La breve ma pregnante recensione di Renato de Robertis al saggio di Diego Fusaro Bentornato Gramsci, uscita su “Barbadillo”, evoca in me ricordi poco più che adolescenziali. Ho letto tutti i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci per un motivo che da solo basterebbe a documentare l’“egemonia culturale” del Pci, da lui auspicata, nella metà degli anni Settanta. Stavo consegnando la mia tesi di laurea in storia moderna presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Firenze. Il mio professore, sapendo che non ero molto amato per le mie prese di posizioni politiche, mi suggerì di inserirvi, possibilmente nell’introduzione (quella che tutti i commissari d’esame leggono) una citazione di Antonio Gramsci. Gramsci non c’entrava nulla con l’argomento della mia tesi, dedicata a un oscuro libellista del Seicento italiano, però il verbo del grande pensatore sarebbe potuto servire come un’aspersione di acqua santa per disperdere l’odore sulfureo che emanava dalla mia persona. Il mio professore, Roberto Pecchioli, purtroppo precocemente scomparso senza essere giunto all’ordinariato, era una persona onesta e uno studioso serio quanto sfortunato: era stato l’assistente prediletto di quel grande storico della cultura e della storiografia che fu Delio Cantimori. Gli sarebbe sinceramente dispiaciuto se l’impuntatura di un commissario mi avesse impedito di ottenere la lode, che tutti si aspettavano vista l’alta media del mio libretto.
In realtà fra Gramsci e i libellisti italiani del Seicento esistevano ancora meno analogie che fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima, per citare il titolo di un libro all’epoca di successo del grande umorista Achille Campanile. Per questo dovetti leggermi quasi tutta l’opera omnia del pensatore prima di trovare qualche citazione citabile senza tema di cadere nel ridicolo.
Leggendo, bon gré, mal gré, Gramsci, rimasi colpito da due cose. La prima è il fatto che a un detenuto politico nell’Italia fascista fosse consentito di leggere, di scrivere, di lavorare mantenendosi aggiornato sulle più vive tematiche del dibattito ideologico dell’epoca. Dubito che avrebbe potuto farlo se fosse finito, come tanti suoi “compagni”, in un gulag staliniano. In molti manuali di storia si cita solo la richiesta del pubblico ministero al suo processo, che invitava la giuria a una condanna severa per “impedire a quell’uomo di pensare”. Non si dice invece che non gli fu impedito né di pensare né di scrivere. Credo che in carcere abbia goduto di assai minori “sconti” un Guareschi nelle prigioni dell’Italia di De Gasperi e Scelba. Per capire chi furono i veri nemici dello studioso nell’Italia fascista invito piuttosto a leggere quel terribile j’accuse contro Togliatti che è il saggio del suo ex segretario personale Massimo Caprara Gramsci e i suoi carcerieri (Ares).
L’altro aspetto riguarda le posizioni di Gramsci nei confronti del capitalismo. Diego Fusaro,scorge nell’insegnamento del pensatore sardo un antidoto alla globalizzazione. Può sussistere del vero in questa ipotesi, però non posso dimenticare che Gramsci nel più noto dei suoi Quaderni, edito poi da Einaudi sotto il titolo Americanismo e fordismo, non nasconde le sue simpatie per il capitalismo statunitense, in cui scorge un fenomeno modernizzatore, fondato sulla “egemonia della fabbrica” e contrapposto alla persistenza di retaggi aristocratici, parassitari e semifeudali. Mi è difficile scorgere in questo atteggiamento un precedente della critica alla globalizzazione, che è in fondo il prodotto della logica capitalistica portata alle sue estreme conseguenze: non più negli Usa, magari, ma in Cina. Certo, oggi siamo ridotti a rimpiangere il fordismo, che assicurava almeno buoni salari e sicurezza del posto di lavoro, ma questo è un altro discorso.
Concordo invece sull’utilità dell’appello a un “ritorno a Gramsci”, sotto forma di rivalutazione del ruolo degli intellettuali come antidoto all’odierno primato dell’economia, e di un’economia, per altro, sempre più finanziarizzata. Lo studioso sardo aveva capito che il successo del fascismo era stato reso possibile dall’egemonia culturale “borghese”. Gli squadristi non sempre erano degli intellettuali e una barzelletta in voga nei primi anni Venti sosteneva che nel “fritto misto di fascista” c’era “molto fegato e poco cervello”; ma dietro di loro c’era il liberalismo di Gentile, la teoria dello Stato forte di Benedetto Croce, la poesia civile di un d’Annunzio, l’antiparlamentarismo di un Mosca e di un Pareto. Per questo Gramsci invitava il Partito comunista a promuovere un’egemonia culturale della sinistra, come strumento di conquista della cittadella della politica attraverso il controllo della società civile. E per questo un Alain de Benoist, in un contesto in cui tale egemonia si era ormai realizzata, teorizzò negli anni Settanta l’esigenza di un “gramscismo di destra”, volto a contrastare tale predominio.
La tesi di Fausto Gianfranceschi
A questo proposito è lecito però un dubbio: fino a che punto la tesi di Gramsci era originale? Un fine letterato come Fausto Gianfranceschi avanzò a questo proposito un’ipotesi non infondata: la sua teoria della conquista dell’egemonia culturale era in realtà un “bottaismo di sinistra”: Gramsci in realtà, negli anni Trenta, teorizzava, a sinistra, quello che il gerarca e ministro dell’Educazione Nazionale andava facendo a destra, valorizzando intelligenze (basti pensare alla quantità e qualità degli intellettuali cooptati come docenti universitari e ispettori del ministero dell’Educazione nazionale), fondando riviste, promuovendo convegni. Gramsci insomma avrebbe voluto che la sinistra facesse quello che il fascismo stava facendo durante il Ventennio; e il partito comunista in effetti lo fece nel dopoguerra, in primo luogo servendosi del suo mito per operare una profonda penetrazione negli ambienti intellettuali. Il passaggio da Gentile a Croce e da Croce a Gramsci è caratteristico dell’itinerario politico di molti esponenti di spicco della cultura italiana della seconda metà del XX secolo. Un caso tipico fu il grande storico dell’umanesimo (non amo sprecare l’appellativo di filosofo) Eugenio Garin, che negli anni Quaranta stava collaborando con Gentile a un manuale di storia della filosofia e che trent’anni dopo teneva nelle Case del Popolo conferenze sul Rinascimento fiorentino per gli operai, che magari non ci capivano nulla e cadevano dal sonno, perché avevano lavorato in fabbrica tutto il giorno, ma lo applaudivano perché l’aveva detto il partito.
Resta il fatto che, superato il tempo della retorica dell’engagement, una rivalutazione del ruolo dell’intellettuale come presenza critica sarebbe auspicabile. Ma non vedo né a sinistra emuli di Gramsci, né soprattutto scorgo a destra nipotini non dico di Bottai, ma nemmeno di De Vecchi di Val Cismon.
Commenti recenti