Spuntare un cuneo non basta
di MARCO TROMBINO (FSI Genova)
Premessa: un aumento dello stipendio in busta paga è sempre una novità positiva, e specialmente in questi tempi di salari inadeguati, contratti di lavoro precario e offerte professionali al limite del ridicolo anche un piccolo aumento nell’ordine di qualche decina di euro deve essere vissuta come una buona notizia. Tuttavia il taglio del cuneo fiscale promosso dall’attuale governo Conte II rappresenta una riforma veramente troppo parziale per essere considerata rivoluzionaria, e non è destinata ad incidere significativamente sul reddito dei lavoratori italiani.
Gli aumenti netti in busta paga vanno dai 100 euro al mese per redditi tra 9.000 e 26.000 euro (si noti che non è previsto per i redditi infeririori), con il coinvolgimento di circa 750.000 percettori, dai 97 euro agli 80 euro per i redditi nella fascia di reddito tra i 29.000 e i 35.000 euro, dai 64 euro mensili dai 36.000 euro a scendere fino ad azzerarsi completamente sui 40.000 euro di reddito lordi annui. Perfino un giornale filogovernativo come “la Repubblica” lamenta l’esiguità dell’aumento per alcune fasce di reddito, in cui l’incremento si riduce a 16 euro al mese, meno di 1 euro al giorno, tanto dal doverlo giustificare con l’affermazione “la coperta è corta, si sapeva”.
I sindacati confederati CGIL, CISL e UIL hanno accolto con favore il decreto attuativo di questo taglio al cuneo fiscale e lo hanno commentato in maniera apertamente positiva, anche perché il decreto stesso era stato concordato tra il Ministero dell’Economia e i sindacati stessi. “È un primo passo” segnala Furlan (CISL), “Va nella direzione giusta” conferma Landini (CGIL), “Siamo partiti col piede giusto” afferma Barbagallo (UIL).
Il problema di tale decreto è proprio che coinvolge esclusivamente l’ambito fiscale. Le aziende datrici di lavoro non risultano in alcun modo coinvolte dall’operazione: se un privato prima pagava (per fare un esempio) 20.000 euro lordi annui per un dipendente, dopo l’entrata in vigore della legge continuerà a versare invariato tale lordo. Ne consegue che ben difficilmente si potranno, negli anni a venire, ottenere nuovi aumenti di stipendio allo stesso modo: la fiscalità è strettamente legata alle entrate e, a meno di incassi favolosi nei prossimi anni, non sarà possibile agire sullo stesso cuneo in future circostanze, se non a costo di nuove tasse su altri prodotti/servizi che potrebbero vanificarne gli effetti benefici, erodendo il potere d’acquisto degli stipendi.
Alla fine, questo “primo passo” con cui “siamo partiti” nella “direzione giusta” finirà per rappresentare uno sgravio fiscale isolato senza seguiti; a meno di enormi ingressi del fisco che non si vede né come né quando negli anni a venire potrebbero verificarsi, fintantoché non vengono messi in discussione l’indebitamento pubblico e il pareggio in bilancio, quindi un ambito più strutturale. Chi dirige i principali sindacati nazionali dovrebbe saperlo. Si tratta di una vittoria sindacale destinata a rimanere episodica. Le sorti dei lavoratori italiani, della loro occupazione e del loro salario rimarranno ancora in balia dei capricci del mercato.
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