“Redazione. Arriva la notizia. Panico. Che facciamo? La diamo? Non la diamo? Ne diamo mezza? E se la diamo a notte? Intanto, mentre voi stavate a parlare di nucleare, Michele Misseri ha potato l’albero di casa, e voi ve lo siete persi”. Con queste poche parole, dopo aver rassegnato le dimissioni dalla Rai, la giornalista Elisa Anzaldo dipingeva una scena di prassi quotidiania nella redazione del più importante telegiornale nazionale. Quello esposto dalla Anzaldo è un metodo giornalistico sempre in azione, che vale per tutto, dagli scandali di corruzione alle denigrazioni degli avversari politici, dalle campagne elettorali fino alla sana e profonda propaganda di guerra. Quest’ultima in particolare si realizza non solo attraverso una cinematografica mistificazione dei fatti, ma anche nascondendo quelle dichiarazioni o persino quegli eventi che possano mettere in dubbio l’autorevolezza della menzogna di Stato.
A un anno dalla battaglia di liberazione della Ghouta orientale e dagli eventi che ne seguirono, si potrebbe raccogliere una tale quantità di mistificazioni e omissioni da redigere un moderno manuale di propaganda di guerra. Chi si occupa del conflitto siriano ricorda molto bene quei giorni. L’asse russo-siriano doveva demolire una delle più minacciose roccaforti dei terroristi, che da Ghouta – a pochi chilometri da Damasco – oltre a tenere in ostaggio la popolazione locale, lanciavano continui attacchi nelle zone più affollate della capitale. Una riconquista da scongiurare ad ogni costo, per chi negli ultimi otto anni, seppur con gli stravolgimenti dei fronti e le complessità degli eventi, ha investito denaro ed energie per sguinzagliare il terrorismo contro uno “Stato Canaglia”.
Da tempo i telegiornali principali non menzionavano la guerra siriana nei loro servizi, così come i quotidiani ne dedicavano, nel migliore dei casi, qualche riga in fondo al giornale, rispetto ai grandi temi di allora, come la “flat tax” e il “ritorno del fascismo”, dal momento che si era agli sgoccioli della campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo. Poi arrivò l’urgenza di distorcere i fatti di Ghouta. Così, dal TG1 del mattino a Che Tempo Che Fa, quella che era una battaglia di liberazione, raccontata però come “assedio”, occupò i maggiori spazi televisivi, narrata per bocca di sedicenti esperti che applicavano con precisione chirurgica la teoria chomskiana secondo la quale “la propaganda sta alla democrazia come la violenza sta alla dittatura”.
Poco importa che venisse volutamente omesso di riportare dichiarazioni cruciali delle autorità politiche e militari russe e siriane. Non si doveva sapere, per dirne una, che l’ambasciatore permanente siriano presso le Nazioni Unite, Al Jafari, in un intervista rilasciata a Sputnik, avesse dichiarato che le Nazioni Unite erano state formalmente avvertite almeno 140 volte del fatto che i terroristi erano pronti a creare un casus belli di cui incolpare Assad e per invocare l’intervento militare occidentale. Poco importa che il 5 aprile, tre giorni prima dell’attacco, in seguito al vertice con i paesi garanti del processo di pace in Siria ad Astana, lo stesso Putin abbia detto :”Abbiamo prove inconfutabili che i terroristi in Siria stanno organizzando provocazioni con l’uso di sostanze tossiche”.
Queste dichiarazioni furono sbriciolate dal macigno del monologo di Saviano, ascoltato in diretta da milioni di spettatori e che ebbe un seguito sui social impossibile da calcolare. Non solo il monologo girò senza freni sui social, ma lo stesso scrittore napoletano – che è stato appena onorato di un importante premio culturale – lanciò la campagna delle mani e del naso tappato, destinata al ludibrio della storia per il fatto che famosi aderenti sbagliarono persino a scrivere il nome di Assad. Nel monologo Saviano l’Indignato si chiedeva che fine avesse fatto l’Occidente e perché non intervenisse.
Richiesta ampiamente soddisfatta pochi giorno dopo, quando i White Helmets, l’ONG finanziata con milioni di dollari da governi direttamente coinvolti nel conflitto, confezionarono per il civile ma assetato di sangue pubblico occidentale, un filmato – smentito dagli stessi protagonisti del video alla sede OPAC dell’Aja – in cui venivano mostrati i soccorsi frenetici di improbabili uomini, donne e bambini gasati, a detta loro, dal folle Assad, nessuno dei quali morì in seguito a quello che tutta l’informazione occidentale diceva essere un attacco chimico. Unica prova del presunto attacco, come ammise l’allora Ministro della Difesa americano James Mattis, questo video mise in azione una flotta militare battente bandiera USA, francese e inglese che – in pericolosa rotta di collisione con la flotta russa schierata a largo della costa siriana – bombardò la capitale di uno Stato sovrano, peraltro in modo del tutto fallimentare.
È materia di riflessione il fatto che gli unici intellettuali a cui era dato spazio televisivo, a mantenere una posizione onesta nei confronti di questa aggressione furono Freccero “Il Terribile” e il tanto vituperato Marcello Foa – che non ebbe mai timore di porre dei dubbi sulla narrazione giornalistica ufficiale e conformista – e che per la sua indipendenza intellettuale pagò con la voce “Controversie” sulla pagina Wikipedia a lui dedicata, in cui lo si accusava di diffondere il complotto massonico-grillino del false flag, che poi un complotto non doveva essere dal momento che la sua opinione fu confermata scientificamente dall’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, la quale ammise che non si trattò di attacco chimico.
Ed ecco che pochi giorni fa un inviato della BBC, Riam Dalati, ha scritto su Twitter:”Dopo quasi 6 mesi di indagini, posso provare senza dubbio che la scena dell’Ospedale di Douma è stata una messinscena. Nessun attacco mortale si è verificato in ospedale.” La BBC, con triste coerenza, ha preso le distanze dal giornalista invece di dedicargli l’apertura di tutti i servizi.
Ce n’è abbastanza di cui riflettere: l’episodio dell’attacco chimico può essere assunto come paradigma metodologico per capire come funziona la costruzione di una bufala e la denigrazione di coloro i quali assumono posizioni anticonformiste, e ancora di più se lo fanno con dati alla mano compromettenti. A questo punto la domanda sorge spontanea: che fare? Risposta: continuare a sottoporre a dubbio categorico le narrazioni di ogni grande evento storico – come lo è oggi la questione venezuelana – e costituirsi come memoria storica contro l’arroganza di chi fabbrica le opinioni e il conformismo degli esperti, quelli che fra qualche anno ammetteranno i loro errori interpretativi, magari incolpando qualcun’altro dei loro limiti cognitivi ma riservandosi comunque la poltrona d’opinionista per i prossimi anni, perché “l’esperto”, diceva Longanesi, “è colui che – a pagamento – ti spiega perché ha sbagliato l’analisi precedente”.
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