Alessandro Roncaglia, “L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo”
di KEYNESBLOG
Pubblichiamo la presentazione dell’autore tenuta presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, marzo 2019
Il libro che vi presento arriva in libreria in questi giorni, dopo una lunga (e faticosa) fase di gestazione. Si intitola L’età della disgregazione ed è, come dice il sottotitolo, una Storia del pensiero economico contemporaneo. Ho già consegnato la versione inglese alla Cambridge University Press, ed è in corso la traduzione spagnola.
Il titolo allude al fatto che la ricerca in economia è sempre più frammentata, sia per campi sia per orientamenti di ricerca. Chi si occupa di finanza o di econometria raramente conosce i dibattiti di teoria del valore o dell’impresa; inoltre, in ciascun campo coesistono impostazioni radicalmente diverse: keynesiani, neoclassici, istituzionalisti, e così via, fino agli induttivisti sostenitori di una econometria ateoretica.
Questa duplice frammentazione impedisce una esposizione lineare e complica ulteriormente un compito già reso difficile dalla vastità del terreno da coprire: ogni anno escono migliaia di riviste e migliaia di volumi sui diversi temi dell’economia. Accade così che tanti ricercatori, per affrontare in modo davvero approfondito il tema prescelto, passino la vita a studiare l’ultima falange del dito mignolo, come diceva Becattini. Il problema in realtà non è concentrarsi sul dito mignolo, come in qualche momento della nostra attività tutti noi facciamo, ma farlo in totale assenza di consapevolezza del corpo umano al quale è collegato. Quindi, proprio la frammentazione rende indispensabile un tentativo di raccordo. Anche perché in moltissimi casi la disgregazione permette agli economisti attivi nei vari campi specialistici di sorvolare sulle debolezze spesso tragiche delle fondamenta della loro ricerca.
Schumpeter distingueva tre fasi nella ricerca, che spesso si intersecano in un processo non lineare. La prima fase è la concettualizzazione: la costruzione di una rete di concetti che specificano la visione del mondo; ad esempio il mercato inteso come punto nel tempo e nello spazio d’incontro tra domanda e offerta, come nelle fiere medievali o nella borsa valori moderna: questo è in sostanza il concetto utilizzato sia nel Medioevo sia dalla teoria marginalista; oppure il mercato inteso come rete di relazioni tra le diverse attività produttive in un’economia basata sulla divisione del lavoro, che è il concetto utilizzato dalla teoria classica e keynesiana. O il concetto di valore utilizzato dagli economisti marginalisti, come indicatore di scarsità relativa, contrapposto a quello degli economisti classici di indicatore della difficoltà di produzione. O il concetto marginalista, e di tutta l’economia mainstream di oggi, di homo oeconomicus concentrato sulla massimizzazione della propria utilità, considerata una grandezza monodimensionale perfettamente nota all’agente, contrapposto a quello smithiano e più in generale illuminista, ma già presente nella tradizione classica da Aristotele a Seneca, dell’essere umano come animale sociale mosso da un insieme variegato di passioni e di interessi.
Dopo la concettualizzazione, la seconda fase è la costruzione di modelli che collegano fra loro variabili il cui significato è considerato come un dato acquisito, mentre l’attenzione del ricercatore si concentra sulla coerenza logica interna dei modelli. La terza fase è quella del confronto con la realtà, che valuta il realismo delle diverse relazioni su cui si basa il modello e/o delle previsioni da esso derivabili.
Nel libro mi concentro sulla prima e sulla seconda fase, con cenni molto rapidi alla ricerca applicata e ai connessi problemi di metodo, che pure hanno costituito e costituiscono un ampio terreno di ricerca e di dibattito. Inizio con una esposizione sintetica del retroterra della teoria economica contemporanea, già di per sé assai variegato: Smith, Ricardo e Marx dal lato classico, Menger, Jevons e Walras e poi Wicksell dal lato marginalista, ma anche il calcolo felicifico di Bentham che precorre la nozione marginalista di homo oeconomicus, il metodo di Weber, l’istituzionalismo di Veblen, il tentativo di Schumpeter di costruire una versione dinamica della teoria marginalista, la rivoluzione di Keynes.
La seconda parte del libro è dedicata a quelli che considero i due giganti del secolo breve: Hayek e Sraffa, attivi sia nel periodo interbellico sia dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. Posso prevedere che la scelta di questi autori sarà criticata; sono, ad esempio, assai meno citati di autori come Hicks o Samuelson. Ma questi ultimi contribuiscono soprattutto allo sviluppo di sistemi teorici già ben delineati, talvolta con l’obiettivo di mediare tra sistemi teorici vicini. I primi invece forniscono contributi decisivi alle fondamenta concettuali, e considerarli con attenzione ci permette di comprendere le profonde differenze tra le diverse impostazioni, anche tra quelle tra loro vicine. L’impostazione di Hayek, ad esempio, è diversa da quella marshalliana che è invece ripresa dalla scuola di Chicago o dagli ordoliberali, anche se poi gli esponenti di questi filoni si ritrovano alleati (nella Mont Pèlerin Society) sotto il cappello della generica etichetta di neoliberismo. Allo stesso modo la ricerca di una compatibilità tra l’analisi sraffiana di prezzi e distribuzione e quella keynesiana dei livelli di reddito e occupazione implica scelte di metodo suggerite dallo stesso Sraffa e una interpretazione di Keynes che a me sembra la più appropriata ma che è diversa da quelle proposte, ad esempio, dai teorici della sintesi neoclassica come Samuelson e Modigliani. A proposito di Hayek, è interessante rilevare come dopo le sconfitte nei dibattiti sulla teoria del ciclo con Sraffa e poi con Kaldor si sia ritirato dal campo della teoria pura a quello più direttamente politico, con l’opposizione frontale tra mercato e pianificazione, o alla fiducia nella selezione evolutiva della concorrenza non giustificata però da precise costruzioni teoriche.
La terza parte del libro, la più ampia, riguarda l’impostazione teorica dominante nel periodo, il cosiddetto mainstream. Nel campo della microeconomia si tratta della teoria delle utilità attese proposta nel 1944 da von Neumann e Morgenstern. Nel campo della macroeconomia si tratta della sintesi neoclassica di Modigliani e Samuelson, che riconduce alcune delle proposte di politica economica keynesiane – la cosiddetta politica della domanda, limitata al breve periodo e alla regolazione del ciclo economico – nell’alveo della teoria marginalista del valore e della distribuzione, considerata valida per il lungo periodo, riaffermando così la tendenza di fondo alla piena occupazione. A queste si accompagna lo sviluppo di campi dell’economia applicata, dalle tavole intersettoriali di Leontief alla contabilità nazionale, dagli indicatori statistici sviluppati anche di recente, come il noto Indicatore di sviluppo umano utilizzatissimo nei confronti tra paesi a diverso livello di sviluppo, fino all’econometria che man mano sviluppa tecniche di analisi sempre più raffinate, fino a proporre un capovolgimento di ottica: non più strumento di verifica della teoria, ma fonte di ipotesi teoriche e finalmente sostituto a pieno titolo delle teorie astratte. In questo campo, i premi IgNobel sono andati ad alcune ricerche curiose, talvolta scurrili, che hanno mostrato ad esempio l’esistenza di correlazione inversa tra il tasso di crescita dell’economia e le dimensioni medie di parti del corpo umano.
A partire dagli anni Settanta, i filoni micro e macro cui abbiamo accennato perdono terreno rispetto a un insieme di filoni di ricerca, come il monetarismo o le aspettative razionali, la scuola delle scelte pubbliche o la teoria dei mercati finanziari efficienti, che nel loro complesso portano a un cambiamento radicale nell’impostazione della politica economica in direzione neoliberale, che tende ad affidare al mercato la soluzione di tutti i problemi. Tra questi filoni di ricerca, quello delle aspettative razionali appare il più coerente con la concezione di base della teoria tradizionale: l’equilibrio tra domanda e offerta viene raggiunto istantaneamente grazie alla perfetta razionalità e capacità previsiva degli agenti economici; la disoccupazione o è volontaria o è dovuta a errori di politica economica che in sostanza portano a un costo del lavoro troppo elevato; le politiche di austerità favoriscono lo sviluppo.
La quarta parte del libro riguarda filoni di ricerca considerati non pienamente eterodossi, ma che minano aspetti importanti dell’ortodossia tradizionale. Così l’economia comportamentale (behavioural economics) parte dalla constatazione di violazioni ai postulati che esprimono il rigido concetto neoclassico di razionalità per giungere a formulazioni teoriche come la prospect theory di Kahneman e Tversky o la ‘razionalità limitata’ di Herbert Simon che lascia ampio spazio a regole del pollice procedurali. In modo analogo nell’analisi dei mercati monetari e finanziari si passa dalla teoria dei mercati efficienti, perennemente in un equilibrio che riflette lo stato delle conoscenze degli operatori (la teoria per cui le probabilità di vincere o perdere in borsa di un operatore finanziario esperto sarebbero le stesse di chi sceglie lanciando un dado o di una scimmietta che abbassa a caso una leva o un’altra), alla teoria della fragilità finanziaria e delle crisi proposta su basi keynesiane da Hyman Minsky, che dopo un periodo di relativo oblio ha conosciuto un rinnovato interesse in seguito alla crisi finanziaria mondiale del 2007-8.
La quinta e ultima parte del libro riguarda un insieme di filoni eterodossi: i post-keynesiani noti anche come scuola di Cambridge, marxisti, evoluzionisti, istituzionalisti e la teoria delle capabilities di Sen. Si tratta di un insieme variegato di impostazioni che però condividono alcune caratteristiche che mi sembrano essenziali per una ricostruzione della teoria economica. In tutti i casi si considera fondamentale la divisione del lavoro, quindi la presenza di una molteplicità di merci e di agenti economici eterogenei tra loro; si rifiuta la nozione statica di equilibrio tra domanda e offerta in favore di una concezione storico-dinamica (e quindi ad esempio si spiega la distribuzione del reddito non come determinata dall’equilibrio tra domanda e offerta dei fattori di produzione ma come frutto dell’evoluzione di elementi che riguardano il potere contrattuale delle classi e dei ceti sociali); si rifiuta la nozione monodimensionale di homo oeconomicus perfettamente egoista (un individuo asociale, le cui preferenze sono totalmente indipendenti da quelle di chiunque altro, e totalmente concentrato sul perseguimento del proprio benessere materiale) a favore di quella di un agente complesso, influenzato da un variegato insieme di interessi e passioni, talvolta – come nella tragedia greca – in conflitto profondo tra di loro.
Posso trarre una doppia morale dalla mia fatica. In primo luogo, l’esame del complesso percorso della teoria economica degli ultimi tre decenni di secolo delinea un quadro molto insoddisfacente. Le fondamenta delle teorie mainstream poggiano sulle sabbie mobili di concetti che ben poco hanno a che fare con il mondo reale: agenti economici disumanizzati; dati fondamentali del problema – le preferenze dei consumatori – la cui esatta natura è incerta, oscillando tra la complacibilitas e la virtuositas dei teorici medievali (ovvero ciò che genera un immediato piacere, siano pure le droghe, o ciò che – come dice Sen – ‘abbiamo ragione’ di desiderare, inclusa una medicina amara); una trattazione dell’incertezza che oscilla tra il negarla, il ridurla al rischio probabilistico, il considerarla totalmente impenetrabile e quindi impossibile da trattare teoricamente. La stessa teoria è insoddisfacente: quando si abbandonino gli assunti di comodo di una sola merce e un solo agente rappresentativo, unicità e stabilità dell’equilibrio risultano indimostrabili, con la conseguenza che la mano invisibile del mercato viene clamorosamente negata; non a caso il filone della teoria assiomatica dell’equilibrio economico generale, così importante negli anni Settanta, è oggi considerata con il fastidio riservato all’eterodossia.
In secondo luogo, la varietà delle impostazioni – specie di quelle eterodosse – costituisce una ricchezza del dibattito economico contemporaneo, da trattare con interesse e non con il vero e proprio astio che la teoria dominante riserva a chi non è allineato. Un recente libro, edito dalla casa editrice della Bocconi e con la prefazione di un ex rettore della stessa università, parla di “negazionismo” – un termine sprezzante, riservato ai no-vax o ancor peggio ai negazionisti dell’Olocausto – con riferimento alle impostazioni che non condividono il verbo della teoria mainstream: cosa non solo sbagliata in sé, ma addirittura ridicola se consideriamo le fragili basi su cui poggia la teoria economica dominante.
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