Perché Draghi? (parte prima)
di L’ANTIEUROPEISTA
La tragica Seconda Repubblica, iniziata con la firma del Trattato di Maastricht, è una spirale, un cerchio che si chiude e si riapre senza soluzione di continuità. Ogni nuovo giro inizia con un governo tecnico, che dovrebbe mondare le colpe dei precedenti esecutivi politici troppo attenti al consenso popolare per implementare con rapidità ed efficacia le necessarie riforme strutturali indicate con solerzia dalle istituzioni europee.
Il governo Ciampi, insediatosi nel 1993, ha lavato i peccati della classe politica primo-repubblicana appena travolta dall’evento mediatico di Tangentopoli; ma si trattava di un governo misto, in cui il Presidente del Consiglio, esterno ai partiti, doveva tenerne in considerazione almeno in parte le necessità. Il governo Dini, in carica dal 1995, ha proseguito il lavoro, configurandosi come il primo governo compiutamente tecnico della Repubblica italiana e trascinando il Paese verso l’ambito appuntamento dell’euro.
È seguito oltre un decennio di alternanza sul modello americano tra le due coalizioni neoliberali di centro-destra e di centro-sinistra, fino a che i nodi dell’Unione Europea, che avevano nel frattempo depresso crescita, occupazione e produttività, sono venuti al pettine accentuando in Europa, e in particolare in Italia, la crisi finanziaria globale del 2008. Dopo due anni di rimbalzo, i “sacrifici necessari” dovuti all’innalzamento automatico del deficit e del debito pubblico hanno condotto a furor di popolo e di stampa al terzo governo tecnico, anche in questo caso puro, vale a dire composto esclusivamente da ministri a-partitici.
Il governo Monti ha svolto egregiamente il lavoro per cui era stato concepito dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: rientro dal deficit commerciale attraverso la “distruzione della domanda interna”, aumento dell’imposizione fiscale su famiglie, partite iva e commercianti, disoccupazione di massa con conseguente stagnazione dei salari, blocco del turn over nella pubblica amministrazione e riforma regressiva delle pensioni. Ad un triennio di centro-sinistra, che ha dato continuità al lavoro di Monti allentando leggermente la presa anche in virtù di una più favorevole congiuntura internazionale, ha fatto seguito il necessario compromesso dei due governi Conte.
Il giro di vite degli anni precedenti, infatti, aveva dimezzato i consensi del Partito Democratico garantendo al MoVimento 5 Stelle e in misura minore ad una Lega sapientemente riverniciata per l’occasione, di sfondare alle elezioni del marzo 2018. Serviva dunque una figura esterna, un tecnico, che fosse in grado di normalizzare sapientemente gli istinti ribellistici e confusi del primo partito in Parlamento. Sarebbe stato sconveniente, nell’ottica del pilota automatico europeista, relegare il MoVimento 5 Stelle all’opposizione nonostante l’enormità dei consensi di cui godeva e la rapidità con cui li aveva raccolti. Giuseppe Conte, allora, è stato incaricato di interpretare la parentesi euroscettica servendosi a suo uso e consumo della Lega, ben salda nonostante le apparenze nelle mani del nucleo europeista del partito.
Dal balcone del modesto 2,4% di deficit sul quale il MoVimento raggiungeva il suo effimero apice politico, ha cominciato ad esercitarsi una lunga e sotterranea opposizione interna allo stesso governo, facente capo al Ministero dell’Economia presidiato da Mattarella con il soldatino Tria. L’inadeguatezza strutturale del MoVimento, privo di una classe dirigente attentamente selezionata, non ha tardato a palesarsi e si è arrivati rapidamente alla rottura, propiziata dal leghista Giorgetti (uno dei “saggi di Napolitano”), abile a muovere l’ampio schieramento nordista del partito contro la strategia nazional-populista di Salvini, la cui utilità iniziava a scemare. Ha così preso forma una seconda fase di transizione che doveva condurre alla definitiva normalizzazione del MoVimento attraverso l’alleanza via via più organica con il redivivo Partito Democratico.
Sul Conte II, tuttavia, si è abbattuta la tempesta inattesa del coronavirus, che ha rallentato il processo in atto garantendo al governo una insperata finestra emergenziale nella quale proporsi come punto di riferimento necessario. Le mire di Matteo Renzi, uscito nel frattempo dal Partito Democratico per dare vita ad un piccolo partito da cui il governo Conte dovesse dipendere in Parlamento, sono state solo rinviate.
E così si arriva all’oggi. Dopo una crisi politica a lungo attesa, l’ovvia e comprensibile pretesa di Renzi di concludere l’esperienza politica del suo concorrente moderato Giuseppe Conte, è stata sfruttata da chi vola più in alto per imprimere una nuova accelerazione all’agenda riformista in atto da un trentennio.
È il momento di un nuovo esecutivo tecnico, probabilmente nella forma di un governo misto che dia spazio nei ministeri a quasi tutti i partiti, così da giustificarne l’ammucchiata. A guidarlo sarà Mario Draghi, un profilo anche più autorevole dell’ex commissario europeo Monti, data la sua lunga esperienza ministeriale e tecnocratica (Ministero dell’Economia, Banca d’Italia, Banca Centrale Europea). Una figura che metterà d’accordo tutto l’arco parlamentare consentendo di superare la lentezza e le ambiguità del Conte II attraverso l’espulsione e la condanna all’irrilevanza della corrente eurocritica del MoVimento 5 Stelle. Se a ciò si aggiunge il probabile ingresso in blocco della stessa Lega nella nuova maggioranza, compresa la ridicola bolla social degli economisti Bagnai e Borghi, la parentesi sovranista, populista o che dir si voglia si può dire definitivamente conclusa.
La Seconda Repubblica è morta, viva la Seconda Repubblica…
Una risposta
[…] prima parte abbiamo scritto del perché la Seconda Repubblica sia una spirale. Ogni ciclo si conclude con un […]