I killer dell’Italiano
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Davide Grittani)
Pandemia e digitalizzazione hanno ucciso ciò che restava dell’italiano, tra neologismi imbarazzanti e ipocriti omaggi a Dante. Mario Draghi dovrebbe istituire un Ministero per la difesa della lingua
Sento dire «panel» e mi agito fino all’ansia. Provo a sbucciare questo frutto geneticamente modificato, arrivo alla polpa. E scopro un mostro poliforme, ora pannello, ora ventaglio di proposte (in senso lato), in alcuni casi offerta, in altri campione demografico. Così barbaro e primitivo, a dispetto dell’era digitale che l’ha generato, l’idioma che giornali e televisioni ci hanno infilato in bocca durante la pandemia riflette come poche altre cose la liquidità e l’inconsistenza del nostro tempo. Sento «smart working» e penso che esiste dalla prima guerra mondiale, quando le mogli degli alpini confezionavo a casa le munizioni rudimentali con cui i loro coniugi avrebbero difeso il Piave. Sento «webinar» e dopo un mancamento provo a riavermi, in fondo si tratta di un’occasione meno appariscente di quanto la vorrebbero far sembrare: un seminario via web. Origlio «skill» e mi impongo di star calmo, che tanto sono solo competenze (o meglio, quello che uno dice di saper fare). Così come i «social media manager» sono persone uguali a noi, con una discreta manualità in fatto di post. Una «challenge» altro non è che una prova, alle brutte una sfida. Uno «staffing solution direct» un tizio che offre risposte e possibilmente soluzioni, uno che a mr Wolf di Pulp Fiction può solo allacciare le scarpe. E che le competenze «hard» e quelle «soft» non si riferiscono a un film porno, ma – ancora a una volta – a quello che rivendichiamo di saper fare. Ma se tutto è così semplice, perché ci mostriamo arresi di fronte a questo accanimento nei confronti della nostra Lingua? Perché ci ostiniamo a sedarla somministrandole pesanti dosi di metadone (sotto forma di neologismi)? Perché la sottoponiamo continuamente a drammatici elettroshock (come quelli che si facevano ai pazienti psichiatrici)? Perché la umiliamo come se non ci appartenesse più?
Insieme alla strage pressoché ininterrotta dallo scorso febbraio (quasi 100.000 vittime) e al massacro socio-economico che ha riportato il Paese alle condizioni del secondo dopoguerra, la pandemia da Covid 19 ha stordito anche l’Italiano. Inteso come borghese/proletario medio, riferimento dei censimenti che descrivono l’Italia per com’è. Come Lingua, che nonostante tutto continua a essere tra le più belle, armoniche, poetiche e complesse al mondo. E forse proprio in questo va cercata la ragione di ogni accanimento. L’Italiano è troppo forte e delicato, troppo soave e rozzo, troppo nobile e operaio, in grado di ricorrere a una trentina di aggettivi e sostantivi (più o meno identici) per dire tutto e il contrario di tutto (dipende dal tono, dal calore e dal contesto in cui si usa una delle lingue più sensoriali e coraggiose della terra). Un “difetto strutturale” che il Paese in cui «noncen’ècovvidi» non può evidentemente tollerare, ecco che risulta più semplice – e figo – cedere a neologismi che non dicono niente ma che in compenso lo fanno benissimo. I primi segnali di questa nuova invasione si erano avuti con l’avvento della «didattica a distanza», quando l’apertura di milioni di «virtual room» aveva mandato nel pallone generazioni di genitori che pensavano fossero delle stanze pedagogiche in cui espiare qualche pena. Classi virtuali senza alcuna virtù, lezioni in cui spesso risuona l’eco delle nostre incompetenze, seminari desolanti e claustrofobici (allestiti tra gabbie di materia impalpabile, perimetrate dalla paradossale solitudine della rete), strategie dell’emergenza trasformate in presunte abilità. Poi è arrivato lo «smart working», l’alibi elevato a missione da milioni di dipendenti della pubblica amministrazione ai quali la pandemia ha servito su un vassoio il sogno di una vita: pagargli lo stipendio per farli stare in pigiama. Da lì in poi un fiorire di aberrazioni del web, incestuosità (lessicali) imperdonabili se si considera che a incoraggiarle sono soprattutto accademici, docenti, politici e qualche scrittore. L’invito – rivolto all’umanità – consiste nell’andare dall’altra parte del mondo, nel seguirli oltre il cristallo che separa la realtà dalla virtualità. Una frontiera a cui si accede col «pass» del proprio «upgrade», scaricando cioè gli aggiornamenti del nostro sistema encefalico e installandoli dentro la testa di un popolo che i suoi obiettivi li ha sempre chiamati come faceva Il marchese del Grillo (Alberto Sordi docet: «Ahò, famme fa’ un po’ de cazzi mia») e che adesso deve chiamarli «target». Dopo essere andata al governo, la mediocrità si è fatta anche Verbo. La modesta proposta che Intellettuale Dissidente rivolge a Mario Draghi è istituire un Ministero per la difesa e la protezione della Lingua Italiana, un dicastero che da un lato imponga canoni estetico-linguistici degni di un Paese come il nostro e dall’altro aiuti – questi scolaretti dell’erba del vicino – a distinguere la volgarità dalle evoluzioni gergali.
Ma lo stupore più grande non è stato prendere atto che l’invasione era ormai compiuta, che l’assalto alla “fortezza Bastiani” era impossibile da respingere, quanto che gli Italiani fossero un popolo prono (e quindi pronto) a subirne ogni umiliazione. E così, mentre si celebrano gli omaggi più retorici e ipocriti al padre della Lingua Dante Alighieri, gli stessi esegeti del sommo tra un peana e l’altro convocano «summit», tengono «lesson» durante cui redigono «character», scrivono «plan» destinati agli «student» le cui scelte future sono irreggimentate dal «placement». Di fronte a cosa siamo? Si tratta solo di mode, che come tutti i «trend» finiranno per lasciare il posto ad altre fragilità, ad altre insicurezze? Oppure – come dicono tutti – si tratta di un passaggio epocale, di un’estinzione di massa della logica e dell’estetica, di un recesso senza preavviso dai codici della convivenza civile? Di fronte a cosa siamo? A una casuale mollezza filologica dovuta perlopiù allo smarrimento in cui viviamo, o all’incontinenza verbale di chi – non avendo mai letto un libro in vita sua – minaccia di tracciare le coordinate del futuro? E siccome il futuro non è fatto di soluzioni ma di Lingue – più o meno universali, come quelle dell’ambiente e dell’ecosostenibilità –, sapere che la pandemia ha sfregiato l’identità del pianeta (oltre a ferirla a morte) deve preoccupare tutti. Come se avesse fatto di più che ridurci in un letto d’ospedale, come se ci avesse rovesciato addosso dell’acido sfigurando per sempre l’unico strumento orizzontale (senza ceti sociali, senza razze e colori, senza veti di alcuna natura) che ci consentiva di comunicare. La Lingua, appunto. A questa gente, a tutte queste donne e uomini che parlando della loro condizione dicono «lockdown» e non «isolamento», che rivendicando maggiore documentazione da parte dei mezzi d’informazione che parlano di Covid 19 dicono «infodemic» e non «minchiate in libertà», che supplicando un’empatia tra popoli per quanto successo dicono «brotherhood», a tutta questa gente posso solo consigliare due cose. La prima, leggere il «bugiardino» di un medicinale a caso per provare la nostalgia di una Lingua. La seconda, pentirsi. Pentitevi, l’Italiano avrà pietà di voi.
Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/societa/italiano-pandemia/
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