La provincia dell’impero
Negli anni del “miracolo economico” l’Italia supera lo storico ritardo che la divideva dai maggiori paesi industrializzati. Arriva a questo appuntamento con un’identità nazionale e culturale assai meno forte di quella delle maggiori nazioni europee (Francia, Inghilterra, Germania), e quindi più sensibile all’influenza del paese-guida dell’Occidente, gli Stati Uniti.
Beninteso, il fenomeno dell'”americanismo” (come lo chiamava Gramsci) era diffuso già a partire dagli anni Trenta e riguarda tutto il mondo. Tuttavia è dal dopoguerra che l’influenza degli Stati Uniti diviene sempre più pressante e onnipervasiva, dapprima attraverso il Piano Marshall, poi attraverso la presenza diretta delle multinazionali, della pubblicità, della televisione e dei suoi spettacoli che dilagano nel nostro paese senza quelle pur caute resistenze che altri paesi europei hanno sempre frapposto (la TV, il cinema, la musica leggera dipendono sempre più strettamente dalla produzione americana).
L’Italia è divenuta così, sul piano dell’Entertainment, una provincia dell’impero americano. D’altronde, anche sul piano della cultura “alta” la dipendenza dagli Stati Uniti appare crescente. Se fino agli anni Sessanta e all’inizio dei Settanta la cultura francese si presentava ai giovani come un polo indubbio di attrazione, non è più così nell’ultimo quarto del Novecento. La frequenza di contatti con gli ambienti della ricerca nordamericana è diventata pressoché obbligatoria quasi per tutte le categorie degli uomini di cultura (non solo per gli scienziati, ma anche per i filosofi o i teorici della letteratura). Dagli Stati Uniti giungono la maggior parte delle proposte culturali e artistiche e delle teorie della letteratura.
L’Italia è dunque una delle province dell’impero più “americanizzate”; anzi per certi versi ha accentuato – e perlopiù involgarito – tendenze di costume e di spettacolo provenienti da oltre Oceano. Nello stesso tempo, però, è anche una delle nazioni del mondo in cui si traduce di più, e non solo, ovviamente, libri di lingua inglese. Anche attraverso tale strumento le “novità” culturali provenienti dall’estero (da teorici della letteratura come Lotman e Bachtin, ai minimalisti americani, ai narratori latinoamericani ma anche portoghesi e giapponesi) entrano rapidamente in circolo. La “globalizzazione” insomma funziona anche sul piano culturale. Ciò produce effetti non solo positivi ma anche negativi.
Dato che l’industria della cultura è dominata da gruppi e da logiche multinazionali, tutte le culture nazionali stanno subendo un processo di erosione e di logoramento, e l’Italia, per le ragioni sopra accennate, è uno dei paesi più esposti a tale perdita d’identità culturale. In questa situazione il nostro paese, come accade dalla fine del Cinquecento, ha un ruolo assai più passivo che attivo: assimila idee dall’estero piuttosto che esportarne. In alcuni campi – come la musica colta, l’architettura, in parte la pittura – mantiene un’autorità internazionale. In altri l’influenza italiana è nettamente diminuita negli ultimi decenni: basti pensare al cinema, che dopo il successo internazionale del Neorealismo e l’affermazione di grandi artisti molto noti anche all’estero (Visconti, Antonioni, Fellini, in parte Pasolini) ha conosciuto un momento di grave crisi. Per quanto riguarda il teatro, l’unico autore italiano conosciuto nel mondo nell’ultimo quarto di secolo è Dario Fo, che è stato infatti insignito del premio Nobel.
Nel secondo Novecento l’altro premio Nobel italiano in campo letterario è stato Eugenio Montale, a conferma dell’alto livello della produzione poetica del nostro paese. Mentre infatti, in questo periodo, la narrativa italiana non conosce, a livello internazionale, valori di grande spicco, così non è per la poesia. Ma per questa, forse ancora più che per i pochi narratori di valore, vale un handicap formidabile, quello della lingua. L’italiano è una lingua poco nota all’estero, e sempre di meno lo sarà giacché l’emigrazione di massa è ormai un ricordo del passato e i figli degli emigranti si allontanano dalla lingua dei genitori e assimilano quella del paese dove sono nati.
Anche Eugenio Montale continua perciò a essere tradotto e noto all’estero meno di quanto sarebbe lecito attendersi. Non meno difficile, se non talora quasi impossibile, è la traduzione di prosatori che fanno ricorso a una lingua sperimentale come Gadda o Volponi. Non è certo un caso che nel libro di Bloom, Il canone occidentale, i nomi degli italiani inseriti nell’elenco costituente il canone siano quelli più facilmente traducibili e infatti largamente tradotti in inglese.
In questa situazione gli unici autori italiani del secondo Novecento che abbiano una qualche autorità, notorietà e influenza internazionale si contano sulle dita di una sola mano: sono Pasolini, Calvino, Sciascia (ma più Calvino di Sciascia), Fo, Eco (noto come romanziere e come semiologo). E se allarghiamo l’orizzonte a tutto il secolo solo il nome di Pirandello appare universalmente riconosciuto, mentre, nel campo della scrittura saggistica, si assiste a una notevole fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in America Latina e in diversi paesi del Terzo Mondo, del pensiero di Antonio Gramsci.
Paradossalmente però ciò accade proprio mentre questo autore appare in Italia dimenticato: è una delle conseguenze più curiose dell'”americanizzazione”. Spesso infatti l’Italia appare più “americana” degli stessi americani e anche per questo incapace di difendere i prodotti stessi della propria cultura nazionale.
[testo tratto dal manuale scolastico Il nuovo ‘La scrittura e l’interpretazione’, a cura di R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, vol. 6, G. B. Palumbo editore, 2011]
Commenti recenti