Machiavelli e l’esercito di leva
di LUCIANO DEL VECCHIO (FSI Bologna)
Ricorre, in tutta l’opera machiavelliana, un’espressione: giustizia e armi, con la quale il Segretario fiorentino sintetizza la politica come arte di buon governo e amministrazione dello Stato ed esprime sovente l’interesse per le cose militari fino a santificarle: le armi sono pie quando servono per assicurare la giustizia nello Stato e mantenere la libertà alla Patria.
Nutritosi alla storia dell’antica Roma repubblicana, dentro la quale ritrovava l’amor di Patria, e profondamente consapevole del punto dolente della tragedia nazionale, reinventò l’esercito popolare di leva. Convinto della superiorità del reclutamento “d’ordinanza” su quello della “condotta” mercenaria (“Le mercenarie ed ausiliari sono inutili e pericolose”), ci mise l’anima ad arruolare soldati nel contado di Firenze, ad armarli, a farne compagnie efficienti. Prima ancora che tramontasse l’era delle compagnie di mestiere e di ventura, non si stancò mai di insegnare agli Italiani che cosa è una forza militare propria: “se uno tiene lo stato suo fondato in sulle armi mercenarie, non starà mai fermo né sicuro” (Il Principe/XII).
Alla lezione del Principe (“la rovina d’Italia non è ora causata da altra cosa, che per essere in spazio di molti anni riposatasi in sull’armi mercenarie”) fa eco nell’Arte della guerra la massima ricorrente: cives milesque bonus: il soldato è il cittadino in armi che difende la Patria, tanto più valorosamente quanto più l’ama. L’immedesimazione tra soldato e cittadino è massima in un esercito “d’ordinanza”, cioè dove il potere militare è subordinato a quello civile “l’arme hanno ad essere operate o da uno principe o da una repubblica”. Far dipendere il potere militare da quello civile era necessario per dare all’esercito una disciplina e uno spirito che lo emancipasse dalla condotta personalistica (“tenerlo con le leggi che non passi il segno”).
L’idea di una milizia né mercenaria né straniera è parte integrante e funzionale alle sue concezioni politiche. In più luoghi del Principe e dei Discorsi egli sottolinea la stretta connessione esistente tra buone milizie e buone leggi “non possono essere buone leggi dove non sono buone armi, e, dove sono buone armi conviene che siano buone leggi”.
Nell’analizzare la situazione militare degli Stati italiani, pose con forza il problema dello Stato: “I principali fondamenti che abbino tutti li Stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone leggi e le buone armi”. Come sul piano militare il problema è “fare” l’esercito, così sul piano politico l’unica soluzione è il Principato nuovo, cioè un organismo politico a base territoriale, lo Stato di dimensioni moderne, alla cui realizzazione è subordinata ogni riforma militare. Avendo osservato durante gli anni della sua intensa attività diplomatica la viltà e la stupidità “ruinare” senza sosta principi e popoli, non volle far mancare a futura memoria la sua implacabile lezione: la debolezza può essere crudele e la durezza caritatevole.
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