Critica della scienza dogmatica
di Gazzetta Filosofica (Federico Ragazzi)
Da ormai quasi due anni, quotidianamente, siamo sommersi dall’enorme quantità di notizie inerenti alla diffusione – e al contestuale tentativo di contenimento da parte delle autorità sanitarie – del SARS-CoV-2 nel mondo. La pandemia, avendo monopolizzato l’arena mediatica, ci ha purtroppo costretto a convivere con una nuova realtà che, fino ad allora, era considerata molto lontana dalla nostra vita quotidiana. È così che si è iniziato ad utilizzare le mascherine chirurgiche e simili – assistendo, tra l’altro, alla classifica delle “migliori mascherine” o del “conoscere quali mascherine usare e dove” –, ad avere le mani perennemente igienizzate tramite l’utilizzo di gel a base alcolica, a considerare l’altro come possibile vettore di questo fatale male (da cui, parafrasando l’inglese Thomas Hobbes: homo homini virus), a dover, giorno dopo giorno, leggere i bollettini di ospedalizzazioni, morti, contagi, a far fronte a protocolli sanitari, cure e, dopo quasi un anno, alla comparsa dei – non per tutti – tanto agognati vaccini. La situazione di pressante martellamento mediatico ha reso l’argomento “Covid” il tema quasi esclusivo di cui conversare, discutere e, spesso, litigare nei momenti più disparati: a tavola in famiglia, in fila ben distanziati alle casse dei supermercati o nei momenti conviviali con gli amici – quando permesso.
Nessuno, cullato nella propria comodità, avrebbe mai pensato che tutto ciò sarebbe potuto capitare. Perché? In realtà, aprendo un qualsiasi manuale scolastico di storia, si può serenamente notare come le epidemie siano state, nella storia dell’umanità, una ostile e infelice costante. Riferendoci unicamente alle più famose, possiamo citare: la “Peste antonina” (165-180), portata dai legionari romani in ritorno da una delle numerose campagne militari contro i Parti a est dell’Impero; la terribile “Peste nera” del XIV secolo che, agevolata dagli scambi commerciali con l’Oriente, nel giro di pochi anni si diffuse rapidamente in tutta Europa; la peste del 1600, ampiamente descritta da Alessandro Manzoni nel suo celebre romanzo storico e nell’appendice Storia della colonna infame; e la più temporalmente vicina “Influenza spagnola” che, verso la conclusione della già orribile Grande Guerra, ha portato alla morte decine di milioni di persone.
Concluso questo brevissimo excursus storico, possiamo – generalizzando – permetterci di dire che le epidemie e le pandemie sono, purtroppo, quantomeno ricorrenti nella storia antica, moderna e contemporanea. Eppure, nonostante questa generalizzata evidenza, tutti noi non abbiamo mai considerato questa pessima possibilità e, con nostra assoluta sorpresa: eccoci qui.
La nostra serenità dipendeva, probabilmente, da un eccessivo e ingiustificato attaccamento alla scienza e al suo metodo – o, meglio, a ciò che noi ritenevamo essi fossero. La scienza ha formato il proprio metodo in un secolare e difficile percorso che l’ha resa ciò per cui oggi è riconosciuta: una delle madri dello sviluppo umano. Ciononostante, essa, come la storiografia scientifica ci dimostra, possiede un metodo molto particolare di procedere, ovvero quello della continua autoconfutazione. Quello che potrebbe essere inteso come “limite” della scienza – il suo processo di sviluppo tramite autoconfutazione – rappresenta paradossalmente la sua più grande virtù in quanto, contraddicendosi per progredire, allontana da sé qualsiasi tipo di approccio idolatrico. Noi però, coscientemente o incoscientemente influenzati dal neopositivismo dello scorso secolo (o, meglio, dalla sua deriva scientista), abbiamo peccato dell’errore in cui, per Ludwig Wittgenstein, «si cade così facilmente facendo filosofia» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche). Noi abbiamo infatti adottato un approccio dogmatico nei confronti della scienza stessa, contravvenendo al suo fondamentale principio di “non-dogmaticità”. Abbiamo dunque reso la scienza un dogma, con la speranza – forse – di appagare quel nostro insito bisogno di certezze assolute che sembra accompagnare l’uomo dall’inizio dei tempi.
Per evitare questa dogmatizzazione della scienza dovremmo, innanzitutto, chiederci “che cosa è scienza?”. Così facendo potremmo forse, spinti da una sana umiltà intellettuale, ammettere di essere molto confusi a riguardo. La scienza non è una struttura monolitica ma, come spesso accade, la questione si rivela molto complicata e ricca di sfumature. Ad aiutarci in questo percorso potrebbe essere Thomas Kuhn (1922-1996), fisico, storico e filosofo della scienza americano che, nella sua opera più celebre, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), critica la concezione accolta dall’allora comunità scientifica di “scienza” intesa come accumulo di scoperte scientifiche e di “sviluppo scientifico” come processo di accrescimento cumulativo. Kuhn, con la sua ricerca, affronta coloro che interpretano dogmaticamente la scienza ed è per questo motivo che vale la pena conoscerne i contenuti. Thomas Kuhn, inoltre, distaccandosi dalla teoria del falsificazionismo proposta dall’austriaco Karl Popper, vuole mettere in luce una nuova teoria epistemologica: «Il mio obbiettivo principale è quello di sollecitare un mutamento nel modo di percepire e di valutare dati familiari» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
Uno dei concetti chiave presenti all’interno del saggio di Kuhn è quello di scienza normale. Essa viene a costituirsi come:
« Una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore » (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
La scienza normale, banalizzando, è tutta la scienza presente all’interno dei manuali scientifici e, quindi, è quel tipo di sapere che, ad esempio, all’università viene insegnato agli studenti aspiranti-scienziati. Questi manuali espongono le applicazioni in cui la teoria appoggiata dalla “scienza normale” viene approvata e, quindi, riconosciuta come valida. La scienza normale si fonda su un paradigma, ovvero un sistema scientifico (composto da teorie, strumenti e leggi) con due caratteristiche fondamentali: i suoi risultati devono essere sufficientemente nuovi per attrarre un gruppo di seguaci, allontanandoli così da forme scientifiche contrastanti e, allo stesso tempo, i risultati devono essere abbastanza aperti (e quindi non vincolanti) da permettere alla comunità scientifica di utilizzarli per risolvere i futuri e nuovi problemi scientifici. Il paradigma determinante la scienza normale viene scelto da una serie di teorie per la sua più spiccata capacità di apparire – banalmente – migliore delle altre teorie in competizione tra loro, ovvero di riuscire a risolvere i problemi ritenuti più “urgenti” (chiamati da Kuhn rompicapo) dal gruppo di specialisti, anche se esso «non deve spiegare necessariamente tutti i fatti coi quali ha a che fare, e di fatto non li spiega mai tutti» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Una volta che la comunità scientifica sceglie in maggioranza una teoria, essa diviene dunque un paradigma e le scuole di pensiero differenti lentamente scompaiono o vengono comunque marginalizzate.
L’obbiettivo della scienza normale, secondo Kuhn, non è quello di elaborare innovative teorie o fare nuove scoperte scientifiche ma, anzi:
« gli scienziati non mirano neanche, di norma, ad inventare nuove teorie, e anzi si mostrano spesso intolleranti verso quelle inventate da altri. La ricerca nell’ambito della scienza normale è invece rivolta all’articolazione di quei fenomeni e di quelle teorie che sono già fornite di paradigma » (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
È il paradigma stesso, con la sua presenza, a dettare quali problemi debbano essere affrontati e quali, invece, non possono essere presi in considerazione. L’attività della scienza normale è invece quella di ripulitura, cioè «un tentativo di forzare la natura entro le caselle prefabbricate e relativamente rigide fornite dal paradigma» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche). In questo processo di ripulitura, la scienza normale si specializza e definisce maggiormente i propri confini, divenendo una struttura sempre più rigida e vincolante (così facendo va ad erodere la seconda “caratteristica fondamentale” del paradigma, poc’anzi descritta).
Dunque, la scienza normale non ricerca scoperte o novità scientifiche, eppure esse ci sono:
« La scoperta comincia con la presa di coscienza di un’anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale […] tale presa di coscienza dell’anomalia apre un periodo in cui le categorie concettuali vengono riadattate, finché ciò che inizialmente appariva anomalo sia diventato qualcosa che ci si aspetta » (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
Le anomalie, inizialmente, vengono inglobate per quanto possibile all’interno del paradigma. Così facendo, però, la scienza normale si sviluppa in maniera sempre più rigida, dimostrandosi incapace di accettare le anomalie che via via vengono scoperte. La scienza normale non è più in grado di risolvere i rompicapi: il paradigma esistente è entrato in crisi. Per risolvere questi nuovi problemi, si deve abbandonare il paradigma in uso, risultato ormai insufficiente, tenendo conto che:
« La decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro, ed il giudizio che porta a quella decisione implica un confronto sia dei paradigmi con la natura, sia dei paradigmi con l’altro » (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
Con l’intenzione di abbandonare il vecchio paradigma, spingendosi alla ricerca di uno nuovo, avviene quella che Kuhn definisce rivoluzione scientifica. Dopo che la comunità scientifica sceglie un nuovo paradigma, viene a definirsi una nuova “scienza normale” e, quindi, vi è una nuova definizione di “scienza” stessa. Per questo motivo, la visione degli scienziati nei confronti del mondo cambia drasticamente: «dopo una rivoluzione, gli scienziati reagiscono a un mondo differente» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Kuhn, per esemplificare al meglio ciò che qui tenta di esporre, prende in prestito l’immagine ambigua del coniglio-anatra della scuola psicologica Gestalt, sostenendo che con il nuovo paradigma si passa «dal vedere il coniglio al vedere l’anatra» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche).
Dalla lettura del saggio di Kuhn possiamo apprendere che la rigidità di ciò che è scienza, o di ciò che viene posto all’interno della categorica dello scientifico o, ancora, di ciò che è ritenuto metodo scientifico è in realtà molto relativa. La dinamicità descritta da Kuhn ci ricorda quanto poco stabili siano questi concetti, spesso idolatratati e posti come dèi moderni, a cui la scienza appartiene. Certo, Kuhn venne aspramente criticato e oggi è in parte stato superato dalle più attuali teorie epistemologiche, ma forse non è questo ad essere rilevante, quanto il fatto che egli, attraverso la sua opera, ha gettato dubbi, scardinando la visione adottata all’unanimità dagli storici e filosofi della scienza e riportando l’attenzione su un tema che pareva ormai sostanzialmente archiviato. Ed è proprio questo, per lo scrivente, ciò di cui ogni essere razionale necessita: dubbi.
Fonte: https://www.gazzettafilosofica.net/2021-1/agosto/critica-della-scienza-dogmatica/
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