Economia o salute? Di più: è un problema di democrazia
di ANONIMO SOVRANISTA
Per valutare con equilibrio l’azione del governo durante la pandemia non può bastare una critica della sola politica sanitaria e nemmeno della politica economica. Entrambe devono essere ricomprese in un’analisi più ampia che tenga in debito conto l’influenza del discorso pubblico o, come si preferisce dire oggi banalizzando, della comunicazione. Mai come durante un’emergenza il discorso pubblico produce effetti immediati, diretti, sulle azioni individuali e collettive e sulla coscienza politica delle classi popolari. Pensiamo anche solo all’influsso che un discorso pubblico più o meno allarmista è in grado di esercitare sull’occupazione degli ospedali da parte dei cittadini paucisintomatici, con le ricadute a cascata sulla saturazione dei posti letto e sul diffondersi ulteriore del contagio.
Cerchiamo allora di isolare per un momento il nostro oggetto di studio – appunto il discorso pubblico durante la pandemia – eliminando le altre variabili, per quanto interconnesse.
La nostra ipotesi di partenza è che il governo Conte II abbia agito dal marzo scorso al massimo delle sue possibilità sia dal punto di vista sanitario che economico, dato il contesto.
Un’ipotesi che sembra avere una sua ragion d’essere ad uno sguardo superficiale e che non ha mancato di stuzzicare per qualche tempo anche il sottoscritto: in fondo il governo ha arginato la prima ondata attraverso una serrata generale, molto dura dal punto di vista economico, ma qualitativamente non così diversa da quanto deciso altrove, in Europa e nel mondo. Quello italiano era il primo governo occidentale a dover affrontare il problema su larga scala e ha risposto prendendo esempio dalla Cina, il primo Paese in assoluto colpito dal virus.
Anche dal punto di vista economico uno sforzo è stato fatto, con 100 miliardi di euro iniettati nell’economia attraverso i tre decreti Cura Italia, Rilancio e Agosto e un deficit pubblico che nel 2020 supererà senza dubbio il 10% del Pil, tutto compreso. Certo, si poteva fare di più e prima, in astratto, ma diamo atto a questo esecutivo di dover affrontare un’emergenza sanitaria avendo ereditato rigidi vincoli alla finanza pubblica, una sanità allo sfascio, pesantemente de-finanziata e disarticolata dal regionalismo, e più in generale il vincolo esterno europeo sulla sua politica economica. Data l’eredità, forse di più non si poteva fare. È un’opinione diffusa, che non ci interessa smentire in questa sede.
A questo punto chiediamoci: anche fosse davvero così, il giudizio complessivo sull’azione di governo può ritenersi positivo, o quantomeno è possibile sospenderlo in attesa di elementi aggiuntivi?
La risposta è un secco no, e la ragione è semplice: il governo non ha diffuso tra le classi popolari la coscienza di questa disastrosa eredità. Non ha impostato il suo discorso pubblico sul vincolo giuridico e politico che oggi, per la seconda volta in pochi mesi, costringe gli italiani al peggiore dei ricatti: o la salute dei propri cari anziani e dei più fragili – e quindi il lockdown estremo – o la sopravvivenza economica di milioni di lavoratori dipendenti del settore privato, di centinaia di migliaia di partite iva e lavoratori autonomi e di centinaia di migliaia di imprese di piccole e medie dimensioni.
Ad esempio, non c’è stata alcuna riflessione pubblica coscientemente stimolata dall’esecutivo riguardo l’assoluta impreparazione della cosiddetta medicina primaria e del sistema di tracciamento di fronte ad un virus ad alta contagiosità (anche se a letalità relativamente bassa, circa tre volte quella dell’influenza stagionale secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che fissa la letalità globale mediana allo 0,23%).
Dopo diversi mesi dall’inizio della prima ondata è ormai noto che a rispondere meglio alla sfida del virus sono stati i sistemi sanitari fondati sull’assistenza territoriale, come testimoniano i risultati in termine di contagiati, ospedalizzazione e letalità di diversi Paesi asiatici, della Germania e, in Italia, del Veneto rispetto in particolare alla vicina Lombardia, caratterizzata da un sistema sanitario centrato sull’assistenza ospedaliera. Se c’è un’alternativa sanitaria al lockdown è dunque il potenziamento massiccio della medicina primaria attraverso l’assunzione stabile di migliaia di medici e infermieri di famiglia e un adeguato sistema di tracciamento e isolamento, quest’ultimo domiciliare o, nel caso non fosse conveniente, in strutture dedicate ai positivi non gravi. Certo un investimento sulla salute che non è possibile completare in pochi mesi, dopo anni di tagli, ma in tal caso è necessario trovare il miglior equilibrio possibile tra salute, economia e vita civile evitando restrizioni inutili o paranoiche e preparandosi per tempo; ma soprattutto stimolando la pubblica riflessione a partire dalle sedi istituzionali. Un conto è chiedere sacrifici economici e civili a valle di una chiara presa di posizione politica riguardo agli errori del passato, alle mancanze del presente e agli obiettivi del futuro, un altro è imporre quegli stessi sacrifici, o sacrifici ancora maggiori del necessario, senza stabilire il fine (sradicamento totale del virus o tentativo di convivenza?) e scaricando su altri livelli istituzionali e sui singoli cittadini la responsabilità del successo o del fallimento.
Da questo punto di vista, alla vigilia di un secondo lockdown – per ora di fatto, domani magari di diritto – nulla è cambiato.
Il motivo di questa impostazione omertosa è palese a chi abbia riflettuto sulla genesi e sulla natura profonda della Seconda Repubblica: l’assoluta fedeltà di questo e dei precedenti governi a quel vincolo esterno europeo che ha prima stimolato la strisciante privatizzazione dei servizi pubblici, incluso quello sanitario, e ora impedisce una reazione economica adeguata al tracollo della produzione, oltre che in prospettiva dell’occupazione.
Tanto per dare una dimensione a queste parole, il Pil italiano nel 2020 si ridurrà di oltre il 10%, cioè di circa 180-200 miliardi di euro rispetto al 2019, mentre nel complesso l’intervento economico dello Stato si è fermato a 100 miliardi di euro, con uno iato spaventoso di 80-100 miliardi, pari ad almeno il 5% del Pil (a prescindere dalle condizioni di partenza che vedevano l’Italia, unica in Europa insieme alla Grecia, ancora sotto ai livelli di Pil del 2008).
È di certo vero che l’Unione Europea ha rilassato in questa fase i vincoli sulla finanza pubblica sospendendo il Patto di Stabilità e Crescita, sfumando il divieto di aiuti di Stato e lasciando campo all’azione monetaria espansiva della Bce, ma lo ha fatto in un’ottica di sopravvivenza delle sue istituzioni e dei suoi vincoli, come in parte era già successo dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011-2012. Non quindi un cambio di direzione strutturale della politica economica, che richiederebbe lo stravolgimento dei Trattati Europei, ma un congelamento contingente dell’impianto deflazionista insito in quei Trattati così da garantirlo nel medio e lungo periodo.
Tanto è vero che sull’azione espansiva della Bce pende da un lato la spada di Damocle della Corte costituzionale tedesca, sempre pronta a minacciare l’uscita della Germania dal perimetro dell’eurozona, e dall’altro la stessa natura temporanea e limitata del programma di acquisto di titoli pubblici che la signora Lagarde ha attivato nel marzo scorso. Il Pepp della Bce, così si chiama, durerà fino al giugno 2021 e probabilmente anche oltre, ma non sarà mai una condizione a priori della politica economica unionista. Persino in questa fase di espansione monetaria la copertura della Bce non è illimitata, fermandosi a 1.350 miliardi per tutta l’eurozona. L’Italia, in definitiva, non può espandere il deficit pubblico alla bisogna per compensare interamente il crollo del Pil e risolvere il grave problema occupazionale che già esisteva prima della pandemia, può solo galleggiare nella recessione per impedire rivolte sociali (vedremo se ci riuscirà) mantenendo intatta la direzione deflazionista e mercantilista dell’economia che persegue da diversi decenni sotto la pressione del vincolo esterno. E dopo il 2021 incombe, naturalmente, il ritorno del Patto di Stabilità oppure una sua modifica che, a giudicare dal dibattito in corso, sarà peggiore del male.
La persistenza di un vincolo europeo alla finanza pubblica anche in questa fase di sospensione delle regole più rigide, è testimoniata dal grafico che segue del Fondo Monetario Internazionale. Vi si trova la risposta economica degli Stati alla pandemia, suddivisa per stimolo fiscale (spesa diretta nell’economia, barra blu scuro) e strumenti di garanzia, liquidità e ricapitalizzazione (barra azzurrina, la famosa e in realtà impercettibile “potenza di fuoco” di contiana memoria). Germania esclusa (non a caso, avendo vinto essa la competizione europea indotta da euro e Trattati ed essendosi così sottratta al vincolo dei mercati finanziari), tutti gli altri principali Paesi dell’Unione hanno speso in stimolo fiscale diretto meno o molto meno dei Paesi extra Ue:
fonte: Fondo Monetario Internazionale https://www.imf.org/en/Topics/imf-and-covid19/Fiscal-Policies-Database-in-Response-to-COVID-19
Dunque, la rinuncia del governo a fondare il discorso pubblico su basi razionali e storicamente fondate ha condotto necessariamente al moralismo di Stato. Nel disperato tentativo di sollevare la classe dirigente europeista della Seconda Repubblica dalle sue responsabilità – talmente pesanti da essere palesi – l’unica soluzione praticabile, in effetti, era deresponsabilizzare la politica in quanto tale individualizzando la gestione della pandemia e alterandone la portata per mezzo della diffusione a piene mani di confusione e paura. Ecco allora che la comunicazione del governo, ma più in generale della classe dirigente governista – stampa e tv in testa – si è risolta da un lato nel sensazionalismo quotidiano sui dati dei ricoveri e dei decessi, e dall’altro nel legare questi dati sapientemente decontestualizzati al comportamento dei singoli, o meglio di alcuni gruppi sociali via via additati come responsabili della diffusione del virus (il corridore senza mascherina, i giovani della movida, il ristoratore inadempiente, le famiglie festaiole, gli scolari indisciplinati…)
Una narrazione non monolitica, perché la classe dirigente stessa è attraversata al suo interno da conflitti politici più o meno profondi che aprono squarci di verità nel discorso pubblico, ma in ogni caso efficace, dato che nel complesso le opposizioni parlamentari hanno rinunciato a svolgere una critica organica all’azione dell’esecutivo. Esempio supremo di questo atteggiamento arrendevole delle opposizioni è la loro adesione alla prassi emergenziale dei DPCM, atti amministrativi che non transitano per il Parlamento. E se nella nostra Repubblica parlamentare il Parlamento è per definizione la sede del discorso pubblico, rinunciarvi significa consentire al governo di accentrare il discorso pubblico al riparo dalla democrazia.
Perché questa arrendevolezza? Per la stessa fondamentale ragione che ha spinto il governo a individualizzare la narrazione della pandemia: fedeltà assoluta di tutto l’arco parlamentare, opposizioni incluse, al vincolo esterno europeo, che non può essere “messo in discussione”, cioè innanzitutto parlamentarizzato. Guai a ragionare pubblicamente dei vincoli strutturali all’azione pubblica se si può giocare a scaricarsi vicendevolmente le responsabilità politiche del contagio e dei fallimenti in campo economico scimmiottando un conflitto politico che non sussiste (se non per mere ragioni di potere).
In definitiva, anche sospendendo il giudizio sulla politica sanitaria ed economica del governo è la gestione complessiva dell’epidemia ad essere negativa, almeno secondo un criterio di giudizio democratico, che in fondo è il più importante.
D’altra parte è ormai diffusa nella popolazione l’idea che governare con la paura durante l’emergenza sia cosa buona e giusta, perché è il popolo in primis, diviso come è oggi, a diffidare dei comportamenti, dei pensieri e degli istinti del popolo. È un problema di mancanza di riconoscimento: il popolo non riconosce più di essere tale e si disarticola in mille rivoli corporativi, pronto a scaricarsi addosso una rabbia istintiva, di per sé giustificata, ma non sapientemente elaborata e quindi direzionata. Un esito ormai noto, essendo l’emergenza sanitaria da Covid solo l’ultima edizione di una narrazione emergenziale che solitamente è di natura economico-finanziaria, quando non climatica.
Prima ancora della salute e del benessere materiale, in ultima analisi, quella in cui ci troviamo invischiati è una questione di democrazia e come tale va posta da chi ritiene di essere avanguardia popolare.
Questo non significa, va da sé, negare l’esistenza materiale del virus e la sua pericolosità per alcune categorie specifiche – oltre che per il sistema sanitario pubblico nel suo complesso – ma interrogarsi su come un’emergenza reale, di molto accentuata dalle precise responsabilità storiche di un’intera classe dirigente, sia utilizzata ancora una volta per negare al popolo la possibilità di costruirsi una matura coscienza di classe e nazionale, e anzi per abituarlo sempre più all’asservimento disciplinato.
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