Ho scritto per anni che il mito dell’Europa accogliente con i migranti era, appunto, solo un mito. Non è che ci volesse un genio per capirlo, bastava guardare i fatti e le cifre. Ingresso vietato nella Ue ai migranti economici. Il 62% delle richieste di protezione umanitaria o asilo respinto già in prima istanza. Certo, c’erano stati momenti di grande slancio umanitario: l’Operazione “Mare Nostrum” nel 2013, l’apertura della Germania (peraltro durata poche settimane) nel 2015. Ma si trattava, a ben vedere, di iniziative prese da questo o quello Stato, non il frutto di una politica della Ue. E se parliamo di Stati, dobbiamo constatare che in questi ultimi anni molti hanno reso più rigide le norme che regolano l’immigrazione. Il Regno Unito della Brexit, ovvio. Ma anche la Francia, l’Austria, l’Ungheria, la Germania.
E per venire all’Italia: è poi così ampia la differenza tra i “porti chiusi” dell’allora ministro degli Interni Salvini e l’attuale politica che non cancella la legge Bossi-Fini, blocca le navi delle Ong nei porti con speciosi provvedimenti amministrativi, spaccia per efficace un accordo per la redistribuzione dei migranti (Malta, settembre 2019) che come tutti i precedenti non ha mai funzionato, e intanto arruola altri Paesi (nel nostro caso, oltre alla Libia anche la Tunisia) perché intercettino i migranti per conto nostro?
Adesso si sono accorti tutti di come funziona davvero l’Europa. Le cronache orrende del campo profughi di Lipa, in Bosnia, sono finite con ampio risalto su tutti i giornali. E pensare che ospitava, prima di essere messo a fuoco dagli stessi disgraziati costretti a viverci, poco più di mille persone. Ma l’Europa non vuole nemmeno quei mille, proprio come non aveva voluto i disgraziati del campo di Moria, sull’isola di Lesbo, dato alle fiamme nel settembre scorso. In quell’occasione, inoltre, i vertici della Ue (la Von Der Leyen per la Commissione e Sassoli per il Parlamento) si erano precipitati in Grecia per incitare le autorità locali a proseguire con il respingimento dei migranti. Figuriamoci quindi se l’Europa ha voglia di prendersi tutti quelli che stanno nei campi-lager in Libia, tra i 30 e i 50 mila, come qualcuno fantasticava ancor poco tempo fa.
Perché ho ricordato tutto questo? Perché in quel periodo il mito dell’Europa accogliente serviva a respingere il babau del populismo e del sovranismo. E a tale mito bisognava genuflettersi per non essere subito arruolati nelle file della destra, dei razzisti, dei sovranisti. Risultato: del problema dei migranti (che non è contingente ma duraturo, che non si risolve nel Mediterraneo ma semmai in Africa) si è smesso di ragionare per correre dietro al solito, patetico e inutile derby tra buoni e cattivi. Come se i cosiddetti buoni e i cosiddetti cattivi non fossero ugualmente alle prese con una questione enorme e difficile da risolvere, e non proponessero soluzioni che alla fin fine, cosmesi a parte, molto si somigliano.
È questa la deriva intellettuale del nostro tempo. Abbiamo deciso che le ideologie non servono e ci siamo autoconfinati nella gabbia del “bene” o “male”, chiedendo solo adesioni di principio, teoriche, aprioristiche, fintamente etiche. Che ci spostano, quelle sì, verso una realtà virtuale che con i fatti e le cose ha rapporti sempre più labili.
Mi sono imbattuto in questa follia molte volte negli ultimi tempi. Dicevi che, al di là del suo uso del potere, Vladimir Putin ha comunque un sostegno reale e popolare in Russia? Putiniano! Nemico dell’Occidente! Perché Putin è un tiranno, ammazza tutti, fa le guerre, è un nostro avversario politico QUINDI non può avere un sostegno reale, spontaneo. Questo sì, un ragionamento da trinariciuti, che ignora le pulsioni potenti e sotterranee della Russia, il suo desiderio di sicurezza e stabilità, l’orgoglio nazionale che la anima, anche qualche risultato non da poco che Putin ha comunque ottenuto. Non a caso tutte le rilevazioni serie attribuiscono ora allo Zar il 60% del gradimento, che è il minimo della sua parabola politica ma anche molto più di quanto raccolgano in patria i leader occidentali. Basta seguire un poco i media per capire che i giornalisti della Russia non si occupano più, non la osservano, non la studiano. Nemmeno la criticano davvero, peraltro, cosa che richiederebbe conoscenza. Perché sbattersi quando è così comodo arruolarsi nelle schiere dei buoni?
La stessa cosa avviene ora con il clamoroso crepuscolo di Donald Trump. Buoni e cattivi e stop. Mi sono trovato in un piccolo dibattito in Rete con due colleghi che mi trattavano un po’ da fesso perché dicevo che Trump aveva perso e non aveva possibilità di ribaltare il risultato. Tutta una roba di repubblicani traditori, di piani raffinatissimi che Trump stava per attuare… E poi abbiamo visto di che si trattava: fare balletti sulle note di “Gloria” guardano i disordini in Tv. Ma soprattutto: possibile che nessuno capisca che la politica Usa non funziona così? Che c’è un riflesso, condizionato dalla Storia, per cui ci si spara addosso di tutto ma ci si ferma nel momento in cui è a rischio il funzionamento del sistema?
Nel 2000 George Bush andò alla Casa Bianca al posto di Al Gore grazie ai delegati della Florida, dov’era avanti per un pugno di voti. Gore chiese il riconteggio, la Corte Suprema lo negò con motivazioni assai discutibili (non c’erano i tempi tecnici, dissero), anche se sei giudici su nove misero nero su bianco una lettera di censura per le autorità repubblicane della Florida che, pur di convogliare voti su Bush, avevano fatto ogni sorta di porcheria. E Al Gore si ritirò in buon ordine. Gli Usa funzionano così, like it or leave it, e nessuno pseudopiano di Trump poteva cambiare costumi tanto radicati.
Dall’altro lato, quello che Trump è il demonio e ha fatto solo disastri, atteggiamenti identici anche se di segno opposto. Già nel 2016, quando Trump sbucò dal nulla per prendersi la Casa Bianca a spese di Hillary Clinton, le analisi furono drammaticamente sommarie. La risposta dei “buoni” fu in sostanza: tutta colpa di Putin e degli hacker russi. Quattro anni dopo Trump perde le elezioni ma prende 74 milioni di voti (contro i 63 ottenuti nel 2016), allarga la propria platea di consensi e spacca in due l’America. E la risposta qual’è? Tutta colpa di Twitter. Qualcuno spiega pure che i seguaci di Trump sono fascisti, lasciando ai posteri il compito di accertare come ci siano arrivati, negli Usa, 74 milioni di fascisti. E soprattutto, di chiarire che cos’abbiano trovato di interessante in Trump gli 11 milioni che non lo avevano votato nel 2016 ma lo hanno votato nel 2020.
Come per i fan di Trump, anche per gli anti-Trump conta portare il distintivo dei “buoni”, non capire che cosa succede davvero nella pancia dell’America. Se ci sia, per esempio, un qualche nesso tra il tipo con le corna che assalta il Campidoglio a Washington e l’urbanizzazione di massa (l’80,7% degli americani ormai vive in grandi città), l’abbandono delle campagne, la finanziarizzazione dell’economia e il mito del denaro mobile che si scaricano sul popolo dei salari fissi e delle fabbriche, la dinamica distorta di crescita delle minoranze e di ex schiavi ed ex migranti (tra vent’anni, negli Usa, i bianchi non saranno più maggioranza) che salgono nella scala sociale per il reddito ma restano ai primi posti per abbandono scolastico e condanne penali.
Ed è tutto così. I gilet gialli? Fascisti anche loro, ovviamente. Poco importa se la protesta in Francia è nata come risvolto di un problema assai serio, e cioè: chi paga la trasformazione industriale necessaria a sostenere le politiche pro-ambiente che tutti i Governi definiscono necessarie e urgenti? Su quale strato sociale si scarica? E meno ancora importa se di un simile problema sociale dovrebbero occuparsi per primi i partiti di sinistra e i sindacati, invece assenti. Conta solo decidere chi è il buono.
Questa non è la fine del giornalismo, tragedia minore cui l’umanità potrebbe sopravvivere. Non è la fine dell’intelligenza. Peggio, molto peggio: è la fine della politica, ovvero dell’unico strumento davvero efficace che abbiamo per governare le società complesse e un mondo che, mentre diventa sempre più piccolo, è aggredito da problemi sempre più grandi. Politica che può produrre risultati positivi per tutti solo se si acconcia ad affrontare la realtà, non a rinchiuderla in categorie di comodo. Per non arenarci tutti in quell’idea di politica di cui si faceva beffa il poeta e filosofo francese Paul Valéry: “La politica è l’arte di evitare che la gente si interessi di ciò che la riguarda.”
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