo così la proliferazione del contagio. A quel punto, il premier sudcoreano si ribella a quest’imposizione e giunge a minacciare uno scontro diretto tra forze armate sudcoreane e americane. Grazie a questa fermezza, gli abitanti della città contagiata vengono risparmiati e trovano altresì il tempo per trovare una cura alla pandemia. In conclusione del film, l’esercito degli Stati Uniti si ritrova, sommessamente e con la coda fra le gambe, a dover accettare il nuovo corso d’una Corea del Sud ormai sovrana nelle proprie decisioni.
Fin qui, si potrebbe pensare al punto di vista d’uno specifico regista. Ma vari elementi concorrono, invece, a supportare l’ipotesi che si tratti di un film finalizzato al dettare una precisa linea della classe politica sudcoreana.
Innanzitutto, questo film ad alto budget è stato realizzato coi fondi del Ministero della Cultura sudcoreano.
Inoltre, durante la crisi fra Stati Uniti e Corea del Nord della primavera 2017, sono stati divulgati online aspetti della situazione politica a Seul fino a quel momento sconosciuti alla maggioranza di noi occidentali. Abbiamo cioè appreso che, in maniera trasversale ai singoli partiti, da alcuni anni l’agenda politica sudcoreana era incentrata sul tema d’una emancipazione dalla storica sudditanza militare agli Stati Uniti. Con l’elezione a presidente, un anno fa, del leader di centrosinistra Moon Jae-in, questa istanza si è quindi rafforzata. Una dinamica sovranista talmente marcata, che l’analista geopolitico Pierlugi Fagan si chiedeva, in un intervento scritto nel corso della succitata crisi tra USA e Nord Corea, se non si stesse “guardando alla Corea sbagliata”: se le ragioni dell’aggressività americana verso il governo di Pyongyang , cioè, non avessero come scopo ultimo il far tornare nei ranghi il riottoso alleato sudcoreano.
Sia come sia, per un paese come l’Italia ch’è costretto a ospitare sul proprio territorio 40 basi militari e 90 testate nucleari appartenenti al medesimo “alleato”, l’evolversi dell’istanza sovranista sudcoreana è certamente un fatto da osservare con interesse.
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2) SHIN GODZILLA (regia di Hideaki Anno, 2016, Giappone)
I film con protagonista il celebre dinosauro post-nucleare Godzilla, sono suddivisi in due filoni produttivi: da una parte i recenti adattamenti americani del personaggio curati dalla Legendary Pictures, dall’altra la linea cinematografica originale della casa di produzione giapponese Toho Company, che sforna pellicole sul personaggio, senza soluzione di continuità, fin dal lontano 1954.
Shin Godzilla è, per l’appunto, l’ultima pellicola della Toho Company in ordine di tempo.
Chiunque abbia intravisto anche solo qualche sequenza di questo ciclo cinematografico, ne conosce i tópoi narrativi e i cliché ricorrenti: anche in questo film, dunque, abbiamo l’assalto del kaiju (mostro) Godzilla alla città di Tokyo e il suo conseguente scontro con l’esercito giapponese.
Come il sudcoreano The Flu, anche questo film mette in rilievo la problematicità dell’avere gli Stati Uniti come paese alleato: nel film gli americani, infatti, spingono sull’ipotesi di bombardare – per la seconda volta – il suolo giapponese con armi termonucleari al fine di uccidere Godzilla. Desisteranno alla fine dal proposito, solo grazie alla messa in atto d’un piano alternativo da parte degli scienziati nipponici.
Oltre a questo tema del rapporto con l’America, le scene di azione e distruzione vengono altresì alternate a lunghe (ed esteticamente stranianti) dissertazioni politico-strategiche sulla necessità che il Giappone superi la Costituzione pacifista imposta dagli Stati Uniti nel 1946 e possa, quindi, dotarsi di esercito e armamenti appropriati.
La valenza sovranista di quest’ultimo tema è, certamente, non priva di contraddizioni. Infatti, se negli ultimi due anni il tema del riarmo si è collocato al centro del dibattito pubblico nel Sol Levante, in misura rilevante ciò è dovuto al supporto fornito a tale istanza dall’ascesa alla Presidenza USA di Donald Trump: questi, recando una concezione geo-strategica incentrata sul contenimento anche militare dell’affluente super-potenza cinese, ha in più di un’occasione espresso parere favorevole all’ipotesi che il Giappone potenzi il suo esercito, sino alla possibilità che Tokyo possa disporre d’un vero e proprio arsenale nucleare.
Dunque, siamo in questo caso dinanzi a una prospettiva “sovranista” recante, ambiguamente, il timbro d’approvazione da parte d’una nazione occupante.
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3) LA CASA DI CARTA (ideato da Alex Pina, Spagna, 2017)
Fra tutte le opere citate nel presente articolo, questa serie tv spagnola prodotta e distribuita da Netflix costituisce, sicuramente, il più esteso successo commerciale e internazionale.
La trama è incentrata su un assedio della polizia alla Zecca di Stato spagnola, dove sono asserragliati con ostaggi alcuni rapinatori. Questi non intendono semplicemente rubare: utilizzano i macchinari della Zecca per fabbricare banconote dai cinquanta euro in su, arrivando infine a stampare mille milioni.
Fin da subito, sceneggiatura e regia si strutturano in modo tale da creare immedesimazione coi rapinatori da parte dello spettatore. Se il cuore della trama fosse solo questo, si tratterebbe d’un elemento narrativo certamente non degno di nota, anche perché ampiamente utilizzato in un numero incalcolabile di opere. Le ultime due puntate della seconda stagione della serie, però, rivelano che la scelta di protagonisti criminali è simbolicamente funzionale a un discorso più ampio di apologia della sovversione sociale. Specificamente, l’oggetto di suddetta sovversione si scopre essere la rete di potere bancario-finanziario su cui si regge l’Unione Europea.
Prima di quel momento, vi è in effetti un altro acenno “euroscettico”: durante uno scambio di battute, due dei protagonisti convengono sul fatto che l’euro sia destinato a scomparire nel prossimo futuro. Ma fin qui si tratta, appunto, solo di un breve accenno.
Ben diverso è lo scenario che si presenta nella succitata penultima puntata. I due amanti-antagonisti della serie – il capo della banda dei rapinatori e l’ispettrice di polizia che li contrasta – giungono a un confronto politico. Il capobanda soprannominato “il Professore”, spiega alla poliziotta che l’idea d’impadronirsi dei macchinari della Zecca sia speculare a quanto fatto di recente dalla Banca Centrale Europea. Quest’ultima, infatti, ha creato dal nulla montagne di moneta circolante che, a fronte della crisi finanziaria internazionale, sono finite quasi esclusivamente nelle casse delle banche e delle classi ricche. In breve, il rapinatore enuncia il principio – molto in voga nella sinistra extraparlamentare dei decenni passati – di riapproprazione proletaria.
Così, l’ispettrice di polizia si convince e si schiera alfine dalla parte della banda di rapinatori. Questi ultimi, al prezzo di due morti tra le loro fila e senza uccidere alcun ostaggio, vincono e portano il colpo a segno.
Ora, qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte all’idea di attaccare l’Unione Europea utilizzando un meccanismo narrativo volto a un’apologia della sovversione. Qualcuno potrebbe infatti obiettare che, essendo le direttive eurofederali quasi sempre illegali rispetto alle Costituzioni dei singoli paesi, porre uno scontro con le medesime entro un’ottica illegalista sia controproducente.
Ebbene, forse occorre invece chiedersi se, in uno scontro ideologico frontale come quello in cui siamo immersi, non occorra essere un po’ spregiudicati e saper assestare anche colpi bassi. In altre parole, se la figura del rapinatore presenta una maggiore forza mitopoietica e se il risultato finale consta dell’avere un prodotto culturale di largo consumo generante ostilità verso le anti-democratiche istituzioni eurofederali, ben venga la narrazione incentrata sulla banda criminale.
E ben vengano, pertanto, espedienti retorici come quello in cui uno dei rapinatori protagonisti si butta in uno scontro a fuoco con la polizia per coprire la fuga dei propri compagni. Nel mentre che questo accade, la regia manda in sottofondo “Bella Ciao”, cantata con accento spagnolo. Il rapinatore è alla fine inquadrato a terra, morto, mentre la voce cantata fuori campo intona: “e questo è il fiore del partigiano, morto per la libertà”.
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4) OKKUPERT (ideata da Jo Nesbø, Norvegia, 2015)
Questa serie norvegese è anch’essa distribuita da Netflix ed è altresì, fra le opere citate, l’unica a tema esplicitamente e direttamente geopolitico.
In un tempo presente alternativo al nostro e contraddistinto da una grave crisi energetica mondiale, in Norvegia sale al potere un premier ecologista che sospende la produzione di combustibili fossili per lanciare un piano energetico alternativo.
Ritrovandosi senza disponibilità di petrolio norvegese, l’Unione Europea preme sulla Russia affinché quest’ultima svolga un’invasione “morbida” della Norvegia e faccia ripristinare la produzione di greggio.
Quando questo accade con il dispiegamento di navi da guerra russe sul Mare del Nord e con l’ingresso di diplomatici russi ai tavoli del governo norvegese, gli Stati Uniti dichiarano solidarietà al paese scandinavo, ma dimostrano altresì disinteresse a generare una crisi militare con la Russia intorno a questo tema. La Norvegia, così, si ritrova completamente sola a fronteggiare una lenta ma inesorabile invasione da parte d’un paese immensamente più potente. In breve tempo, una parte dell’esercito norvegese entra in clandestinità e comincia ad avviare una resistenza armata contro gli invasori.
Da parte di chi scrive, va chiarito che sussiste da quattro anni – ovvero dall’avvio della nuova guerra fredda Nato-Russia conseguente alla crisi ucraina del 2014 – una pratica di contrasto nei confronti della propaganda anti-russa espressa dai media mainstream italiani. Questo, però, non in ragione d’una qualche visione del mondo “filo-russa”, bensì per un evidente problema politico di sovranità: l’Italia – così come altri paesi europei – si ritrova oggi costretta a prender parte a una contrapposizione economica e militare impostale dagli Stati Uniti, che è totalmente estranea a quelli che sono i propri interessi commerciali e strategici.
La concezione anti-russa dei norvegesi che vediamo rappresentata in questa serie tv, invece, non è un innesto forzoso da parte dell’apparato di propaganda bellica d’un paese straniero, bensì ha radici che – giuste o sbagliate che possano apparire – sono pienamente endogene e, di conseguenza, degne di un’attenzione scevra da pregiudizi.
Come nel caso delle pellicole sudcoreana e giapponese sopra citate, la geopolitica della fiction gioca d’anticipo su quella reale: un anno dopo l’inizio di questa serie tv, infatti, la Norvegia ha dato avvio al più esteso piano di riarmo della propria storia e per ragioni dichiaratamente legate all’acuirsi della tensione fra Russia e occidente, nonché in seguito a numerosi episodi di sconfinamento e tensione con le forze armate russe nel Mare del Nord.
Quello che però traspare maggiormente – soprattutto nella seconda stagione della serie – è quanto la Norvegia in queste circostanze drammatiche mantenga la propria dignità lottando per la propria sovranità. L’Unione Europea, invece, viene tratteggiata come un antro di viltà e corruzione in cui, non a caso, i cittadini si stanno rivoltando contro i propri governi-fantoccio.
Insomma, quantunque la tesi politica della serie focalizzata sulla pericolosità della Russia possa risultare discutibile, il tema della sovranità è in Okkupert approfondito e problematizzato senza banalizzazioni, senza semplificazioni retoriche.
Trailer:
In conclusione, qualcuno sin dalla lettura del titolo del presente articolo, potrebbe legittimamente domandare: e l’Italia?
Il nostro paese, ebbene, è molto lontano dal poter produrre e distribuire opere recanti tali contenuti, meno che meno opere dal budget elevato. È bene però tener presente che questo non è dovuto soltanto alla già citata presa dell’ideologia eurofederalista presso i media e presso il sistema culturale: vi è, anche, un problema di riduzione nelle dimensioni di tutto il comparto produttivo audiovisivo. Un paese che, nell’ultimo trentennio, dalla produzione di 800 film annui è precipitato a quella di 200, ha un problema di ridimensionamento che reca una maggiore difficoltà a diversificare i prodotti e, di conseguenza, finisce con l’avere una carenza di pluralità per quanto riguarda le visioni del mondo veicolate dai linguaggi audiovisivi.
(*) attore e regista teatrale
Da noi, invece, impazza l’anti-italiano Guadagnino, concittadino dell’altro anti-italiano, nonché ordoliberista, Severgnini.