Il senso della politica oltre il Covid
Di La Fionda (Luca Chimichella e l’Indispensabile)
I. Stato d’eccezione e Restaurazione
La politologia del XX secolo, almeno a partire da Schmitt, ci ha insegnato a pensare la relazione consustanziale, presente in tutta la politica moderna fin dalla sua fondazione hobbesiana, tra istanza amorfa, caotica e incontrollabile della realtà umana (“stato di natura” che riemerge come stato di eccezione) e istanza politica, mediatrice e stabilizzante (ordine giuridico), che nasce a seguito del bisogno di sicurezza e incolumità dei soggetti umani nella comunità. Queste due istanze sono talmente reciproche e interrelate da provocarsi a vicenda, spesso addirittura in contemporanea e nella stessa situazione storica. Ad un eccesso di astrazione burocratico-tecnica del potere costituito segue infatti un corrispondente bisogno di rappresentanza popolare, e viceversa, ad un eccesso di immediatezza ideologico-identitaria corrisponde un’esigenza di maggiore razionalizzazione e giuridificazione del potere.
La crisi pandemica mondiale ha offerto una vera e propria svolta a questa dialettica verticale-orizzontale, la cui risoluzione è stata però dettata non da un mutamento di linea e classe politica legittimata dal basso (come nel 2018), bensì da un espediente squisitamente extra-politico, foriero in sé di caos, e messa in atto altrettanto impoliticamente dai nuovi organismi sovrani dello stato eccezionale: in Italia il comitato tecnico-scientifico, promosso dall’esecutivo di governo, e a livello mondiale gli enti sanitari internazionali (uno su tutti, l’OMS). Nel frattempo, si è parlato e si continua a parlare di “guerra contro un nemico invisibile”, lasciando che i Media consolidassero l’uso improprio e sproporzionato di parole come “coprifuoco” e “negazionismo”.
Come ha scritto Giorgio Agamben l’11 maggio dell’anno scorso: «In questione è un’intera concezione dei destini della società umana in una prospettiva che per molti aspetti sembra aver assunto dalle religioni ormai al loro tramonto l’idea apocalittica di una fine del mondo. Dopo che la politica era stata sostituita dall’economia, ora anche questa per poter governare dovrà essere integrata con il nuovo paradigma di biosicurezza, al quale tutte le altre esigenze dovranno essere sacrificate. È legittimo chiedersi se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto, dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia».
Lo stato sanitario post-democratico possiede infatti le sue precise liturgie (il tampone, la mascherina ecc.), i suoi articoli di fede e il suo orizzonte escatologico (“il vaccino ci salverà, ma intanto quanto più ognuno si isola dagli altri e dalla società in genere tanto più sarà un bravo cittadino, responsabile per i suoi cari” e così via). Ecco che l’impotenza, la depressione, il nichilismo morale – che già da tempo riducevano l’agire umano alla sfera della mera sopravvivenza fisica – si fanno legge, anzi, controfigura della vecchia religione di stato. Ancora Agamben, lo scorso 17 aprile: «Mi sembra infatti che l’epidemia mostri al di là di ogni possibile dubbio che l’umanità non crede più in nulla se non nella nuda esistenza da preservare come tale a qualsiasi prezzo». E conclude più avanti: «Qual è la figura della nuda vita che è oggi in questione nella gestione della pandemia? Non è tanto il malato, che pure viene isolato e trattato come mai un paziente è stato trattato nella storia della medicina; è, piuttosto, il contagiato o – come viene definito con una formula contraddittoria – il malato asintomatico, cioè qualcosa che ciascun uomo è virtualmente, anche senza saperlo. In questione non è tanto la salute, quanto piuttosto una vita né sana né malata, che, come tale, in quanto potenzialmente patogena, può essere privata delle sue libertà e assoggettata a divieti e controlli di ogni specie»[1].
Liquidare questi argomenti, come fanno molti, traendo in causa il “negazionismo” o il “complottismo” è un’operazione diffamatoria, perlopiù in cattiva fede, avanzata da un ceto giornalistico allineato con un discorso pubblico artificiale, bisognoso terrore per potersi assicurare un minimo di consenso, a dispetto dei tanti “sacrifici” che dovremmo fare. In altre parole, qui non si tratta di contestare la realtà e l’effettiva gravità di un’emergenza epidemiologica che coinvolge tuttora la gran parte del pianeta, mettendoci palesemente alla prova. Si tratta però di porre seriamente in questione le modalità simbolico-interpretative e politico-antropologiche che nell’affrontare il Covid sono state imposte alle collettività, tra l’altro in un clima assolutamente acritico e passivo. Occorre cioè un nuovo sguardo pensante che sia in grado di interrogare il quadro storico complessivo entro cui si affacciano i fenomeni del presente, per trarne concretamente una nuova visione del mondo, veramente alternativa e praticabile al tempo stesso.
Ci chiediamo allora: come è stato storicamente possibile che, a dispetto della tutela della salute pubblica anche a costo di sospendere ad oltranza i diritti costituzionali, si sia assistito (nel giro di un solo anno) ad un incremento così vertiginoso delle disuguaglianze tra ricchissimi e poverissimi, ad un’impennata abnorme dell’incertezza sociale e della precarietà esistenziale (favorita dal terrore mediatico), e infine ad un esaurimento pressoché conclamato della rappresentanza democratica, quasi persino nelle sue strutture esteriori? Come è stato politicamente possibile che lo stato che pretendeva di riportare ordine e sicurezza laddove è esploso il caos contribuisca invece (volontariamente o meno) ad incrementare la percezione del disordine, dell’imprevedibilità e del pericolo stesso che vorrebbe arginare? Non accontentandoci di facili risposte dietrologiche, occorre aprire una parentesi storico-genealogica che dia fondamento alla diagnosi.
II. Stato moderno e Rivoluzione
La modernità è un tempo storico intimamente pervaso dall’idea di una novità assoluta, di un Uomo Nuovo (Umanesimo) capace di edificare un Nuovo Mondo (proiettato poi sulle Americhe) a partire dal tramonto di quello antico e medioevale. Non a caso i tedeschi la chiamano Neuzeit, che letteralmente vuol dire “tempo nuovo”, Nuovo evo della storia antropologica. La modernità è un movimento spirituale in sé stesso rivoluzionario, che si è via via secolarizzato (e quindi verificato nell’immanenza storica) grazie alla Riforma protestante e al modello di civiltà da essa scaturito, alla base delle successive rivoluzioni borghesi[2].
Parallelamente a questa spinta trasformatrice, si consolida una teoria prettamente razionalistica, antropocentrica e conservatrice dello stato (Hobbes), che vede nell’assicurazione dell’ordine pubblico e nell’incolumità individuale dei sudditi il fine unico ed essenziale dell’azione politica, come risposta al bagno di sangue provocato dalle guerre confessionali dei secoli XVI e XVII. Si crea così una polarità strutturale all’interno dell’ordinamento politico-spirituale dell’Europa moderna, nel quale la secolarizzazione laica gioca un ruolo ambiguo, oscillante appunto tra una volontà di stabilizzazione tecnico-artificiale della realtà sociale (destra legittimista e conservatrice), e un’istanza rivoluzionaria (democrazia giacobina, socialismo rivoluzionario, sinistra progressista).
Questa dicotomia ha dato luogo a tutti i conflitti strutturali dell’età industriale. È proprio col consolidarsi storico della civiltà borghese infatti, nel corso dell’Ottocento, che emerge per la prima volta l’elemento più propriamente regressivo, contraddittorio e nichilistico dello stato moderno in quanto tale. Le prime crepe iniziano a esplodere dopo il Congresso di Vienna nella misura in cui si tratta di nodi irrisolti della Modernità in generale, la quale si era illusa (tra l’altro) di dominare ogni ambito della realtà antropologico-sociale attraverso i soli strumenti della ragione e dell’apparato artificiale dello stato. Questa frattura originaria è in vero tutt’ora aperta, nella misura in cui gli ultimi decenni non sono stati affatto in grado di porvi rimedio: «La ripoliticizzazione di quanto era stato oggetto, con la modernità, di una neutralizzazione che si voleva definitiva – odi, fedi e identità “assolute” -, ripone alla ribalta quanto di problematico e forse di irrisolto c’era nel Moderno stesso, rinfocolato dall’impatto disarticolante dell’attuale modernizzazione capitalistica sulle risorse ordinative del razionalismo politico-giuridico»[3].
La prima organica risposta, in sé apocalittico-rivoluzionaria, all’alienazione sociale e morale provocata dall’ordine politico borghese fu la teoria marxista dello stato, che riducendo la statualità stessa a pura oggettivazione del dominio di classe, è finita col liquidare – specie nella forma del Bolscevismo antidemocratico – ogni mediazione giuridica quale fondamento possibile del potere istituito: «Per Marx lo stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un “ordine” che legalizza e consolida questa oppressione, moderando il conflitto tra le classi». E di conseguenza: «La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; (…) nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo»[4].
A sua volta, di fronte al pericolo di una dittatura proletaria, ossia di uno stato monopartitico dichiaratamente parziale, rappresentativo di una sola classe in lotta contro tutte le altre, si diffonde in tutta Europa l’alternativa fascista alla vecchia e impotente socialdemocrazia ottocentesca. Il Fascismo rappresenta di per sé la contro-istituzione rivoluzionaria di uno stato a partito unico di tipo interclassista, ossia di un partito che sintetizzi in sé la totalità organica e gerarchizzata delle singole parti sociali, ripristinando il primato dello stato non contro, ma attraverso la canalizzazione verticale e autoritaria di innumerevoli forze pre-giuridiche fondamentali (la Nazione, la guerra patriottica, il Capo, il popolo, ecc.).
Scriveva Giovanni Gentile: «Il Fascismo è spirito di progresso e di propulsione di tutte le forze nazionali. (…) Il Fascismo, i cui capi, a cominciare dal supremo, hanno tutti vissuto l’esperienza socialista, intende conciliare due termini finora sembrati irriducibilmente contrastanti: stato e sindacato. Stato, come forza giuridica della Nazione nella sua unità organica e funzionale; sindacato, come forza giuridica dell’individuo quale attività economica, (…) attività quindi specificata socialmente e appartenente ad una categoria sociale»[5].
Il progressivo estremizzarsi tuttavia della tensione ideologico-imperialista dell’Italia fascista, affiancatasi poi al razzismo pantedesco della Germania nazionalsocialista (pronto in sé a sacrificare l’ordine giuridico e sociale sull’altare della crociata contro il giudaismo mondiale), generò la catastrofe immane del 1945, culminata poi con la vittoria del nuovo ordine bipolare del mondo, alla base della successiva Guerra fredda.
Nei tre decenni che seguirono alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Occidente atlantico e neocapitalista vide così il predominio del modello keynesiano di stato sociale in conseguenza del generalizzato bisogno di sicurezza e stabilità affiorato dopo il trentennio bellico-rivoluzionario e a fronte della costante minaccia di una guerra nucleare su scala planetaria. L’equilibrio del terrore infatti non costituì semplicemente un deterrente contro l’esplosione di una nuova catastrofe globale, ma anche il principale fattore frenante all’espansione incondizionata del Capitalismo americano, agli albori della sua svolta finanziaria. Già infatti con la crisi petrolifera degli anni ’70, la fine della corsa allo spazio e della guerra in Vietnam, la riforma monetarista e neoliberista del mercato mosse i suoi primi passi, dapprima nel Cile di Pinochet, e poi direttamente a Londra e Washington con Thatcher e Reagan. La poco successiva liquidazione del blocco sovietico fece il resto.
III. La via della Polis oltre la fine
Da questo quadro risulta evidente come la dicotomia tra rischio caotico e spinta alla stabilizzazione/conservazione dell’ordine vigente (per quanto alienante, considerato “l’unico possibile”) ha caratterizzato la condizione permanente del XX secolo, essendosi concretizzato anche all’interno di tutti i grandi regimi rivoluzionari. Il 1989 ha segnato in tal senso solo un mutamento di questo circolo autoreferenziale e ingannevole, in quanto la defenestrazione di ogni aspirazione al cambiamento del mondo è stata subito compensata dalla narrazione anarchico-globalista e dall’avanzamento stratosferico dei mezzi di comunicazione digitali (Internet e la telefonia mobile in particolare). La smaterializzazione dei rapporti umani, economici, politici, della stessa identità psico-emotiva dell’essere umano ha indubbiamente avuto un peso immenso nel porre fine al paradigma rivoluzionario moderno per come l’abbiamo sempre conosciuto (basato cioè sull’intervento attivistico e meccanico-tecnico del soggetto umano sulla realtà esterna).
La pandemia è giunta allora come un punto di arresto, una specie di glaciazione psico-politica, che ha cristallizzato lo scenario contorto e paradossale di un mondo in cui la libertà individualistica sfrenata e l’ammutolimento massificante dell’Io sono ormai divenuti due termini inseparabili e quasi indistinguibili della stessa condizione. Ecco perché, giunti a questo punto, a dover essere ripensata totalmente non è solo la politica nei suoi presupposti antropologico-giuridici, ma la stessa possibilità e condizione di una sostanziale trasformazione della realtà ecosistemica dell’uomo in una direzione non più sanguinaria e distruttiva, ma spiritual-mente e autentica-mente democratica.
Scrive in tal senso Preterossi: «Se non se ne immagina un’altra di risposta, che sappia assumere anche, almeno in parte, le esigenze emotive implicite nelle attese e nelle dinamiche delle società democratiche di massa, mediando passioni e razionalità, anzi ripoliticizzando le passioni, è difficile evitare il successo dell’opzione puramente populista. Il populismo è un sintomo. La questione di fondo è il destino del “politico” – come rapporto istituzioni/popolo, potere pubblico/potenza economica, universalità/contingenza – nelle democrazie attuali». E aggiunge più avanti: «Insomma, ai rischi del populismo si risponde non (solo) con la difesa delle procedure o con il professionalismo politico, ma soprattutto con un progetto mobilitante, basato su un’idea ambiziosa di umanità e di convivenza politica, sul rilancio dell’eredità normativa della soggettività (moderna) – seppur in chiave non più eurocentrica e occidentalista –, che permetta la costruzione di un orizzonte di senso sì capace di attrazione simbolica, ma non regressivo e anti-moderno»[6].
Il ripensamento della Polis come modalità fondamentale di convivenza umana sulla terra dipende quindi da una radicale riformulazione della nostra stessa nozione di civiltà, ossia di Civitas e di Res publica, a partire dall’aggiornamento (laico) del suo originario orizzonte di trascendenza cristologico.Scrive Marco Guzzi: «Il rinnovamento psicologico-spirituale e politico della nostra civiltà cristiano-occidentale tocca dunque e approfondisce i due punti cardine su cui si è sempre fondata la modernità: il concetto di libertà personale, e quello di comunità organizzata democraticamente. Stiamo comprendendo da una parte che il processo di liberazione dell’uomo non si ferma alle garanzie (comunque prioritarie e fondamentali) del libero esercizio delle proprie facoltà di pensiero e di intrapresa economica, ma prosegue all’interno nell’inesauribile scioglimento delle nostre illusioni egoiche che, come vere e proprie gabbie, ci recludono in una coscienza separata e separante, sostanzialmente bellica e distruttiva». Ecco perché «la natura strutturalmente e originariamente spirituale della democrazia moderna (…) modifica radicalmente il concetto di laicità, in quanto diviene del tutto laico e razionale l’inserimento dei processi autotrasformativi personali entro la progettazione politica»[7]. A noi, a questa generazione storica, spetta la sfida di una Rivoluzione veramente all’altezza del XXI secolo e delle nuove frontiere creative che questo tempo ci pone. Il Covid ci ha ridato se non altro un’unica antica certezza: che qualsiasi “ritorno indietro” è completamente impossibile.
[1] G. Agamben, Biosicurezza e politica (11/05/2020) e La nuda vita e il vaccino (17/04/2021), disponibili sulla pagina web di Quodlibet: https://www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben.
[2] Si veda su questo punto l’opera fondamentale di Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, e in particolare l’Introduzione di Giorgio Galli nell’edizione italiana della BUR, Milano 1997.
[3] G. Preterossi, La politica negata, Roma-Bari, Laterza 2011, pag. 27.
[4] Lenin, Stato e Rivoluzione, Milano, Edizioni Lotta Comunista 2019, pag. 27 e pag. 33.
[5] Brani tratti dalle Linee programmatiche del Partito Fascista (1921) e dal Manifesto degli intellettuali fascisti (1925), citati in G. Bonfanti, Il Fascismo, Brescia, Editrice La Scuola 1977, vol. I pag. 98 e vol. II pag. 126.
[6] G. Preterossi, La politica negata cit., pag. 89 e pag. 92.
[7] M. Guzzi, La nuova umanità, Milano, Paoline 2005, pag. 45.
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/05/17/il-senso-della-politica-oltre-il-covid/
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