L’Unione Europea per noi è stata una rivoluzione
di SIMONE GARILLI (RI Mantova)
In molti considerano con qualche ragione il 1978 come l’anno spartiacque della Repubblica italiana, con l’omicidio Moro, il fallimento definitivo di una prospettiva di riformismo radicale, diciamo pure di matrice costituzionale, e l’ingresso nella fase storica compiutamente europeista. Ebbene, non va mai dimenticato che nel 1978 l’Italia, con un rapporto debito/PIL intorno al 60%, registrava con le imprese a controllo pubblico un volume di affari pari al 51,8% del volume totale prodotto dalle grandi imprese, contro il 24,9% della Francia, il 12,5% della Gran Bretagna e il 3,9% della Germania (fonte: Elisabetta Gualmini, L’amministrazione nelle democrazie contemporanee, pag.67).
Quello che spesso viene sottovalutato è che l’Italia, a partire indicativamente da quell’anno e passando per l’apice del 1992, ha realizzato una Rivoluzione. Ognuno la può pensare come vuole sull’esito, ma si tratta di una Rivoluzione. Mi hanno sempre fatto sorridere quei giornalisti e politologi che accusavano (e ancora oggi hanno il coraggio di accusare) la classe dirigente della Seconda Repubblica di immobilismo. La Seconda Repubblica è stata rivoluzionaria, essendo intervenuta con l’accetta in tutti i settori normativi e avendo proceduto a un’opera di privatizzazioni che in percentuale al PIL non ha eguali nei Paesi OCSE.
Ora, i risultati comparati in termini di produttività (che dagli anni Novanta ristagna), di diseguaglianza di reddito (i salari reali si sono fermati anch’essi negli anni Novanta), di mobilità sociale, di crescita del PIL e di partecipazione democratica sono sotto gli occhi di tutti. A qualcuno può piacere che i redditi siano oggi più polarizzati che mai nella storia repubblicana e che l’astensione cresca, e a qualcuno può piacere persino che il PIL sia cresciuto a livelli ridicoli per trent’anni e che oggi debba ancora recuperare la botta del 2008, perché deve essere chiaro che alle grandi imprese private della crescita del PIL non frega nulla.
Se il PIL ristagna, significa che ristagnano i salari e la domanda interna e che quindi le suddette grandi imprese possono competere sul prezzo nei mercati internazionali e aumentare i profitti in termini assoluti e relativi sfruttando in patria lavoro a basso costo. Come è normale che sia, in un Paese avanzato non tutti hanno gli stessi interessi e c’è chi cura quelli delle minoranze, soprattutto se potenti.
L’importante è capire da che parte stare e finirla di raccontarci la storia dell’immobilismo. Abbiamo vissuto una Rivoluzione. Valutiamo i risultati e agiamo di conseguenza.
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