Il deficit pubblico, tra competenza e ideologia: tecnici e politici
di STEFANO D’ANDREA
“Esistono davvero pochi esempi, nel mondo sviluppato, in cui il deficit sia stato un peccato mortale. Se dovessi essere proprio preciso, le dirò che in realtà non ne conosco nessuno” (Jean-Paul Fitoussi, La neolingua dell’economia, Torino, 2019).
Si può non essere d’accordo con Fitoussi, che è un economista o tecnico e, pronunciando questa frase, crede, ingenuamente, in quanto “tecnico” o “competente” – e con ingenuità identica a chi sostiene la tesi opposta – di dire una verità, e non di esprimere una volontà. Tuttavia, si deve convenire che coloro che hanno detto nel trentennio passato “non bisogna fare deficit” oppure “bisogna fare bassissimi deficit“, non erano “tecnici” o “esperti di economia”, bensì anch’essi politici, che esprimevano una diversa e opposta ideologia, rispetto a quella di Fitoussi.
Ma a differenza dell’inconsapevole Fitoussi, gli economisti che sostengono e hanno sostenuto tesi opposte alle sue (Draghi, Ciampi, Padoa Schioppa, Monti, Visco, Saccomanni, Padoan, ecc.) erano anche disonesti, perché nello stabilire una regola che, in questi trenta anni, in Europa ha consentito deficit che sono stati bassi non rispetto all’ideale di chi ha l’ideologia opposta (io per esempio ma oggi, in parte, anche Fitoussi), bensì rispetto agli Stati Uniti, al Giappone o alla Corea del Sud, essi volevano anche un’alta disoccupazione, che infatti in Europa, negli ultimi 27 anni, è stata molto più alta che negli USA, in Giappone o in Corea del Sud.
Dunque i “tecnici”, nei quali ripongono le speranze un paio di decine di milioni di italiani, idiotizzati dal Corriere della Sera, da La Repubblica, da La Stampa, dal Sole 24 ore e dalle TV nazionali, pubbliche e private – Draghi, Ciampi, Padoa Schioppa, Monti, Padoan, ecc. -, per “fare l’Europa” (ossia per continuare in un processo di integrazione che non avrà mai fine perché non ha un fine), e per “evitare la disintegrazione dell’Europa”, hanno voluto un’alta disoccupazione (e le conseguenze che quest’ultima comporta sui redditi da lavoro, autonomo e subordinato).
Un grande martire italiano, sia pure a proposito della scuola (allora il tema era la riforma scolastica), aveva avvertito che spetta alla politica stabilire che scuola si vuole e quali funzioni deve svolgere la scuola, non a professori che pretendono (e magari sono così sciocchi da credere) di essere “tecnici”: “per chi abbia dimestichezza con la storia non sono invece necessarie nuove esperienze per dimostrare l’inferiorità della politica dei tecnici in confronto dei tecnici della politica” (Piero Gobetti, Polemica scolastica, in “La rivoluzione liberale”, 10 aprile 1923).
I “tecnici” dunque fanno politica; ingannano perché vogliono apparire tecnici o addirittura credono di essere tecnici; ingannano perché dicono soltanto in parte ciò che vogliono (non hanno detto in questi anni che volevano bassa crescita e alta disoccupazione); e sono già per questo politici inferiori ai tecnici della politica. Fin quando gli italiani continueranno a odiare la politica e a credere nei tecnici, meriteranno tutto il male possibile e immaginabile e saranno responsabili del loro male.
Probabilmente il primo a dimostrare involontariamente la fallacia del governo tecnico fu Platone: la sua repubblica altro non era che dittatura. Anch’io da giovane ho creduto nel governo tecnico, poi ho compreso che non ha senso separare vita e politica. Tutto è politica, perché gli uomini vivono in polis. Ne’ ha senso cercare tra i politici il Migliore o il Disinteressato (perché “chi custodirà i custodi?). Ciò che manca ai mediocri politici di oggi è un principio ideale cui conformare le scelte gestionali. Gianfranco Morra dice che alla società attuale manca un fondamento antropologico: non esistono scelte giuste o ingiuste, bensì coerenti o incoerenti ai valori che si assumono a principi ispiratori.
Grazie, Sig. D’Andrea, dei suggerimenti bibliografici.