Domenico Rea e l’enigma del Mediterraneo
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Domenico Rea sa che non è esistita soluzione di continuità fra il politeismo greco-romano e il cattolicesimo meridionale. In realtà, è vero che l’Italia del sud ha a lungo preservato manifestazioni, più o meno residuali e tuttavia non riconducibili a puro colore, della quotidianità, dell’arte e della religiosità arcaiche, precristiane: nella tammorriata come nelle esibizioni di strada dei pazzarielli, negli ex-voto conservati nei santuari, nella confusione gioiosa di alcuni vecchi mercati “la vita antica rimane per noi un mistero di cui non ci è stata lasciata la chiave”.
L’enigma ha continuato a vivere soprattutto a Napoli, la “città-mondo” (F. Arminio) che Rea considera la “porta misteriosa di tutta l’Italia meridionale”; e non sembri una forzatura indebita estendere la definizione all’intero Mediterraneo tradizionale, se lo stesso “mistero socio-antropologico indecifrabile” incarnatosi nel popolo napoletano si ritrova identico a Barcellona o a Istanbul, come lascia intendere Rea – e a Tangeri, aggiungerebbe con buone ragioni Ben Jelloun.
Ma in cosa consiste questo enigma? Dove trovarne la chiave? Non si può comprendere il Mediterraneo senza avere recuperato “il mondo pre-alfabetico, intricato e complicato di cui si sa pochissimo” forse paragonabile al mare (tanto sottovalutato dalla modernità quanto, e non a caso, temuto dagli antichi) che mette pericolosamente in contatto persone e culture differenti, provocando scontri ma anche ibridi, fusioni, intrecci.
Il millenario mondo pre-alfabetico è ciò che ha generato per reciproca sovrapposizione e stratificazione le “antichissime civiltà mediterranee” viste scorrere con disgusto da Harry, il protagonista americano delle Lettere da Capri di Soldati, sul volto del sindaco, una “maschera” che esprime ai suoi occhi di puritano un’invincibile ipocrisia e corruzione morale. Ma sui volti, sulle maschere degli uomini mediterranei si legge anche – e questa è un’evidenza che sfugge però alla coscienza puritana – la tragedia di un sapere istintivo, immediato che mostra quanto ferocemente “l’estrema curva del fato” abbatta chi sale troppo in alto violando i limiti assegnati dalla legge cosmica (arbitraria, disumana, incomprensibile).
Il mondo prealfabetico, oscuro “come la violenza di vivere almeno una volta, perché una volta si vive”, poggia su una crudeltà essenziale solitamente occultata da una contro-tradizione profilattica e immunizzante (ne è un esempio la poesia di Di Giacomo), nel timore che rivelarla possa distruggere il mito del paese del sole e del mare, contro il quale polemizzava Anna Maria Ortese. Rea riconosce a Boccaccio il merito di avere colto la violenza sorgiva e ambigua che infetta il Mediterraneo, fecondandolo: nelle novelle più amate da Rea – quelle di Landolfo, Andreuccio e Peronella, anche se non andrebbe dimenticata la sfortunata storia d’amore fra Gerbino, principe normanno di Palermo, e la figlia del re di Tunisi (Decameron, IV, 4) – Boccaccio riesce a vedere la “cattiveria inaudita, ferma, immobile” di una realtà nella quale il sentimento tragico e antico delle cose coincide con la percezione dell’unicità della vita.
Questa consapevolezza ha il potere di devastare e trasformare anche materialmente l’individuo, effetto tanto più rilevante in un quadro antropologico nel quale, a differenza di quanto avviene in epoca moderna, la fisicità prevale sempre sulla psicologia. Il mistero mediterraneo è il contrarsi e consumarsi di tutto il senso della vita nell’unico, interminabile istante della festa e del dono: “Pigliate il pollo più grasso per mio figlio (…) Cacciate tutto. Ormai ho capito che la vita è una stronzata”). Il mistero è l’invisibile che si fa corpo e illusione effimera, è visione del mondo come apparenza e gioco incomprensibile di un bambino. E’ proprio di tale natura la scena a cui, mezzo secolo fa, potevano assistere i passeggeri di un autobus su quell’autostrada Napoli-Pompei oggi diventata, ha osservato Arminio, una pista per automobiline da corsa: “la giornata che nelle prime ore era apparsa umida e nuvolosa, si era aperta e liberata, fino ad apparire stabilmente sgombra di nubi, nuova, fresca, come un fiore dalla corolla abbondante e armoniosa, appena nato (…) Sembra di andare in un paesaggio dipinto da una fanciulla, sotto il sigillo di un sole di cui si vedono distintamente i raggi, quale più lungo, quale più corto e tremolante (…) Dinanzi a un siffatto paesaggio dolce e quasi languido, nell’autobus invaso di luce, i viaggiatori non riescono a leggere, né a pensare, né a distrarsi in un modo qualsiasi. Si abbandonano”.
Nell’immediato dopoguerra, cioè negli anni che preannunciavano il tramonto imminente della civiltà contadina e in cui uscivano Gesù fate luce!e Ritratto di maggio, Eliade pubblicava Il mito dell’eterno ritorno e Dodds I Greci e l’irrazionale. Questi due celebri saggi agevolano la comprensione della mentalità prealfabetica caratteristica dei personaggi di Rea, che agiscono in uno spazio storico solo nominalmente novecentesco. Immersi nella stessa shame culture studiata da Dodds, ossessionati dalla difesa dell’onore come gli eroi micenei ma appartenendo, diversamente da questi, alle classi subalterne, essi sono dominati dalle semplici pulsioni elementari della fame e del sesso che la miseria e la promiscuità attizzano continuamente.
Quando in Quel che vide Cummeo la proprietaria del battello attribuisce il tradimento del marito a una fattura d’amore, non fa che ripetere, sia pure a un altro livello della scala sociale e dunque con un diverso registro linguistico, lo stesso pensiero di Agamennone, che incolpa Zeus, il destino e le Erinni (Iliade, XIX, vv. 86 sgg.) dell’iniziativa scellerata di sottrarre la concubina ad Achille. Accostando la psicologia omerica a quella del contadino greco contemporaneo, Dodds afferma che è improprio applicarvi il concetto di libero arbitrio; allo stesso modo, nel mondo culturalmente rurale di Rea l’uomo viene considerato come un burattino nelle mani di forze soverchianti: di qui la teatralità degli atteggiamenti assunti da protagonisti e comparse, chiamati a recitare in ogni momento davanti a un pubblico numeroso e attentissimo, innamorato dell’ammoina e delle parole.
Il punto di vista di Rea è lo stesso dei suoi personaggi. Attraverso Rea parla il demos omerico, la plebe che abita i bassi; da sempre costretta a vivere fuori dalla storia, perennemente incompresa dagli intellettuali e disprezzata per la presunta indolenza sia dalla borghesia meridionale sia dai settentrionali, la plebe appare diversa e a sé stante non solo somaticamente ma anche antropologicamente, cosicché la sua capacità di esprimere una vita interiore ricca e sofisticata le permette di conservare perfino “nelle più violente furie (…) un’illuminazione di bene”.
La visione prealfabetica e popolare del mondo è l’unica possibile e Rea le si consegna senza riserve, riproducendo il “colore di favola extrastorica” (M. Pomilio) tipicamente arcaico che essa riesce a conferire agli eventi reali. Gli uomini del popolo non esistono in quanto individui compiuti ma, come in Verga, si definiscono soltanto in relazione a un archetipo sacro: “Tori Cappuccia, vecchio e rinsecchito come sant’Alfonso”. Poiché la religiosità mediterranea esclude la possibilità di una rappresentazione antropomorfica della divinità suprema, l’archetipo è sempre costituito dai santi o dalla Madonna, cioè, proprio come succede nelle comunità premoderne studiate da Eliade, da intermediari con i quali viene instaurato un contatto diretto e intimo, specularmente opposto all’irraggiungibilità di Dio.
In Quel che vide Cummeo emerge un altro tratto arcaico: il rapporto fra morte e abbondanza (l’inferno come cucina: tema che peraltro, come suggerisce Camporesi nel Paese della fame, si presta a una lettura in chiave esoterica). Dell’inferno è un’evidente allegoria la vecchia tufara abbandonata chiamata “Purgatorio”, una “buia distesa (…) in cui discendemmo non alle foci dello spirito – come diceva don Locu – ma alle feci del nostro corpo”, che funge per migliaia di abitanti di Nofi da rigugio antiaereo.
Si pensi poi al racconto La botola, nel quale la casa di una vedova si trasforma come per miracolo in una contrada di Bengodi, piena zeppa di “maccheroni, ruoti di carne, di parmigiane di melenzane, fritture di pesce, zucchini all’agro, una cinquantina di bottigliette di birra, due cocomeri grossi come la Terra, sei fiaschi di vino, bicchieri, stoviglie, tovaglioli, che i camerieri andavano distribuendo ai presenti. La casa del morto si trasformò nella casa della Resurrezione”. L’accumulazione, figura sintattica cara a Rea come al Basile del Pentamerone e spia eloquente della sua adesione al sentimento popolare, va intesa come la traduzione letteraria del sogno di giustizia dei poveri, del mito di Cuccagna a cui si ispira il presepe napoletano.
Le feste devono essere onorate in particolare da chi non ha niente, gozzovigliando fino all’ultimo perché nessuno sa se nell’altro mondo sarà possibile ritrovarsi insieme: l’istante è tutto, l’istante è divino. In questa prospettiva, che è autenticamente metafisica, il sacro antico non coincide più con quello cristiano, mite e benigno, e anche nella variante carnevalesca, inoffensiva solo apparentemente, esso presenta un’indubbia carica di ostilità nei confronti dell’uomo: è per questo che la festa popolare di Materdomini, rievocata nelle sequenze iniziali di Ninfa plebea, non può essere tale senza il morto.
La sofferenza fisica prepara nel migliore dei modi il viaggio oltremondano (“un corpo tatuato e istoriato di fatica per il Grande Giudizio” è quello della moribonda Rita di Una vampata di rossore) e ancora Eliade ci spiega che nell’area mediterranea e mesopotamica il dolore dell’uomo viene ricondotto archetipicamente alla passione di una divinità che muore e risorge, Tammuz. Se in questo ciclo di morte e rinascita è inevitabile che l’esperienza del sacro si accompagni all’irruzione del “basso” non solamente in senso sessuale (“le puzze, gli effluvi rancidi delle vesti, gli umori corporali superiori e inferiori di uomini e donne, combinati alle effusioni nerastre delle candele che illuminavano a giorno le navate, erano micidiali: dal tempo dei tempi era stato sempre quello l’odore delle chiese”), la festa cattolica rivela le sue ascendenze dionisiache quando, come in Ninfa plebea, coinvolge l’intera natura, che nel Mediterraneo tradizionale vive in piena simbiosi con l’uomo.
Le case non sono prodotti artificiali ma creature anch’esse, i bambini vengono allevati con gli animali da cortile, la campagna penetra fin dentro la città: “l’uomo è solo davanti al creato e si ha l’impressione di diventare una forma immemore della natura”. Questa metamorfosi riguarda, ovviamente, la fisionomia umana stessa: è il caso dei sarnesi, di antica stirpe contadina, che sono tozzi come i loro alberi, oppure di Maria di Una vampata di rossore, che ha un “corpo vasto e montuoso, avvallato e dirupato come una vecchia terra”. Con tutte le contraddizioni e le ingiustizie di cui è capace, il Mediterraneo tradizionale è appunto una terra, vecchia ma fertile, ancora in grado di creare nuove civiltà e nuove lingue come quelle nate dal breve incontro fra i soldati americani e il popolo napoletano durante la guerra. La rigenerazione del cosmo dall’abbandono e dal disordine è una verità che era sfuggita a Ortese quando, nel 1953, uscita sconvolta dalla visita al III e IV Granili, scrisse che l’Italia meridionale era un cadavere, un mondo senza futuro.
[da Lo splendore delle apparenze, Oedipus 2016]
n.b. I passi citati di cui non è riportato l’autore sono tratti tutti dalle opere di Domenico Rea
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