Perché Draghi? (parte seconda)
di L’ANTIEUROPEISTA
Nella prima parte abbiamo scritto del perché la Seconda Repubblica sia una spirale. Ogni ciclo si conclude con un governo tecnico che interviene laddove i partiti non si sono mostrati disposti ad arrivare.
Dunque: dove si è fermato il secondo governo Conte, e dove andrà il governo Draghi?
Lo sfondo è sempre il medesimo: il cosiddetto “pilota automatico” di cui l’ultimo arrivato a Palazzo Chigi, Mario Draghi, è un illustre teorico. Si tratta di quella selva di vincoli e regolamenti che, indipendentemente dalla composizione dell’esecutivo, impediscono agli Stati di centrare i principali obiettivi di politica economica: alti livelli occupazionali, tassi di crescita e di produttività soddisfacenti e un’inflazione stabile ma non nulla. Prima e oltre tutto ciò, per l’Unione Europea, viene il sacro rispetto della stabilità del bilancio pubblico, che deve tendere anno dopo anno al pareggio, spesa per interessi inclusa.
Tale cornice tende ad essere sospesa solo quando l’Unione è a rischio deflagrazione in virtù delle sue stesse regole. In seguito ad una grande crisi, come quella scatenata dal covid, serve un rimbalzo, perché l’equilibrio su cui si fonda la sopravvivenza dell’Unione è la stagnazione, non la recessione. Ecco dunque che, esattamente come dopo la grande crisi del 2008, nel 2020 si è aperta la parentesi del deficit pubblico e il Patto di Stabilità è stato congelato a tempo.
Qui si inserisce il secondo governo Conte, sostenuto da M5S e Pd, oltre a Leu e al partito usa e getta di Renzi.
Davanti ad un’economia che stava cadendo del 10% il governo ha sfruttato la parentesi del deficit senza strafare. Nel contesto europeo, già di per sé abulico, l’Italia si è posizionata nella seconda metà della classifica in quanto a intervento pubblico durante la pandemia, ben dietro la Germania e in media con gli Stati mediterranei, Francia inclusa.
Viene da chiedersi perché, vista la sospensione dei vincoli di bilancio e la parziale sospensione della stessa disciplina sugli aiuti di Stato. La risposta in fondo è semplice: al netto della retorica sull’Europa che cambia tutte le classi dirigenti nazionali sono consapevoli che il Patto di Stabilità tornerà, così com’è o dopo un’operazione di maquillage. Gli Stati che hanno vinto nel corso degli anni la competizione economica stimolata dai Trattati europei, Germania in testa, avevano gli spazi fiscali per spendere con relativa abbondanza e sostenere in modo significativo il tessuto produttivo, mentre gli altri, consci che dovranno tornare presto a ridurre deficit e debito pubblico, hanno deciso prudentemente di limitare la reazione, così da diluire per quanto possibile i sacrifici futuri e garantire la sostenibilità della finanza pubblica nel lungo periodo.
Eppure c’è modo e modo di gestire una crisi. La si può sfruttare per accelerare le riforme neoliberali, come richiedono Confindustria e le istituzioni europee, oppure si può provare a sopravvivere per mantenere livelli di consenso adeguati, alternando il bastone e la carota.
Nel contesto di un intervento espansivo del tutto insufficiente, date le dimensioni del crollo, il governo Conte ha provato non senza dissidi interni a percorrere la seconda strada: il blocco dei licenziamenti, per quanto incompleto, è stato prorogato più volte, e già si parlava di estenderlo in qualche misura a tutto il 2021, decine di miliardi sono stati spesi per la cassa integrazione, erogata senza distinzioni riguardo alla dimensione d’impresa, e queste ultime sono state finanziate a pioggia, con bonifici a fondo perduto. Pochi spiccioli ma a tutti.
Allo stesso tempo il governo Conte ha redatto un Recovery Plan ritenuto gravemente lacunoso da parte di Confindustria e della Commissione Europea, tanto da stimolare l’intervento in prima persona del commissario europeo Gentiloni. Evidentemente non bastavano i fondi dedicati alle imprese private e, oggettivamente, non si indicavano le riforme strutturali che l’Unione richiede in cambio dei pochi e maledetti fondi europei.
Se con questi argomenti, e con la prossima elezione del nuovo Presidente della Repubblica, si può spiegare la crisi del Conte II e la venuta di Mario Draghi, è facile intuire quale sarà l’indirizzo di politica economica del suo governo.
E d’altra parte basta leggere quanto ci dicono in faccia lo stesso Draghi, in un paper pubblicato di recente dal Group of Thirty che presiede, il Presidente della Repubblica Mattarella e il solito Mario Monti, il nostro nemico più sincero.
Nel paper intitolato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid si suddividono le imprese private in cinque categorie:
– le imprese economicamente redditizie, con basso indebitamento in rapporto all’attivo e che sono meritevoli di credito;
– le imprese dello stesso tipo ma che accedono più difficilmente al credito;
– le imprese potenzialmente redditizie ma troppo indebitate e illiquide;
– le imprese potenzialmente redditizie, ma troppo indebitate, illiquide e insolventi;
– le imprese non redditizie dato il modello d’affari.
Mentre per le prime quattro categorie si prevedono interventi differenziati, che vanno dal sostegno alla liquidità fino alla ristrutturazione, nella quinta categoria risiedono le future “aziende zombie” (sic), le quali “undergo necessary business adjustments or are closed”[1]. Tradotto: devono “subire” i necessari aggiustamenti o chiudere.
Già, ma chi decide se un’azienda sul lungo periodo non è redditizia? A leggere il Gruppo dei Trenta guidato dal nostro prossimo Presidente del Consiglio sembra quasi che a deciderlo sia una crisi economica di dimensioni spaventose della quale le singole imprese non hanno la minima responsabilità. Una crisi che peraltro segue un’altra grande crisi e un decennio di recessione e stagnazione. Chi nonostante tutto ha resistito all’urto ma è in grave difficoltà deve essere accompagnato alla chiusura, perché non è redditizio.
È il mercato, giusto? No, in effetti a pensarci è l’incuria di uno Stato stritolato da vincoli di finanza pubblica classisti, un vincolo esterno che seleziona poche grandi imprese in grado di piazzarsi sui mercati esteri e lascia morire lentamente tutte le altre.
Da tutto ciò si dovrebbe capire bene, a meno di allucinazioni “sovranare”, perché il partito di riferimento delle imprese esportatrici (la Lega, che presto tornerà Nord) appoggi con malcelato entusiasmo il governo di Mario Draghi.
Tutto si tiene. E se è d’accordo la Lega Nord non possono che essere sulla stessa linea d’onda anche gli altri due alfieri italiani dell’europeismo: il Presidente della Repubblica e Mario Monti.
Nel discorso in cui ha anticipato il mandato a Draghi, Sergio Mattarella ha toccato un altro punto importante della politica economica che verrà. Ecco il passaggio chiave:
“Sul versante sociale, tra l’altro, a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale”[2]. In sintesi: lasciamo fallire le imprese, sblocchiamo i licenziamenti e rendiamoli socialmente meno esplosivi con qualche spicciolo di sopravvivenza.
Ancor prima, però, aveva racchiuso il tutto in poche parole il senatore a vita Monti, dalle colonne del Corriere della Sera:
“Diviene perciò importante porsi con urgenza il problema di quanto abbia senso continuare a «ristorare» con debito, cioè a spese degli italiani di domani, le perdite subite a causa del lockdown, quando per molte attività sarebbe meglio che lo Stato favorisse la ristrutturazione o la chiusura, con il necessario accompagnamento sociale, per destinare le risorse ad attività che si svilupperanno, invece che a quelle che purtroppo non avranno un domani”[3].
E quando parla Monti, non c’è altro da aggiungere.
[1] https://www.oliverwyman.com/content/dam/oliver-wyman/v2/publications/2020/dec/G30_Reviving_and_Restructuring_the_Corporate_Sector_Post_Covid.pdf, pag.21
[2] https://www.quirinale.it/elementi/51994
[3] https://www.corriere.it/editoriali/21_gennaio_16/condizioni-la-fiducia-6c77e5a2-583f-11eb-ae23-b4c117d7c032.shtml
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