La nostra sconcertante mancanza di materialismo. Sull’università italiana.
di LE PAROLE E LE COSE (Claudio Giunta)
[LPLC ripubblica i migliori contributi dei suoi collaboratori. L’articolo che segue è uscito il 13 settembre 2011].
Dividerò queste brevi considerazioni sui problemi dell’università in tre parti. In ordine d’importanza e di gravità: (1) strutture, (2) docenti, (3) studenti. Premetto che saranno considerazioni molto concrete, niente affatto tecniche, nate dall’osservazione di come l’università funziona e non dallo studio di ciò che l’università come istituzione è stata, è e potrebbe essere; e che saranno le considerazioni di un docente della facoltà di Lettere e Filosofia: talvolta generalizzabili, talvolta no.
Strutture
Una delle cose più sconcertanti, nel dibattito sulla scuola e sull’università, è la quasi totale mancanza di materialismo nel preciso senso di: attenzione alla materia, alle cose. Bisogna dunque ricordare che la scuola e l’università sono, innanzitutto, gli edifici che ospitano la scuola e l’università.
Quando i miei colleghi tornano sospirando dagli Stati Uniti o dall’Australia o dalla Germania o dal Giappone non sospirano perché in quei paesi hanno trovato colleghi migliori di quelli che hanno lasciato in Italia, o perché gli studenti sono più intelligenti, colti, motivati, o perché li hanno pagati di più. Può succedere, ma di solito non sospirano per questo. Sospirano perché in questi paesi hanno trovato condizioni di lavoro concretamente, fisicamente migliori. Questo significa tra l’altro: aule decorose, uffici ospitali, bagni decenti, laboratori, biblioteche a scaffale aperto, ristoranti interni, alloggi per gli studenti e per i docenti in visita. Nella gran parte delle università italiane non si trova niente del genere. È normale fare lezione a folle oceaniche in aule striminzite; è normale condividere lo studio con tre-quattro colleghi, il che significa dover ‘fare ricevimento’, spesso, davanti alla macchina del caffè. I bagni sono, mediamente, delle latrine. Le biblioteche a scaffale aperto sono una chimera: l’Italia è il paese in cui per ‘bibliotecario’ s’intende non qualcuno che aiuta gli studiosi nelle loro ricerche (come dovrebbe essere ed è nei paesi civili) ma qualcuno che trasporta e che dà i libri, una specie di facchino con gli occhiali, perché studenti e studiosi i libri è meglio che non li prendano da soli (e il danno che questa sola stortura procura alla formazione degli studenti è incalcolabile). Le mense sono rare e, mediamente, pessime, e questo è male, tra l’altro, perché mense e ristoranti interni sono i luoghi in cui studenti di anni diversi e di facoltà diverse possono incontrarsi e discutere di cose che non siano l’esame del giorno dopo. Il numero degli alloggi per studenti e visiting professors è ridicolo: il che, oltre a favorire il fiorentissimo indotto di affitti al nero che qualsiasi studente fuori sede impara a conoscere appena sbarcato nella Grande Città, vanifica tutta la retorica sulla ‘internazionalizzazione’ che riempie le circolari ministeriali e d’ateneo – cosa vogliamo internazionalizzare se non sappiamo dove far dormire e far mangiare la gente? Perché tutto questo non resti un elenco astratto: molte delle Facoltà di Lettere che conosco, per esempio a Roma, Torino, Pisa, Firenze sono così, sono posti in cui – al di là di tutti i problemi contingenti – è spiacevole lavorare perché gli edifici che le ospitano sono brutti o cadenti o non abbastanza attrezzati. La ragione principale per cui, invece, ‘si sta bene’ a Trento, l’università in cui insegno, è che gli edifici sono funzionali, ho uno studio decente, bagni decorosi, buone biblioteche, eccetera. Tutto piuttosto semplice.
Il fatto è che negli anni passati non sono mancati i fondi per la costruzione di nuovi atenei. Sono invece mancati i fondi per la manutenzione, la ristrutturazione e l’ampliamento degli atenei vecchi. O per dire meglio: i fondi degli atenei non sono stati usati per questo scopo ma per scopi diversi, primo fra tutti il pagamento degli stipendi dei (pochi) docenti neo-assunti e dei (molti) docenti promossi anche grazie all’ope legis e ai concorsi-farsa. Si è fatto cioè l’interesse del personale impiegato nell’università e non l’interesse dell’istituzione, l’interesse privato e non l’interesse pubblico: un costume che del resto impronta di sé, e snatura, la vita universitaria italiana (o la vita italiana tout court) nel suo complesso.
Rimedi. Difficile trovarli adesso, in tempi di ristrettezze che non sembrano destinati a passare tanto presto. Ma è chiaro che su questo punto non è possibile affidarsi alla buona volontà di presidi e rettori, perché la loro volontà può non essere buona, o può essere vanificata dalla pressione dei docenti che li eleggono. Bisogna che i fondi destinati alla manutenzione degli edifici, ai laboratori e alle biblioteche non possano essere stornati ad altri capitoli di spesa, e che il ministero premi con risorse aggiuntive – risorse che andrebbero tolte agli atenei renitenti – quegli atenei che dimostrano di voler investire in questo settore, nell’istituzione insomma, e non solo negli stipendi per i docenti e il personale tecnico-amministrativo. Per fare un esempio: il GIM (Gruppo Interuniversitario per il monitoraggio dei sistemi bibliotecari d’ateneo) raccoglie da alcuni anni dati sulla qualità delle biblioteche universitarie (spazi, attrezzature informatiche, percentuale di scaffale aperto, orari di apertura, eccetera). Se di dati come questi si tenesse conto per calibrare l’erogazione dei fondi ministeriali, gli atenei – toccati nel portafoglio – sarebbero invogliati, probabilmente, a condotte più responsabili, o meno irresponsabili.
D’altra parte, è chiaro ormai che i pochi soldi dello Stato dovrebbero essere integrati dai soldi dei privati attraverso una politica sensata di fund-raising e di sgravi fiscali. È ben vero che i milionari italiani preferiscono legare il loro nome alle squadre di calcio piuttosto che alle biblioteche, ai musei e alle scuole. Ma questa non è una legge iscritta nei geni della popolazione (gli italiani cattolici vs. gli americani protestanti): è una lacuna culturale che può essere colmata. Per farlo, gli atenei dovranno comportarsi un po’ come le università americane, che hanno uffici destinati allo scopo dove si seguono le carriere degli ex-allievi, li si tiene aggiornati con la newsletter, si prospettano donazioni legate a precisi, verificabili obiettivi scientifici, oppure a migliorie nelle strutture dell’università, eccetera.
Docenti
La prima cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale per chi insegna nelle scuole elementari, medie e superiori) è che parecchi sono indegni del loro ruolo. C’è un’indegnità scientifica. Non hanno scritto niente, non scrivono niente, scrivono sciocchezze, non studiano, fanno sempre le stesse quattro lezioni ripetendo quello che dice il manuale, si occupano di cose irrilevanti, ignorano tutto ciò che sta al di fuori del ‘tema di ricerca’ che qualcuno ha scelto per loro quando avevano vent’anni, e via dicendo. E c’è un’indegnità morale. L’indegnità morale si manifesta soprattutto nell’usare l’università come se l’università fosse, per qualche bizzarra ragione, una cosa che appartiene ai docenti. Nelle facoltà professionalizzanti questa idea è, credo, tanto ovvia da non dover essere nemmeno discussa: l’università non serve alla comunità che la paga ma all’avvocato o al medico o all’ingegnere che la usano come status-symbol (secondo l’equazione ‘titolo di professore sul biglietto da visita = raddoppio delle parcelle’) o come fucina di collaboratori a buon mercato. Nelle facoltà umanistiche gioca invece un ruolo preponderante l’idea narcisistica che molti docenti hanno di se stessi: quella di non essere degli insegnanti con un lavoro da fare, delle norme da seguire, una serie di mansioni da adempiere, bensì dei Liberi Intellettuali incaricati di controllare che la Storia corra sui binari giusti e che il Bene trionfi. Se uno pensa a se stesso in questi termini disincarnati – se uno non è un funzionario ma un Chiamato – ogni appello alle regole, o anche solo al buon senso, è uno schiaffo alla sua dignità: lo lascino stare, non gli chiedano conto delle sue azioni, di certe piccole porcherie, perché sa bene lui che cosa va fatto nell’interesse di tutti.
La seconda cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale per chi insegna nelle scuole elementari, medie e superiori) è che sono spesso eccellenti. Io ho studiato a Pisa e ho avuto dei professori eccellenti. Insegno a Trento e ho dei colleghi eccellenti, in tutte le facoltà. Alcuni appartengono alla generazione complessivamente nefasta dei baby boomers. Altri sono miei coetanei, o più giovani: sono pochi, e purtroppo nessuno di loro è ordinario. Tra questi ce ne sono di davvero eccezionali, e quando penso che invece di passare la mia vita parlando con loro oggi potrei sprecarla nella redazione di un giornale, o in qualche altra triste occupazione para-intellettuale, benedico il mio destino.
La terza cosa da osservare a proposito dei docenti universitari italiani (ma lo stesso vale…) è che un docente pessimo non verrà punito e un docente ottimo non verrà premiato. Tutti e due non sono licenziabili, tutti e due hanno diritto agli stessi (miseri) benefit e agli stessi fondi di ricerca; il loro stipendio dipende dalla loro anzianità, non dal modo in cui fanno il loro lavoro. L’unico incentivo a far bene il proprio lavoro è l’amor proprio: un incentivo che invecchiando – i figli crescono, le ex-mogli esigono – diventa sempre più debole.
Così a un certo punto succede che, messi davanti a questa situazione confortevolmente bloccata (stipendi bassi rispetto ai colleghi stranieri, ma sicuri e, soprattutto, indipendenti dal proprio impegno e dalle proprie capacità; considerazione sociale né bassa né alta; pochi obblighi reali, e quei pochi quasi tutti aggirabili; molto tempo libero), molti docenti universitari, anche bravi, fanno altro. I medici visitano, gli economisti amministrano, gli ingegneri costruiscono, gli avvocati patrocinano. Lo stipendio di docente diventa argent de poche. Ma, inevitabilmente, anche l’impegno di docente diventa un travail de poche, che si può delegare tranquillamente agli ‘assistenti’ (una categoria abolita più di trent’anni fa che tuttora prospera nelle università sotto lo pseudonimo gentile di ‘dottorandi’ o, dio rimeriti con la sua destra il genio ministeriale che ha coniato questa formula, ‘cultori della materia’). Gli scienziati cercano di mettere un piede nelle aziende o nelle banche come consulenti. Gli umanisti sono i più commoventi di tutti, perché sono i più inutili e, insieme, i più vanitosi, e, dato che si occupano di cose in fondo facilmente comunicabili (poesia, archeologia, storia, arte), vorrebbero un almeno un pezzetto della fama e del denaro che inondano, immeritatamente, le starlet della società dello spettacolo. Perciò parecchi di loro perdono il controllo e si mettono a fare di tutto, a scrivere di tutto, anche gratis, per chiunque glielo chieda. Se il quotidiano locale ha bisogno di un articolo sulla pizza margherita, l’antropologo culturale (qualsiasi cosa sia un antropologo culturale) scrive un articolo sulla pizza margherita. Se «La Repubblica» («La Repubblica»!!) ha bisogno di dieci righe sulla roulette dei calci di rigore ai mondiali, la docente di filosofia morale scrive dieci righe sulla roulette dei calci di rigore ai mondiali inzeppandola di citazioni scriteriate da Bourdieu. L’idea che tra i loro compiti ci sia anche quello di mantenere il discorso pubblico a un livello decente, l’idea di dire ogni tanto ‘no, grazie’, non li sfiora. E così anche per loro, alla fine, fare lezione e parlare con gli studenti diventa un secondo lavoro.
Rimedi. Tanti, e nessuno applicabile, temo, se non accettando il fatto che questo popolo di razionalissimi diavoli agisce seguendo il suo interesse materiale. Se un giovane brillante, con una vera vocazione di studioso, ha davanti a sé la scelta tra diventare dirigente d’azienda a trent’anni e fare il ‘cultore della materia’ fino a quaranta e poi, forse, diventare ricercatore, abbandonerà l’università – dopo averla usata per cinque o più anni in cambio di una tassa poco più che simbolica – e farà bene. Le cose all’università cominceranno a migliorare quando diventeranno professori ordinari dei trentenni che hanno scritto tre articoli eccezionali e quando smetteranno di diventarlo dei sessantacinquenni che hanno scritto dieci libri irrilevanti ma – secondo la soave espressione usata (senza ironia) da un mio collega – meritano una medaglia prima della pensione. Finché l’anzianità verrà considerata più importante della capacità, l’università attirerà i mediocri e respingerà i migliori.
Per la stessa ragione (l’interesse materiale), è necessario che i risultati scientifici e didattici vengano premiati, il che significa diversificare gli stipendi, o i benefits (meno ore di lezione, congedi più frequenti), per esempio, tra full professors che non fanno niente da decenni e full professors che continuano a studiare, scrivere, formare studenti. Altrimenti i migliori se ne andranno all’estero: Germania, Svizzera, Stati Uniti, Asia. E i più abili continueranno a usare l’università come trampolino per le professioni, la pubblicistica, la politica. Bisogna chiedere di più ai docenti: più ore d’impegno nelle lezioni, nei colloqui, nella ricerca – ma, prima, bisogna dare di più a quelli che se lo meritano.
Studenti
Sugli studenti, che provengono da scuole diverse, che frequentano facoltà diverse, è inutile generalizzare. Forse l’unica osservazione generale che si può fare è che – dato che la vita si allunga, le cose da imparare si accumulano e si complicano, la società cambia rapidamente, i media prendono il posto della scuola – a tutti farebbe bene un biennio o un triennio di ‘formazione culturale di base’, qualcosa di simile al college americano, eventualmente con l’opzione per una o più discipline caratterizzanti (major e minor). Il 3+2 della riforma Berlinguer mirava, probabilmente, a qualcosa del genere. Ma, per come è stato impostato e per come è stato applicato, ha evidentemente fallito l’obiettivo. Quella che occorreva e occorre è una rifondazione, non una riforma, per di più a costo zero: e la rifondazione non c’è stata, né ci sarà.
A differenza della scuola dell’obbligo, l’università è, tra l’altro, il luogo della selezione. Un’università in cui tutti vengono promossi per il semplice fatto di pagare le tasse universitarie non è un’università che possa attirare gli studenti migliori. Si può discutere sui modi in cui attuare questa selezione. Per quanto riguarda le facoltà umanistiche mi sembra opportuno che una prima selezione avvenga all’ingresso. Una facoltà di Lettere non dovrebbe organizzare dei corsi di italiano scritto perché le matricole non sanno coniugare i verbi o non conoscono l’ortografia: dovrebbe dissuadere dall’iscriversi quegli studenti che a diciotto anni non sanno coniugare i verbi e non conoscono l’ortografia, perché quando ne avranno ventitré non sapranno che fare della loro vita. L’acculturazione di massa è un giusto proposito ma – per quanto sia tentante sentirsi investiti di un ruolo così nobile – non può essere il proposito dell’università, o può esserlo soltanto in circostanze e contesti particolari come i programmi di lifelong learning, un settore nel quale il sistema scolastico e universitario italiano è, manco a dirlo, alla preistoria.
Lo scopo di una facoltà umanistica – benché si tenda spesso a pensare il contrario – non è neppure quello di migliorare l’anima degli studenti o di assecondare le loro passioni. È giusto fare quello che piace se quello che piace è anche quello per cui si è portati. Non è difficile, da adolescenti, appassionarsi a Kafka o a Klee o ai Pink Floyd (più difficile che ci si appassioni, mettiamo, a Tasso o a Poussin o a Bartók). Ma, dopo l’adolescenza, ‘seguire le proprie passioni’ (un tipico consiglio da società dello spettacolo, sul registro demenziale di ‘esprimere se stessi’) senza avere né vocazione né cultura è una ricetta per il fallimento e per la disperazione. Questo tendono a dimenticarlo non solo i diciottenni che s’iscrivono in massa al DAMS o a Lettere o a Scienze della Comunicazione ma, cosa molto più grave, i docenti di quelle facoltà, che si compiacciono nel vedere le loro aule piene di futuri disoccupati incapaci di seguire un discorso minimamente articolato, e che li promuovono agli esami non per la loro attitudine e preparazione ma per la passione che li agita (mi auguro proprio che lo stesso metro non valga a Medicina: preferisco essere operato da un bravo medico un po’ svogliato piuttosto che da un entusiasta che però sviene quando vede il sangue).
Lo scopo di una facoltà umanistica, oggi, è simile (anche se non identico) a quello di tutte le altre facoltà. Formare persone che possano trovare un lavoro dopo la laurea. Queste persone non saranno dei professionisti (dunque è ora di finirla con la frottola delle facoltà umanistiche ‘professionalizzanti’: non lo sono e non devono esserlo) ma degli intellettuali, un nome che può essere riempito di molti contenuti ma non di tutti i contenuti. Possiamo discutere a lungo su quali siano i contenuti giusti. Ma forse potremmo trovare un accordo di massima su quelli sbagliati. Forse è sbagliato perseguire le proprie passioni fino all’estenuazione, e fare prima un esame, poi una tesina, poi la tesi triennale, poi la tesi del biennio su Kafka o Klee o i Pink Floyd. Forse è sbagliato schiacciare le preparazione sulla contemporaneità, dato che di contemporaneità è piena la vita: il che non vuol dire mettere l’esame di greco obbligatorio per tutti ma almeno pretendere che tutti quanti sappiano che i greci ci sono stati. Forse è sbagliato chiedere di esprimere le proprie opinioni su questioni complicate a ventenni che non conoscono neppure i rudimenti della ricerca (e dunque, per esempio: vogliamo abolire quel tour de force di dilettantismo e finzione che è, di norma, la tesi triennale?). E forse è il caso di evitare quel simpatico salto dall’Ignoranza al Postmoderno che molti studenti fanno, incoraggiati da docenti insicuri e vanesi, all’insegna del ‘tutto c’entra’ o ‘tutto è testo’ o ‘tutto è interpretazione’ (tesi rispettabilissime, anche se prese da tutti un po’ troppo sul serio, ma che andrebbero fatte valere in un ambito diverso da quello in cui si svolge la formazione di base degli studenti).
Così definita, o ridefinita, la funzione delle facoltà umanistiche, e considerando che viviamo nel 2011 e non, ahimè, nell’Atene del quarto secolo avanti Cristo, è anche chiaro che la società (quella che, tendiamo a dimenticarlo, finanzia l’università pubblica e privata) non ha nessun bisogno che le facoltà umanistiche laureino ogni anno mille o diecimila filosofi, letterati, storici, scienziati della comunicazione. Ne servono molti di meno, e di livello molto superiore: e numero e qualità sono qui, com’è intuitivo, grandezze inversamente proporzionali. Dunque occorrono meno facoltà umanistiche, più piccole, più selettive. Gli iscritti a Lettere non dovrebbero essere più numerosi degli iscritti a Scienze. E potremmo fare serenamente a meno di tutti gli iscritti a non-facoltà come Beni Culturali (esiste la storia dell’arte, l’archeologia, la biologia: non esistono i Beni Culturali) o Scienze della Comunicazione. Credo che chi obietta che l’università è di tutti e tutti hanno diritto di frequentarla, indipendentemente dalle attitudini e dal merito, e pagando poco, non valuti bene le conseguenze della sua obiezione, anche se alcune di queste conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. E credo che chi obietta che le facoltà umanistiche non sono soltanto degli indirizzi di studio ma anche tante altre cose meravigliose – un avamposto della Civiltà nel quale i giovani possono coltivare disinteressatamente le loro passioni, un baluardo contro l’invadenza dei media, un luogo del conflitto permanente, un ascensore sociale – fraintenda il ruolo che può e deve avere oggi l’università, e l’università pubblica in ispecie: un fraintendimento dettato, direi, piuttosto dal narcisismo che dalla generosità.
[Questo articolo è uscito su Italianieuropei online]
[Immagine: Gerard Richter, Stadt (gm)].
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=34706
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