Note sul dibattito costituente: l’art. 3 e l’eguaglianza sostanziale
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Come noto l’art.3 della nostra Costituzione repubblicana, relatore l’on. Lelio Basso, recita:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Si tratta di un articolo straordinario.
Che ancóra il pari diritto di tutti a compiti positivi in capo alla Repubblica per attuarli. Probabilmente l’articolo meno applicato dell’intera Carta ed il principale presidio alla democrazia nel nostro paese.
Per comprenderne meglio il senso vale, però, la pena di risalire al dibattito costituzione[1]. Siamo al 11 settembre 1946, la prima formulazione sottoposta alla discussione in Commissione fu:
«Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di classe, di opinione politica e di religione, sono eguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad eguale trattamento sociale.
«È compito della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando la libertà e l’uguaglianza di fatto degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il completo sviluppo fisico, economico e spirituale di essa».
Ci sono delle differenze:
- all’avvio sono indicati come soggetti dei diritti “gli uomini”, mentre nella formulazione finale è “i cittadini”.
- La “pari dignità sociale”, che è l’oggetto del diritto scolpito dalla norma, nella formulazione iniziale era un “trattamento sociale”.
- Il compito di erogare questo diritto è, da una parte della “Repubblica”, dall’altro della “società e dello stato”.
- Soprattutto, gli ostacoli da rimuovere nel testo finale impediscono “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, mentre in quello inizialmente proposto impedivano “il raggiungimento della piena dignità ed il completo sviluppo fisico, economico e spirituale in essa”. Manca la precisazione fondamentale circa l’obbligo della Repubblica di garantire “l’effettiva partecipazione” di “tutti lavoratori” all’organizzazione del paese.
Vediamo dunque come si passa, e perché, da una versione all’altra.
Intanto sarà il liberale Roberto Lucifero a proporre, nella Commissione dei 75[2], di sostituire il cosmopolita “gli uomini” (che rinviava alla Costituzione americana, con il suo incipit indimenticabile) con “i cittadini”. Quindi il “qualunquista”[3] Ottavio Mastrojanni a chiedere per primo conto della dizione “hanno diritto all’eguale trattamento sociale”, accompagnato dal liberale Lucifero, per il quale basta l’eguaglianza di fronte alla legge (ovvero quella formale).
Immediatamente Palmiro Togliatti, del Pci, replicò che si tratta di voler porre “la tendenza della nuova Costituzione ad incanalare lo sviluppo della nostra società verso una maggiore eguaglianza”. E, aggiunse il relatore, Lelio Basso, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, “che non basta l’eguaglianza puramente formale, come quella caratteristica della vecchia legislazione, per dire che si sta costruendo uno Stato democratico, ma che invece l’essenza dello Stato democratico consista nella misura maggiore o minore del contenuto che sarà dato a questo concreto principio sociale. Naturalmente i primi articoli della Costituzione non possono essere delle norme concrete di politica applicazione, ma delle direttive indicate al legislatore come un solco in cui egli debba camminare, come affermazione della finalità cui la democrazia tende e cioè verso l’eguaglianza sociale”.
Ribadirono il punto di opposizione, tra un diritto formale esigibile, ed un diritto sostanziale di difficile attuazione e quindi foriero di promesse non mantenibili, o comunque troppo vaghe, l’on. Caristia, Dc, e ancora Mastrojanni. Mentre affermò il suo consenso l’on. Aldo Moro, Dc, sottolineando correttamente il tono dinamico del secondo diritto.
Al principio della discussione si scontrano quindi, ed immediatamente, le due grandi famiglie ideologiche del novecento, quella liberale e quella socialista. Questo scontro, che allora vide aspramente sconfitta la componente liberale, per la convergenza della sensibilità socialista e di quella democratica cristiana e, soprattutto, per l’immediata vicinanza dell’esperienza del fascismo, si riproduce da allora costantemente nella vista del paese. È il principale motivo per prestarvi la dovuta attenzione.
Andiamo con ordine.
Interverrà quindi Giuseppe Dossetti, della Dc, proponendo di aggiungere, dopo “razza” anche “e di nazionalità” tra gli elementi da non discriminare, ovvero quelli che lasciano invariata l’eguaglianza formale. Su questo punto, apparentemente secondario, l’on. Cevolotto, Democrazia del Lavoro, dissentirà subito in quanto a suo parere la cosa implicherebbe che per lo Stato italiano siano eguali a priori tutti gli “uomini” di qualsiasi nazionalità.
In questa giornata il testo divenne quindi: «Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di nazionalità, di classe, di opinione politica e di religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad uguale trattamento sociale».
E, dopo varie resistenze di ultima istanza, «È compito perciò della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana e il completo sviluppo fisico, economico, culturale e spirituale di essa».
Il progetto costituzione passò allora dalla Commissione all’Assemblea Costituente. Siamo al 4 marzo 1947. L’on Lucifero tornò subito alla carica, riaffermando la vaghezza della formulazione, la quale nella sua ampiezza gli appariva di “pericolo enorme”.
Vale la pena riportare il suo intervento, perfetta espressione dello spirito liberale: il punto è la “rimozione degli ostacoli”.
“…Perché io vorrei sapere cosa succederebbe se un giorno dovessero applicarla, ad esempio, i due poli costituiti da me e dall’onorevole Togliatti. Io non so, ma probabilmente io rimuoverei l’onorevole Togliatti e l’onorevole Togliatti rimuoverebbe me, perché tutte e due siamo un ostacolo, secondo la nostra concezione, a che una determinata ideologia si compia. Ora, quale deve essere la funzione della Costituzione? La funzione della Costituzione deve essere di far sì che se io arrivassi ad avere la maggioranza, non potessi rimuovere l’onorevole Togliatti e che se l’onorevole Togliatti arrivasse ad avere la maggioranza non potesse rimuovere me; ed ognuno di noi possa continuare liberamente a sostenere il proprio pensiero. Giacché con il tempo l’interpretazione diventa estensiva e questi articoli che possono far sorridere un giurista o un costituzionalista perché privi di contenuto, ad un certo momento il loro contenuto lo trovano; e visto che non ne hanno uno proprio, assumono quel contenuto che in quel determinato momento gli vuole dare chi è più forte. La Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione; hanno la forza”.
Risponderà, in modo molto eloquente, il giorno dopo l’on. Renzo Laconi, del Pci, lo riporto per esteso:
“La Repubblica, giustamente diceva ieri l’onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti, perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua volontà.
A noi, altro spetta. A noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove, deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e sulla posizione preminente del lavoro.
Deve essere un regime orientato: non l’ho affermato a caso, onorevole Lucifero. Ieri lei diceva che dobbiamo creare un regime afascista. Io credo che questo non sia l’orientamento che il popolo italiano ci indica. Per chi pensa che il regime fascista sia stato soltanto una specie di crisi di crescenza, una malattia infantile o giovanile del popolo italiano, per questi il fascismo potrà essere qualche cosa di facilmente dimenticabile.
Per chi nel fascismo vede l’espressione di una contraddizione finale di tutto un regime, che ha almeno un secolo di storia in Italia, per chi nel fascismo ha visto e vede la rovina del nostro Paese, io credo non si possa parlare di Costituzione afascista, si deve parlare di Costituzione antifascista. In questo senso, tenendo conto di queste istanze, noi dobbiamo quindi giudicare il progetto che ci è offerto.
Risponde esso alla volontà del popolo? Traduce queste esigenze storiche ed in quale misura le traduce?
Queste sono le domande cui dobbiamo dare una risposta, e io credo che, in questo senso, noi possiamo salutare con soddisfazione l’affermazione solenne dei diritti civili e politici del cittadino, che troviamo in testa a questo progetto: l’affermazione della libertà personale, della inviolabilità del domicilio, della inviolabilità di corrispondenza, della libertà di riunione e di associazione, della libertà di stampa, di azione in giudizio. Libertà tutte che importa riaffermare soltanto in quanto sono state negate, soltanto in quanto noi siamo chiamati a fare una Costituzione dopo il fascismo, dopo la tirannide, soltanto in quanto noi ci troviamo a dovere polemizzare con tutto un regime e con tutto un sistema. In questo senso l’affermazione di queste libertà ha oggi un valore ed un significato.
Ma io credo che a nulla servirebbe questa condanna del passato. Questa affermazione di diritti e di libertà credo si ridurrebbe a qualcosa di dottrinario e di vuoto se noi non ci proponessimo, attraverso la Costituzione, di distruggere le condizioni attraverso le quali il fascismo si è affermato ed ha potuto negare le liberta dei cittadini; se noi non ci proponessimo di consolidare nel nostro Paese uno schieramento di forze che sia interessato alla democrazia, se noi non ci proponessimo, cioè, da un lato di abbattere i nemici della democrazia, di restringere il potere dei gruppi privilegiati che vogliono sacrificare e distruggere le nostre libertà, e dall’altro di rafforzare il blocco popolare, di dare al popolo la strada aperta verso l’avvenire. Se non facessimo questo, io penso che inutilmente le tavole della Costituzione potrebbero riaffermare le libertà dei cittadini ed i principî fondamentali della democrazia. Noi siamo chiamati quindi ad un compito nuovo, che consiste nell’introdurre principî e diritti nuovi nella Costituzione italiana, e nel prevedere le forme e i metodi attraverso i quali il legislatore di domani potrà dare pratica attuazione a questi principî, potrà concretare questi diritti.
In questo senso, all’articolo 7 della Costituzione va affermato che è ufficio della Repubblica «rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e la eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». In questo senso è affermato, cioè, che lo Stato non deve limitarsi ad un riconoscimento formale delle libertà e dei diritti del cittadino, ma deve intervenire nella vita sociale, economica e politica per rendere effettivo il godimento di questi diritti. Così lo Stato interverrà a tutelare la famiglia, ad assicurarle le condizioni minime di esistenza; così lo Stato interverrà ad assicurare ad ogni cittadino, che abbia capacità e merito, l’insegnamento scolastico.
[…]
Ma certo, onorevoli colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell’ordinamento dello Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — come è detto nel primo articolo — alla vita sociale, economica, politica del Paese; sta nel fatto che tutto l’ordinamento dallo Stato poggi sul principio della sovranità popolare.”
Il punto qui in discussione è dunque la sovranità popolare e l’attiva distruzione delle condizioni sociali in primo luogo, e giuridiche, che favorirono il crollo nel fascismo. Questo significa, e per questo è attuale, tenere fermo ed affermare il compito, in capo alla Repubblica, di rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e, la partecipazione dei lavoratori alla vita sociale, economica e politica.
L’articolo 3 è stato concepito, e per questo approvato con larga convergenza di forze, come presidio essenziale al ritorno del fascismo. Ovvero delle condizioni sociali che lo rendono possibile.
Aggiungerà, il 6 marzo, Lelio Basso un intervento straordinario:
“L’operaio che vive oggi nella grande fabbrica, l’operaio che vive oggi nella disciplina della divisione del lavoro, l’operaio che fa continuamente la stessa vite, lo stesso dado, la stessa molla, sa che la sua vite, sa che il suo dado, sa che la sua molla non hanno alcun senso, presi in se stessi; ma che fanno parte del lavoro collettivo. L’operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita, assumono un valore nell’armonia dello sforzo collettivo. L’operaio sa che la macchina che esce dalla sua officina non è una somma di pezzi freddi e uguali, ma è l’armonia dell’opera complessiva, sa che la macchina non è una semplice somma di viti o di dadi, ma che le viti e i dadi hanno un senso in quanto sono parti della macchina.
Ed è da questa esperienza che nasce la nostra esperienza; oggi la società non si può considerare una somma di individui, perché l’individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e valore dal rapporto con gli altri uomini; l’uomo non è, in definitiva, che un centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri rapporti esso può soltanto trovar senso e valore”.
Questo breve abbozzo dell’antropologia socialista, non a caso connesso con l’esperienza derivante da l’organizzazione di massa del lavoro, informa il principale punto di divergenza con la visione liberale, come immediatamente Basso sottolinea:
“E allora anche le nostre concezioni politiche e giuridiche assumono un significato diverso. Non si tratta più di contrapporre l’individuo allo Stato, intesi quasi come entità astratte e lontane l’una dall’altra. Si tratta di realizzare invece la vita collettiva dalla effettiva partecipazione di tutti i mezzi.
Ecco allora il senso dell’espressione dell’articolo primo del nostro progetto, che è per questa parte opera mia, e che l’onorevole Calamandrei citava l’altro giorno, là dove si dice che la «Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; appunto, perché oggi non concepiamo più l’uomo come individuo contrapposto allo Stato, ma, al contrario, concepiamo l’individuo solo come membro della società, in quanto centro di rapporti sociali, in quanto partecipe della vita associata. La Repubblica, espressione della vita collettiva, trae il suo senso e il suo significato solo dalla partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale.
Ed ecco anche il senso del lavoro, inteso come fondamento della Repubblica; altra espressione che è stata criticata. Perché noi non facciamo, e non vogliamo fare, una Repubblica di individui, ma vogliamo fare non una Repubblica di individui astratti, una Repubblica di cittadini che abbiano solo una unità giuridica, vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell’interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana”.
La distanza di questa altissima formulazione dalla versione liberale che allora, come ora, vi si contrappone e che concepisce nell’individuo un centro vuoto ed indipendente di astratte “libertà”, implicitamente pensate secondo il modello del possesso, non potrebbe essere più ampia ed anche più consapevole. E’, in sostanza Lelio Basso che la successiva riscrittura della Costituzione da parte neoliberale, e forzata dai Trattati europei, vuole insistentemente eliminare dalla nostra storia.
Continua l’esponente socialista:
“Ed ecco perché noi pensiamo che sia errata la concezione a cui parecchi colleghi si sono sovente inspirati nella redazione degli articoli, e che si trova nel progetto della nostra Costituzione che la democrazia si difende, e si difende la libertà, e si difendono i diritti del cittadino, limitando i diritti dello Stato, limitando l’attività o le funzioni dello Stato. Concezione che si inspira sempre a quella che noi riteniamo una contrapposizione superata fra individuo e Stato. Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i cittadini nella vita dello Stato; tutti, fino all’ultimo pastore dell’Abruzzo, fino all’ultimo minatore della Sardegna, fino all’ultimo contadino della Sicilia, fino all’ultimo montanaro delle Alpi, tutti, fino all’ultima donna di casa nei dispersi casolari della Calabria, della Basilicata. Solo se noi otterremo che tutti effettivamente siano messi in grado di partecipare alla gestione economica e politica della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia”.
Per Basso, è chiaro, la democrazia “si realizza”, è un processo dinamico e costantemente in crescita, mentre per i liberali che vi si contrappongono è un dispositivo giuridico, non a caso per loro non è “antifascista”, ma “afascista”.
E finisce per precisare:
“Su questa via della effettiva partecipazione di tutti, qualche altra cosa si ritrova nella Costituzione: per esempio, un maggiore riconoscimento, direi un riconoscimento integrale, della eguaglianza della donna, e questo principio è affermato anche laddove si ammette la partecipazione della donna nell’ordine giudiziario. Ma, nel complesso, non direi che questo sia stato lo spirito che si è tenuto presente in tutta la Costituzione. Non era certamente presente quando si è redatto l’articolo 30, dove si dice che la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro. È una espressione un po’ paternalistica, questa; comunque, se io sono riuscito a rendere bene il senso della nostra concezione, è chiaro che quello che noi desideriamo è che il lavoro sia finalmente soggetto e non oggetto della storia; che i lavoratori siano finalmente i veri protagonisti della vita politica; è chiaro che non si tratta di una Repubblica che dall’alto tutela il lavoro, ma piuttosto di un lavoro che ha conquistata la propria maggiorità e che permea di se stesso gli istituti della nuova Repubblica italiana”.
…
“Ciò che caratterizza il nostro testo è appunto il dilatarsi della nozione di responsabilità da quella unicamente verso se stessi, che è il fondamento dei diritti di libertà, a quella più vasta di responsabilità verso i propri simili, che è il fondamento dei diritti sociali.
I rapporti da uomo a uomo si estendono oggi dall’ambito individuale, alla sfera più vasta dell’ambito sociale; il che non è soltanto giusto dal punto di vista etico, ma anche vero dal punto di vista storico. Oggi si prende atto che l’individuo si avvantaggia del lavoro di tutti e dà a tutti il suo contributo. Questo contributo è appunto il lavoro umano. Il rapporto concreto di solidarietà che nel mondo moderno lega gli uomini non può essere che il lavoro. Se questo rapporto, per ragioni che sono note agli studiosi di economia, può assumere un carattere antagonista, non è men vero che abbiamo diritto di ritenere che verrà un giorno in cui questo rapporto di lavoro sarà la base di una società più giusta”.
E, infine, con formula fulminante:
“Può darsi che la critica dal punto di vista giuridico di questo aspetto del problema sia giusta, ma io penso che ogni lavoratore, leggendo questo documento, può capire che cosa si vuol dire. Che cosa vuol dire infatti questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l’accento su tutto ciò che è lavoro umano, che essa mette l’accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza.
È il rovesciamento, insomma, delle vecchie concezioni, per cui si passa dal fatto della ricchezza sociale a considerare l’atto che produce questa ricchezza. E questo dà luogo a sviluppi molto importanti. Il fatto della proprietà in sé può essere anche un fatto di carattere egoistico, ma l’atto del lavoro è veramente un atto per sua natura altruistico e determina un rapporto collettivo che dà un risalto anche al carattere sociale dei diritti. In altri termini, mentre la proprietà può isolare, il lavoro unisce, ed è da questa nozione dell’attività produttiva e del lavoro — nozione che deve essere associata al diritto al lavoro — che sgorgano tutti gli altri diritti sociali”.
Questa posizione incontrò la dura opposizione del Partito dell’Uomo Qualunque, che tenne una posizione strettamente liberale, ed in qualche grado qualche distinguo anche dell’on. La Pira, Dc (che era estensore dell’art 1), che in un intervento[4] del 11 marzo tese a distinguere, in risposta a Pietro Nenni, Psiup, il piano del politico da quello dell’economico, e quindi del lavoro.
Il 13 marzo comunque, l’on. Francesco de Vita, Repubblicano, intervenne sostanzialmente a favore dell’articolo, anche se lo radicò nell’insegnamento mazziniano, e l’on. Aldo Moro richiamò l’art. 1, prima formulazione La Pira (che allo stato recitava: “La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”) che riassunse in questo modo “il senso della disposizione: un impegno cioè del nuovo Stato italiano di proporsi e di risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell’organizzazione sociale, economica e politica del Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall’organizzazione economica e sociale”, non si trattava, cioè, di dire, come qualche liberale temeva, che i “non lavoratori” (es. i rentier, i possidenti, per estensione i ricchi) fossero esclusi, perché per questi comunque vigono i pieni diritti giuridici e formali. Si trattava essenzialmente “di un problema di carattere strettamente politico”.
Naturalmente non mancarono mai accesi dibattiti, come quello del 14 marzo, tra l’on Guido Russo Perez, del “Uomo qualunque” e le sinistre che accusò di aver introdotto elementi della Costituzione russa e di introdurre surrettiziamente elementi che avrebbero potuto portare allo stato socialista e propose quindi, ancora una volta, di cassare l’intera seconda parte. Nel proporre l’attacco sembrò addirittura lamentare la cattura a Dongo di Mussolini e accusare un paese diventato “sordo e grigio” (riferimento al discorso di Mussolini al Parlamento Italiano).
Come continuarono sempre a non mancare tentativi da parte liberale di annullare gli articoli in oggetto. Il 15 marzo ci provò Orazio Condorelli[5], il 18 marzo Francesco Saverio Nitti, Unione Democratica Nazionale, tentò di togliere “effettiva”, ancora, il 20 marzo Mario Rodinò, dell’Uomo Qualunque, tornò all’attacco della formulazione intera alla seconda parte dell’articolo[6].
Vale la pena segnalare, anche se in parte laterale, l’appassionato, straordinario, intervento[7] dell’on. Teresa Mattei, Pci, che ribadì il senso delle lotte per l’emancipazione delle donne ed il loro ruolo nel testo costituzionale in connessione con l’oggetto della discussione.
Il 22 marzo andò in votazione un emendamento a firma Basso ed altri che proponeva di inserire all’art 1 il seguente testo: «L’Italia è una Repubblica democratica che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale». Si espressero contro Fanfani, Grassi, e si astenne l’autonomista Valiani. Lelio Basso argomentò in replica che il principio in oggetto, collocato all’art 1, anziché al 3 (ex 7), acquista il rango e l’importanza che merita. Come dice:
“Credo che la trasposizione dall’articolo 1 all’articolo 7, anche se questo dovesse diventare successivamente 3, sia una diminuzione del significato di questo concetto di partecipazione effettiva dei lavoratori, in cui noi ravvisiamo veramente il solo concetto nuovo che sia affermato come il fondamento della Repubblica democratica italiana.
Ciò che contraddistingue una nuova democrazia, che non sia semplicemente formale, ma che intenda realmente fare appello a tutte le forze del lavoro, pensiamo che sia appunto questa affermazione d’una partecipazione effettiva e non soltanto nominale, di fatto e non soltanto di diritto, alla organizzazione politica, sociale ed economica del Paese.
Pensiamo che inserire questa dichiarazione nell’articolo 1 abbia veramente un significato fondamentale, nel senso che si afferma che, se questa partecipazione non si realizza e nella misura in cui non si realizza, non si realizza neppure la democrazia; ossia l’articolo 1 resta un puro flatus vocis.
Questo è il significato del nostro emendamento all’articolo 1.
Trasferito all’articolo 3, riteniamo che questo concetto perda la sua efficacia; epperciò insistiamo nel votarlo in sede di articolo 1.”
Il successivo 24 marzo il duello continuò.
L’on. Condorelli ritentò di mutilare l’art.3 proponendo come emendamento: “È compito della Repubblica integrare l’attività degli individui, diretta a superare gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza e impediscono il completo sviluppo della persona umana”.
Mentre l’on Epicarno Corbino, Unione Democratica Nazionale, propose: «È compito dello Stato rendere possibile il completo sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione economica e sociale della Nazione».
A questi emendamenti l’on. Fanfani espresse, per la Dc, parere contrario, dichiarando che la mera uguaglianza dei diritti si era storicamente rivelata insufficiente e bisognava quindi andare oltre: “… Tuttavia partiamo dalla constatazione della realtà, perché mentre con la rivoluzione dell’89 è stata affermata l’eguaglianza giuridica dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo studio della vita sociale in quest’ultimo secolo ci dimostra che questa semplice dichiarazione non è stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza, e fa parte della nostra dottrina sociale una serie di rilievi e di constatazioni circa gli ostacoli che hanno impedito di fatto la realizzazione dei principî proclamati nell’89. In vista di queste considerazioni, noi, pur apprezzando l’intendimento dei nostri colleghi, manteniamo fermi il nostro voto e il nostro apprezzamento”.
Dunque, nella giornata del 24 marzo 1947, al termine della serrata discussione, furono approvati al fine gli emendamenti, “Laconi, Moro ed altri”:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia».
E quindi l’art 3 divenne:
«I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinioni politiche, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge.
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia».
La partita era chiusa.
Ora, e da tempo, stanno cercando di riaprirla. La memoria del fascismo e delle sue cause sociali è tramontata (anche e soprattutto quando se ne parla a sproposito).
Chi non conosce la sua storia rischia di riviverla.
[2] – La Commissione per la Costituzione
[3] – Il Fronte dell’Uomo Qualunque aveva eletto alcuni Costituenti ed espresse sempre una posizione di tipo liberale e fortemente anti-socialista.
[4] – “Finalmente, un ultimo cenno su quanto diceva ieri l’onorevole Nenni: faremo uno stato di lavoratori? Ma bisogna precisare. Pensiamo che se proprio la dimenticata nelle Costituzioni precedenti è stata la società economica e quindi la tutela dei lavoratori, questo volto produttivo e costruttivo dell’uomo, non può evidentemente non esser messo in rilievo in una Costituzione nuova: sarà questo un aspetto nuovo che assieme a quelli citati servirà a differenziare il tipo nuovo di Costituzione rispetto a quello di tipo individualista.
Io pensavo proprio, in questi ultimi giorni, leggendo un libro di un noto autore che fa in proposito delle preziose osservazioni, che se voi vi immaginate lo Stato come poc’anzi ve lo ho delineato — cioè come una società politica distinta da quella economica — voi non potete confondere i due titoli — politico ed economico — che qualificano l’uomo. Io, come uomo, come persona, indipendentemente dalla mia funzione produttiva, sono membro di questa collettività politica, perché sono portatore di una concezione della vita che trascende l’ordine economico e che faccio valere architettonicamente nella politica. Quindi questo volto dell’uomo membro della collettività politica bisogna metterlo in netto rilievo, distinguendolo da quello dell’uomo lavoratore: il quale, quando esplica questa funzione speciale e produttiva nelle sue varie forme, partecipa — deve, anzi, partecipare — democraticamente e quindi attivamente a tutte le comunità economiche attraverso le quali si organizza, dal basso all’alto, la società economica. Ma le due cose vanno nettamente differenziate in base a questo principio della personalità umana che è fatta a scala. C’è nella scala umana il gradino del lavoratore: ma sopra c’è il gradino dell’uomo politico e al di sopra della economia e della politica, c’è il grado supremo dell’uomo in colloquio diretto e immediato con Dio. Quindi la nostra Costituzione deve avere questo volto del lavoratore, ma con questa precisazione che è di estrema importanza giuridica e sociale.”
[5] – “Io penso che non ci sia aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro sentimento.
Ora, se conservassimo questa espressione, potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli altri».
Ma guardate come può essere interpretata questa parola «lavoratori». Io vi porto l’esempio di un economista, non dell’avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi — Pareto — che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici — e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati, nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria subliminale di lavoratori — poi c’è una terza categoria: gli oziosi; e infine una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un’attività legale o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.
Ora, lo sapete da chi è costituita la terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il lavoro degli altri.
Voi vedete, anche interpretando le cose alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori. Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi, gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz’altro nella quarta categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.”
[6] – “Mi sembra, quindi, opportunissimo stabilire e ricordare chiaramente all’inizio di questa Costituzione, in un preambolo o in una disposizione generale (allo scopo di dare una impostazione base ed una finalità inequivocabile a tutto il testo del progetto) che la nostra esperienza — un’esperienza che ci è costata lacrime e sangue, la morte dei figli e la distruzione del Paese — ci insegna che è lo Stato accentratore e totalitario il principale nemico di quella autonomia e dignità della persona umana, che l’articolo 6 intende proteggere e custodire; è lo Stato accentratore e totalitario che va individuato e combattuto in tutte quelle manovre e quei metodi che gli italiani di oggi conoscono e riconoscono, ma, che quelli di domani potrebbero ignorare.
Ed è proprio in base alla nostra passata esperienza ed ai nostri ricordi totalitari che mi dichiaro nettamente ostile alla dizione dell’articolo 7 delle disposizioni generali, là dove esso assegna alla Repubblica il compito quanto mai imprecisato, elastico ed equivoco di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui, ecc.».
Questa equivoca dizione con la scusa di tendere ad una sempre maggiore uguaglianza sociale e di favorire lo sviluppo della persona umana, autorizza di fatto lo Stato a compiti ed azioni di così vasta e complessa portata, che potrebbero essere realizzati soltanto da uno Stato non meno autoritario e non meno totalitario di quello che è alla base di tutte le nostre sventure”
[7] – “Vorrei solo sottolineare in questa Assemblea qualcosa di nuovo che sta accadendo nel nostro Paese. Non a caso, fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto, nell’articolo 7, la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione, perché proprio in queste fondamentali cose il fascismo ha tradito l’Italia, togliendo all’Italia il suo carattere di Paese del lavoro e dei lavoratori, togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale, alla vita nazionale, e togliendo quindi anche alle donne italiane la possibilità di contribuire fattivamente alla costituzione di una società migliore, di una società che si avanzasse sulla strada del progresso, sulla strada della giustizia sociale. Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia la figura di donna che nasce dalla solenne affermazione costituzionale.
Nasce e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e sono fiere di questo passo sulla via dell’emancipazione femminile e insieme dell’intero progresso civile e sociale. È, questa conquista, il risultato di una lunga e faticosa lotta di interi decenni. Il fascismo, togliendo libertà e diritti agli uomini del nostro Paese, soffocò, proprio sul nascere, questa richiesta femminile fondamentale, ma la storia e la forza intima della democrazia ancora una volta hanno compiuto un atto di giustizia verso i diseredati e gli oppressi. In una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una società che ha fatto conoscere alla donna tutti quei pesi di responsabilità e di sofferenza prima riservati normalmente solo all’uomo, che non ha risparmiato alla donna nemmeno l’atroce prova della guerra guerreggiata nella sua casa, contro i suoi stessi piccoli e l’ha spinta a partecipare non più inerme alla lotta, salutiamo finalmente come un riconoscimento meritato e giusto l’affermazione della completa parità dei nostri diritti.
La lotta per la conquista della parità di questi diritti, condotta in questi anni dalle donne italiane, si differenzia nettamente dalle lotte passate, dai movimenti a carattere femminista e a base spiccatamente individualista. Questo in Italia, dal più al meno, tutti lo hanno compreso. Hanno compreso come la nostra esigenza di entrare nella vita nazionale, di entrare in ogni campo di attività che sia fattivo di bene per il nostro Paese, non è l’esigenza di affermare la nostra personalità contrapponendola alla personalità maschile, facendo il solito femminismo che alcuni decenni fa aveva incominciato a muoversi nei vari Paesi d’Europa e del mondo. Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, noi non vogliamo che le donne italiane aspirino ad un’assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese. Per ciò riteniamo che il concetto informatore della lotta che abbiamo condotta per raggiungere la parità dei diritti, debba stare a base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un orientamento sempre più sicuro.
È nostro convincimento, che, confortato da un attento esame storico, può divenire certezza, che nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile; e per emancipazione noi non intendiamo già solamente togliere barriere al libero sviluppo di singole personalità femminili, ma intendiamo un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica del Paese.
Vorremmo a questo proposito far notare che ad un attento esame del nostro progetto di Costituzione risulta evidente che là dove si riconoscono alle donne i loro nuovi diritti parimenti ne escono vantaggio e sicurezza nuova all’istituto familiare, alla fondamentale funzione della maternità e alla piena realizzazione dei diritti nel campo del lavoro.
Ed egualmente, là dove si sancisce ogni più importante e nuova conquista sociale è sempre compresa e spesso in forma esplicita una conquista femminile. Non vi può essere oggi infatti, a nostro avviso, un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme all’uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata nella Carta costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire d’Italia.
Ma una cosa ancora noi affermiamo qui: il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo. Può questo riconoscimento costituzionale esser preso a conforto e a garanzia dalle donne italiane, le quali devono chiedere e ottenere che via via siano completamente realizzate e pienamente accettate nella vita e nel costume nazionale le loro conquiste.
Vorrei fare osservare, onorevoli colleghi, che nessun regime per principio, nei tempi moderni almeno, osa pronunziarsi contro i diritti femminili in termini costituzionali.
Ricordiamo che vi fu un momento, circa 20 anni fa, in cui persino il fascismo si trovò in forse se concedere o no alla donna per lo meno l’elettorato attivo nel campo amministrativo. E passi in quel momento furono compiuti (ricordiamo qui il convegno che allora avvenne a Firenze organizzato dalle Associazioni femminili di allora) perché questa conquista fosse raggiunta. Questo diritto, lo sappiamo bene, fu subito dopo negato dal fascismo non solo alle donne che lo chiedevano, ma tolto anche agli uomini che già ne avevano goduto. Questo però ci indica chiaramente come ogni sistema politico moderno, anche il più reazionario, sia guardingo nel negare alla donna, in quanto donna, il godimento almeno formale dei suoi pieni diritti di cittadina.
Perciò noi affermiamo oggi che, pur riconoscendo come una grande conquista la dichiarazione costituzionale, questa non ci basta. Le donne italiane desiderano qualche cosa di più, qualche cosa di più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale, della vita nazionale.
Non dimentichiamo che secoli e secoli di arretratezza, di oscurantismo, di superstizione, di tradizione reazionaria, pesano sulle spalle delle lavoratrici italiane; se la Repubblica vuole che più agevolmente e prestamente queste donne collaborino — nella pienezza delle proprie facoltà e nel completo sviluppo delle proprie possibilità — alla costruzione di una società nuova e più giusta, è suo compito far sì che tutti gli ostacoli siano rimossi dal loro cammino, e che esse trovino al massimo facilitata ed aperta almeno la via solenne del diritto, perché molto ancora avranno da lottare per rimuovere e superare gli ostacoli creati dal costume, dalla tradizione, dalla mentalità corrente del nostro Paese.
Per questo noi chiediamo che nessuna ambiguità sussista, in nessun articolo e in nessuna parola della Carta costituzionale, che sia facile appiglio a chi volesse ancora impedire e frenare alle donne questo cammino liberatore.
È purtroppo ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato l’apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale.
Occorre che questo ostacolo sia superato. L’articolo 7 ci aiuta, ma esso deve essere accompagnato da una profonda modificazione della mentalità corrente, in ogni sfera, in ogni campo della vita italiana.
Ad esempio — voglio portare questo esempio perché è tipico nel nostro Paese — anche qui, nella più alta Assemblea rappresentativa d’Italia, nell’Assemblea che dovrebbe raccogliere gli uomini più evoluti, gli uomini che più degnamente possono rappresentare le migliori tradizioni e il progresso d’Italia, alcuni giorni fa, noi deputate — noi che qui rappresentiamo tutte le donne italiane, le donne che attendono dal lavoro dell’Assemblea miglioramenti e passi in avanti per il loro Paese e per tutti i cittadini — abbiamo ancora una volta notato un’espressione comune e per noi dolorosa di dispregio che un onorevole Deputato, che sta negli ultimi settori della destra, ha usato, con la solita aria di disprezzo. Egli ha detto precisamente: «Sono di genere femminile e quindi sempre infide». (Ilarità).
È questo un malvezzo che penetra ovunque, che vive nel nostro linguaggio ormai come un luogo comune, che collabora a deprimere la donna, relegandola sistematicamente in una sfera di vita inferiore e semi-animale.
Onorevoli colleghi, anche qui dunque — e questo purtroppo non è il solo esempio — fa capolino quella diffusa e negativa mentalità. Non solo contro le espressioni del linguaggio, ma noi dobbiamo protestare qui pur senza invadere il campo di prossime discussioni, e per dare un esempio di quanto sia radicata questa mentalità deteriore, contro il malvezzo — e speriamo che sia solo malvezzo — che ha portato perfino il Comitato di coordinamento e di redazione della Commissione per la Costituzione ad includere, nonostante che la seconda Sottocommissione non si fosse pronunciata al riguardo, una forte limitazione per le donne nel campo della Magistratura.
L’articolo 98 suona infatti così: «I magistrati sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario».
Anche ammesso, come speriamo, che il futuro ordinamento giudiziario sia ben migliore di quello vigente, noi non possiamo ammettere che alle donne, in quanto tali, rimangano chiuse porte che sono invece aperte agli uomini. (Commenti).
Sia tolto ogni senso di limitazione e sia anzi affermato, in forma esplicita e piena, il diritto delle donne ad accedere, in libero agone, ad ogni grado della Magistratura, come di ogni altra carriera. Ma vi è di più — e questo dico per illuminare l’Assemblea sulla necessità di aiutare le donne italiane nella realizzazione dei loro diritti e nella difesa delle loro libertà —: occorre che nel nostro Paese non siano più ammesse disposizioni pubbliche o private che limitino la libertà umana e in particolare femminile, come la disposizione, ad esempio, che tuttora mi consta esistere e che vieta a determinate categorie di infermiere di contrarre matrimonio, pena la perdita del lavoro. Vi sono in Italia, fra queste particolari categorie, innumerevoli casi di lavoratrici costrette ad una vita familiare irregolare, numerose madri di figli illegittimi, solo perché, per non perdere il pane, devono rinunciare a contrarre regolare matrimonio. È questa una disumana ed immorale misura limitatrice della libertà, della dignità, della personalità umana di lavoratrici incolpevoli e dei loro incolpevoli figli.
Per questa ragione io torno a proporre che sia migliorata la forma del secondo comma dell’articolo 7 nel seguente modo:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano «di fatto» — noi vogliamo che sia aggiunto — la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».
Voi direte che questo è un pleonasmo. Noi però riteniamo che occorra specificare «di fatto». Vogliamo qui ricordare quello che avviene in altri paesi democratici. Si dice che l’Inghilterra sia un paese democratico: ebbene, nella democratica Inghilterra le donne hanno conquistato formalmente il riconoscimento della parità assoluta dei diritti circa trent’anni fa, nel 1919. Ma ancora oggi in questa libera e democratica Inghilterra, dove le donne dovrebbero godere di tutti i diritti come gli uomini, poco si è fatto, perché ci si è limitati a sancire formalmente una conquista, che poi nessuno ha voluto realizzare nella pratica. E là, dopo trenta anni di vita democratica o di possibilità di vita democratica per le donne, queste non hanno potuto accedere a tutti i posti che loro spettavano. E noi vediamo che nella stessa Inghilterra è proibito, per esempio, di sposarsi alle maestre, alle insegnanti di alcune categorie. Orbene, noi riteniamo che questo esempio dell’Inghilterra possa servire per noi, che valga come insegnamento, valga a chiarire che quelle conquiste che noi donne facciamo nella vita nazionale — le conquiste giuridiche — non possono essere realizzate pienamente nella vita, se non sono accompagnate da altre conquiste, da conquiste di carattere sociale, economico, se non sono accompagnate, cioè, da una completa legislazione in proposito.
Onorevoli colleghi, se osserviamo da vicino questo progetto di Costituzione, malgrado il pessimismo più o meno artificioso con cui lo si critica e deplora da parte dei gruppi che rappresentano il passato e gli interessi della conservazione, possiamo affermare che in esso è uno slancio verso il progresso, verso la giustizia, verso la pratica attuazione di una società più umana, più giusta, migliore dell’attuale.
Siamo convinti che questo slancio avrebbe potuto essere più agile, più libero, che questa attuazione avrebbe potuto farsi anche più rapidamente.
Ma già in questa forma molto si potrà realizzare, ne siamo sinceramente convinte, se i grandi gruppi politici che rappresentano le masse lavoratrici collaboreranno alla traduzione fedele nelle leggi, nella vita e nel costume nazionale dei principî che nella Costituzione sono affermati.
Se cioè esiste realmente da parte di ognuno di questi gruppi la buona fede e la volontà realizzatrice, potremo con questa Costituzione raggiungere più rapidamente una forma di società migliore, che cancelli definitivamente le tracce, le rovine, i segni di oppressione del fascismo, che ne distrugga nel profondo le cause.
E se vi è questa buona fede, come noi desideriamo vi sia, allora dobbiamo realmente vedere in tutti i rappresentanti delle lavoratrici e dei lavoratori la stessa volontà, nella forma più chiara, più esplicita, più fattiva, di aiutare le donne italiane ad essere cittadine coscienti.
Mazzini, e tutti i nostri grandi che hanno pensato ed operato per l’avvento nel nostro Paese della Repubblica, ci hanno insegnato che la pietra angolare della Repubblica, ciò che le dà vita e significato, è la sovranità popolare.
Spetta a tutti noi, e lo afferma anche il Presidente della Commissione per la Costituzione nella sua relazione introduttiva, di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica per rendere effettiva e piena questa sovranità popolare. Ma, perché questo accada veramente, occorre che accanto ai cittadini sorgano, si formino, lavorino le cittadine; fatte mature e coscienti al pieno adempimento di tutti i loro doveri, da quelli familiari ai civici, dal normativo ed educatore godimento dei loro pieni diritti.
Aiutateci tutti a sciogliere veramente e completamente tutti i legami che ancora avvincono le mani delle nostre donne e avrete nuove braccia, liberamente operose per la ricostruzione d’Italia, per la sicura edificazione della Repubblica italiana dei lavoratori. (Vivissimi applausi a sinistra — Molte congratulazioni).”
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2019/10/note-sul-dibattito-costituente-lart-3-e.html
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