Il socialismo: oltre la destra, oltre la sinistra, oltre la modernità
di Alain De Benoist Diorama Letterario letto su Arianna editrice
Il gennaio 1905, il «regolamento» della Sezione francese dell’Internazionale operaia (SFIO) – il partito socialista dell’epoca – indicava ancora quest’ultima come un «partito della classe operaia che si prefigge di socializzare i mezzi di produzione e scambio, ossia di trasformare la società capitalistica in società collettivista o comunista, attraverso l’organizzazione economica e politica del proletariato». Beninteso, nessun partito «socialista» oserebbe oggi dire una cosa del genere, essendo i socialisti diventati socialdemocratici o social-liberali.
Che oggi la «sinistra», nella sua quasi totalità, sia divenuta riformista, che abbia aderito all’economia di mercato, che si sia progressivamente separata dai lavoratori e dalle classi popolari, non è certo una rivelazione. Lo spettacolo della vita politica ne è una ininterrotta dimostrazione. Per questo, ad esempio, le grida della sinistra sono così deboli nella grande tormenta finanziaria mondiale attuale: semplicemente, essa non è disposta più della destra a prendere le misure che permetterebbero di intraprendere una vera guerra contro l’influenza planetaria della Forma-Capitale. Come osserva Serge Salimi, «la sinistra riformista si distingue dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l’occasione, si adopera a governare come i suoi avversari, a non disturbare l’ordine economico, a proteggere l’argenteria della gente del castello» .
La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di questa deriva? La si può spiegare unicamente con l’opportunismo dei singoli, ex rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza dell’avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura storica, cioè del crollo del blocco sovietico che ha annientato l’idea di una credibile alternativa al sistema di mercato?
Ne Le complexe d’Orphée, il suo ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una risposta più originale e anche più profonda: la sinistra si è separata dal popolo perché ha aderito molto presto all’ideologia del progresso, che contraddice nettamente tutti i valori popolari .
Fondamentalmente orientata verso l’avvenire, la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza le nozioni di «tradizione», «consuetudine», «radicamento», vedendovi solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale marcia in avanti del progresso. Tendendo all’unificazione del genere umano e contemporaneamente all’avvento di un universo «liquido» (Zygmunt Bauman), la teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di appartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica della base organica e simbolica delle solidarietà tradizionali (come fece in Inghilterra il celebre movimento delle enclosures, che costrinse all’esodo migliaia di contadini privati dei loro diritti consuetudinari, per convertirli in manodopera proletaria sradicata e dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle fabbriche ). In un’ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così com’era una volta rientra dunque necessariamente nell’ambito di un passatismo «nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di ammettere che i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un qualsiasi attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva ancora ieri tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o addirittura, per i più empi tra loro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”» . Il mondo nuovo deve essere necessariamente edificato sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione delle radici forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher Lasch).
Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII secolo, ha accompagnato l’ascesa sociale della borghesia e, con essa, la diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a un universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione, il «regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo tempo, aveva sottolineato il carattere profondamente borghese dell’ideologia del progresso). Ma anche antico comportamento monoteista che scaglia l’anatema contro le realtà particolari in nome dell’iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento platonico che discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure .
La teoria del progresso è direttamente associata all’ideologia liberale. Il progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla finita con le guerre civili e di religione, rifiutando al contempo l’assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare la guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi. Erano favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita buona», fosse neutro.
Poiché la società non poteva più essere fondata sulla virtù, il buon senso o il bene comune, la morale doveva restare un affare privato (principio di neutralità assiologia). L’idea generale era che si poteva fondare la società civile solo sull’esclusione di principio di ogni riferimento a valori comuni – il che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque desiderio o capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata».
Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto due cose: «Da un lato, lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei valori morali e “ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la libertà degli uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale ha la stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall’altro, il mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di accordarsi pacificamente con i suoi simili sull’unica base dell’interesse ben compreso delle parti interessate» .
Lo Stato di diritto «assiologicamente neutro» è in effetti una doppia illusione. In primo luogo, la sua neutralità è completamente relativa: nella vita reale, i liberali affermano i loro principi e i loro valori con altrettanta forza degli antiliberali. Inoltre, la neutralità in materia di valori (la teoria secondo la quale lo Stato non deve pronunciarsi sulla questione della «vita buona», perché ciò lo indurrebbe a discriminare tra i cittadini) sfocia in pratica in contraddizioni insolubili, come dimostra la teoria dei diritti dell’uomo, che proclama diritti contraddittori, dato che alcuni di essi possono essere applicati solo a condizione di ignorarne o violarne altri. Queste contraddizioni sono costantemente sottoposte a procedure giudiziarie, ma non possono essere risolte in maniera puramente tecnica o procedurale.
La dicotomia destra-sinistra viene spesso fatta risalire alla Rivoluzione francese, dimenticando in tal modo che essa è davvero pienamente entrata nel discorso pubblico solo alla fine del XIX secolo. Alla vigilia della Rivoluzione, lo spartiacque principale non oppone la «destra» e la «sinistra», ma un’aristocrazia fondiaria dotata di potere politico e una borghesia mercantile acquisita alle idee liberali. Nessuno, in quell’epoca, difende veramente il popolo. Retrospettivamente, il libro di Michéa spiega d’altronde anche l’ambiguità della Rivoluzione francese: rivoluzione borghese, ma fatta in nome del «terzo stato» (e soprattutto della «nazione»), ispirata al contempo alle idee di Rousseau e del liberalismo dei Lumi, «progressista» con Condorcet, m affascinata dal’Antichità con Robespierre o Saint-Just.
Durante tutta la prima parte del XIX secolo, sono appunto i liberali a formare il cuore della «sinistra» parlamentare dell’epoca (il che spiega il senso che ha conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I liberali riprendono quell’idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per eccellenza e l’unica via d’accesso a una società “universale” e “cosmopolita» . Benjamin Constant, per citare solo lui, è il primo a celebrare quella disposizione della «natura umana» che induce a «immolare il presente all’avvenire».
Mentre la III Repubblica vede la borghesia assumere a poco a poco l’eredità della rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura in associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare solo verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel momento in cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il diritto di sciopero è riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della fondazione della I Internazionale. Orbene, i primi socialisti, la cui base sociale si torva soprattutto tra gli operai di mestiere, non si presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa ricorda, d’altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di destra» e che non sarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di sinistra». A parte i «radicali», la «sinistra», all’epoca, non designa niente.
In origine, il movimento socialista si pone, in effetti, come forza indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei «reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra». Ovviamente, si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie dell’Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – ma si oppone ugualmente all’individualismo dei Lumi, ereditato dall’economia politica inglese, con la sua apologia dei valori mercantili, già così ben criticati da Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia le idee della sinistra «progressista» e comprende bene che i valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche quelli cui si richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà, lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sinistra» progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre, molto differente dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà all’indomani della Prima Guerra mondiale.
È, d’altronde, contro il riformismo e il parlamentarismo della «sinistra» che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano oppongono allora l’ideale del mutualismo o dell’autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all’opera nell’«azione diretta» – ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT.
I primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato. Più esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la Gemeinwesen di Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Per i primi socialisti, era chiaro che una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una comunità degna di questo nome» . Proprio per questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici socialisti, affermava non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».
Per il popolo, il passato non era soltanto ciò che gli permetteva di inscriversi in una filiazione e in una continuità storiche particolari, ma ciò che gli permetteva di giudicare il valore delle innovazioni che gli venivano proposte. Da questo punto di vista, la «tradizione» era più una protezione che una costrizione. In passato, molte rivolte popolari avevano già trovato la loro origine in una volontà chiaramente manifestata di difendere le consuetudini e le tradizioni popolari contro la Chiesa, la borghesia o i principi. Il motivo di ciò è che sono le consuetudini, le tradizioni, le forme particolari della vita locale, ossia le comunità radicate, a permettere da sempre l’emersione di un mondo comune e a costituire, ugualmente da sempre, il quadro nel quale «possono dispiegarsi le strutture elementari della reciprocità e dunque, ugualmente, le condizioni antropologiche dei differenti processi etici e politici che permetteranno eventualmente di estenderne il principio fondamentale ad altri gruppi umani, se non addirittura all’intera umanità» .
Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è «sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali» e che «in pratica, l’universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari» . Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive ancora Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista» .
Come il patriottismo non deve essere confuso con il nazionalismo (di destra»), così l’internazionalismo non deve essere confuso con il cosmopolitismo (di «sinistra»). Poiché l’abbandono o l’oblio della propria cultura rendono incapaci di comprendere l’attaccamento degli altri alla loro, il risultato dell’universalismo astratto non è il regno del Bene universale, ma la realizzazione di un «universo ipnotico, glaciale e uniformato» il cui soggetto è quell’essere narcisistico pre-edipico, immaturo e capriccioso che è il consumatore contemporaneo.
In Francia, l’alleanza storica tra il socialismo (influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal marxismo) e la «sinistra» progressista si instaura all’epoca dell’affare Dreyfus (1894). Svolta profondamente negativa. Nato dalla preoccupazione di una «difesa repubblicana» contro la destra monarchica, clericale o nazionalista, si delinea un compromesso che partorirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicani progressisti». Si crea allora una confusione tra ciò che è emancipatore e ciò che è moderno, i due termini essendo a torto ritenuti sinonimi.
È in questo momento, scrive Michéa, che il movimento socialista è stato «progressivamente indotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavoratori contro il dominio borghese e capitalista quella che avrebbe presto opposto – in nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di sinistra” e un “popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente più vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del FMI che a un operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi voti alla destra)» . Questo compromesso ha assunto due aspetti: «Da un lato, ha portato ad ancorare il liberalismo – motore principale della filosofia del Lumi – nel campo delle “forze di progresso” […] Dall’altro, ha contribuito a rendere in anticipo illeggibile l’originaria critica socialista, poiché quest’ultima sarebbe nata appunto da una rivolta contro la disumanità dell’industrializzazione liberale e l’ingiustizia del suo diritto astratto» .
Allora – e soltanto allora – la causa del popolo ha cominciato a divenire sinonimo di quella di progresso, all’insegna di una «sinistra» che voleva essere anzitutto il «partito dell’avvenire» (contro il passato) e l’annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva situare «a sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò che aveva ancora il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del paese d’origine, delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento su se stessi” o degli attaccamenti “irrazionali” a esseri e luoghi)» . Il movimento socialista, e poi comunista, riprenderà dunque per proprio conto l’ideale «progressista» del produttivismo ad oltranza, di quel progetto industriale e iperurbano che ha completato lo sradicamento delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili all’influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell’ideale abbia ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i contadini).
D’ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava credere alla promessa di una marcia in avanti dell’umanità verso un universo radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione. Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra coloro che, per principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu intimato a Orfeo. (Di qui il titolo del libro di Jean-Claude Michéa: disceso nel regno dei morti con la speranza di ritrovare Euridice e di riportarla nel mondo dei vivi, Orfeo si vede proibire da Ade di voltarsi indietro, altrimenti perderà per sempre la sua bella. Beninteso, egli violerà all’ultimo momento questa proibizione). A questa deriva, in cui vede a giusta ragione un’impostura, si oppone Michéa con una fermezza pari al suo talento.
Separato dalle sue radici, il movimento operaio è stato nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi della sua autonomia. Come aveva ben visto George Orwell, la religione del progresso priva infatti l’uomo della sua autonomia nel momento stesso in cui pretende di garantirla emancipandolo dal passato. Orbene, sottolinea Michéa, «dal momento in cui un individuo (o una collettività) è stato spossessato dei mezzi della sua autonomia, non può più perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi artificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il consumo, la moda e lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di compensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata» .
Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo sarà nello stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale, perché la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del capitalismo, cui riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e annegato tutti gli antichi valori nelle «gelide acque del calcolo egoistico». A questo tratto fondante se ne aggiunge un altro, tipico delle forme moderne di questo stesso capitalismo. «Una economia di mercato integrale», spiega Michéa, «può funzionare durevolmente solo se la maggior parte degli individui ha interiorizzato una cultura della moda, del consumo e della crescita illimitata, cultura necessariamente fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del capriccio individuale e del godimento immediato […] Dunque, è proprio il liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l’austerità religiosa) a costituire il complemento psicologico e morale più efficace di un capitalismo di consumo» . Ora, diventando «di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche i principi del liberalismo culturale. La sinistra «permissiva» è così divenuta il naturale humus di espansione della Forma-Capitale. È il capitalismo che permette meglio di «godere senza ostacoli»!
Per decenni, sotto l’etichetta di «sinistra», si troveranno dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose totalmente differenti: da una parte, la giusta protesta morale della classe operaia contro la borghesia capitalista, e, dall’altra, la credenza liberale borghese in una teoria del progresso la quale afferma, in linea di massima, che «prima» non ha potuto che essere peggiore e che «domani» sarà necessariamente migliore. In effetti, il movimento socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto «progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla teoria (o alla religione) del progresso – cioè alla metafisica dell’illimitato – che costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunque della filosofia liberale. Essendo la teoria del progresso intrinsecamente legata al liberalismo, la «sinistra», diventando «progressista», si condannava a confluire un giorno o l’altro nel campo liberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismo culturale annunciava già il capovolgimento nel liberalismo economico. L’ultimo bastione a cedere è stato il partito comunista, che ha progressivamente smesso di svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato il successo: fornire «alla classe operaia e alle altre categorie popolari un linguaggio politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una certa fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi» .
Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso, essere detto della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha aderito al liberalismo economico perché era già acquisita all’idea di progresso e al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo dei costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. È, infatti, completamente illusorio credere che si possa essere durevolmente liberali sul piano politico o «societale» senza finire col diventarlo anche sul piano economico (come crede la maggioranza delle persone di sinistra) o che si possa essere durevolmente liberali sul piano economico senza finire col diventarlo anche sul piano politico o «societale» (come crede la maggioranza delle persone di destra). In altri termini, c’è un’unità profonda del liberalismo. Il liberalismo forma un tutto. Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso», corrisponde l’imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile difendere al contempo i «valori tradizionali» e un’economia di mercato che non smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest’ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato» . Ciò spiega che destra e sinistra confluiscano oggi nell’ideologia dei diritti dell’uomo, il culto della crescita infinita, la venerazione dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di profitti. Il che ha almeno il merito di chiarire le cose.
La sinistra si è molto presto convinta che la globalizzazione del capitale rappresentava una evoluzione ineluttabile e un avvenire insuperabile, con la politica che, nello stesso tempo, si adattava alla globalizzazione economica e finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sinistra ne è stata la conseguenza più clamorosa.
Il Club Jean Moulin aveva aperto la strada negli anni sessanta. La «seconda sinistra» rocardiana negli anni settanta, la Fondazione Saint-Simon negli anni ottanta hanno approfondito la breccia attraverso la quale la sinistra ha cominciato a puntare sulla «società civile» contro lo Stato e a confluire nel modello del mercato. Nella stessa epoca, il liberalismo culturale trionfa, il che si traduce in uno spostamento dei dibattiti politici verso le poste in gioco della società e verso nuovi gruppi sociali in via di autonomizzazione (donne, immigrati, omosessuali, ecc.). Infine, il denaro si impone come equivalente universale nell’ambito dei valori. «Il vincitore», ha osservato Jacques Julliard, «fu Alain Minc […] il quale aveva compreso che, assumendo le idee della seconda sinistra, si poteva fare un buonissimo deal con il neocapitalismo che si stava imponendo» .
È emersa così una sinistra «i cui dogmi sono l’antirazzismo, l’odio dei limiti, il disprezzo del popolo e l’elogio obbligatorio dello sradicamento» . È così che l’immaginario della «sinistra moderna» – simboleggiata in Francia da Le Monde, Libération, Les Inrockuptibles e altri insigni rappresentanti del «circolo della ragione» ideologicamente dominante – è arrivato a confondersi con quelli dei padroni della BCE e del Fondo monetario internazionale. Ed è altresì per questo che «dietro la convinzione un tempo emancipatrice che non si arresta il progresso, [è diventato] sempre più difficile ascoltare qualcosa di diverso dall’idea, attualmente dominante, secondo la quale non si arrestano il capitalismo e la globalizzazione» . Ormai, la sinistra celebra la crescita, ossia la produzione di merci all’infinito, negli stessi termini dei liberali. Là dove gli uni parlano di «deterritorializzazione» (alla maniera di Deleuze-Guattari o di Antonio Negri), gli altri parlano di «delocalizzazioni». Per quanto concerne l’immigrazione, esercito di riserva del capitale, la sinistra «moderna» usa lo stesso linguaggio di Laurence Parisot («meticciato» e «nomadismo» trasformati in norme). Influenzata da coloro che hanno «distrutto il socialismo convertendolo nell’individualismo dei diritti universali e del liberalismo integrale» (Hervé Juvin), il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il «reazionario» che ha il torto di rimpiangere il passato.
«È dunque normale», prosegue Michéa, «che la sinistra “civica” (quella che ha rotto con ogni sensibilità popolare e socialista) appaia oggi come il luogo politico privilegiato dove sono elaborate tutte le trasformazioni giuridiche e di civiltà richieste dal mercato mondiale. Insomma, essa non è altro che il pesce-pilota del capitalismo senza frontiere o, se si preferisce, l’avanguardia culturale militante della destra liberale» .
I «valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori «progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe, ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o di cui si disinteressa totalmente. Per la sinistra «moderna», che realizza l’alleanza dei funzionari, delle classi borghesi superiori, degli immigrati e dei radical chic, «rifiutare l’oscura eredità del passato (che, a priori, non può non richiamare atteggiamenti di “pentimento”), combattere tutti i sintomi della febbre “identitaria” (ossia, in altri termini, tutti i segni di una vita collettiva radicata in una cultura particolare) e celebrare all’infinito la trasgressione di tutti i limiti morali e culturali tramandati dalle precedenti generazioni (il regno compiuto dell’universale liberale-paolino dovendo coincidere, per definizione, con quello dell’indifferenziazione e dell’illimitatezza assolute) è tutt’uno» . Non si parla più del capitalismo o della lotta di classe, e ovviamente di quella anticaglia della rivoluzione. Persino il partito comunista ha quasi soppresso la parola «socialismo» dal suo vocabolario. Avendo perduto la sua identità ideologica, non è più in grado di influenzare la corrente socialdemocratica da cui dipende elettoralmente .
Poiché l’obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Jean_Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l’arcaico proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica» . La sinistra cerca dunque un «popolo di ricambio». La fondazione Terra Nova, fondata nel 2008 da persone vicine a Dominique Strauss-Kahn e presieduta dal socialista Olivier Ferrand, si è resa celebre pubblicando, nel maggio 2011, un rapporto che suggerisce al partito socialista di rifondare la sua base elettorale su un’alleanza tra le classi agiate e le «minoranze» delle periferie, abbandonando operai e impiegati ai loro «valori di destra» (critica dell’immigrazione, protezionismo economico e sociale, promozione di norme forti e di valori morali, lotta contro l’assistenzialismo, ecc.). Il testo del rapporto è molto chiaro: «Contrariamente all’elettorato storico della sinistra, coalizzato dalle poste in gioco socio-economiche, questa Francia di domani è unificata anzitutto dai suoi valori culturali progressisti». «Tra i due perdenti della globalizzazione – gli immigrati ghettizzati e i modesti salariati minacciati – la sinistra in stile Terra Nova sostiene ormai i primi a scapito dei secondi» .
Non è quindi sorprendente che il popolo si distolga da una sinistra affascinata più dal people e dalla «plebaglia» che dai lavoratori, che si dichiara per la globalizzazione, sebbene quest’ultima sia anzitutto quella del capitale, si interessa più alle iniziative «civiche» che alle trasformazioni strutturali, alla società protettiva del care più che alla giustizia sociale, alla vita associativa più che alla politica, allo spettacolo mediatico più che alla sovranità del popolo, al consenso sociale più che alla lotta di classe – e, come i liberali, concepisce l’interesse generale solo come semplice somma degli interessi particolari. Il popolo non si riconosce più in una sinistra che ha sostituito l’anticapitalismo con un simulacro di «antifascismo», il socialismo con l’individualismo radical chic e l’internazionalismo con il cosmopolitismo o l’«immigrazionismo», prova solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in pratiche «civiche» e in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali.
Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come «populisti» (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe). Citiamo ancora Michéa: «Tra la rappresentazione colpevolizzante della società ormai imposta dalla sociologia ufficiale (una minoranza di esclusi, relegati nei “ghetti etnici”, sottomessi a tutte le persecuzioni possibili e accerchiati da una Francia “di villette” che si presume appartenere alle classi medie) e l’oscura realtà vissuta da queste categorie popolari, al contempo maggioritarie e dimenticate, la distanza è divenuta assolutamente surreale. Il risultato è che le principali vittime degli aspetti nocivi della globalizzazione non trovano più nel linguaggio politicamente corretto della sinistra moderna la minima possibilità di tradurre la loro esperienza vissuta» . «Minando alla base ogni possibilità di legittimare un qualunque giudizio morale (e, di conseguenza, rifiutando simultaneamente di comprendere l’uso popolare delle nozioni di merito e responsabilità individuale), la sinistra progressista si condanna inesorabilmente a consegnare ai suoi nemici di destra interi pezzi di quelle classi popolari che, a modo loro, non domandano altro che di vivere onestamente in una società decente […] In realtà, è proprio la stessa sinistra ad aver scelto, verso la fine degli anni settanta, di abbandonare al loro destino le categorie sociali più modeste e sfruttate, volendo ormai essere “realista” e “moderna”, ossia rinunciando in anticipo a ogni critica radicale del movimento storico che, da oltre trent’anni, seppellisce l’umanità sotto un “immenso accumulo di merci” (Marx) e trasforma la natura in deserto di cemento e acciaio» .
Georges Sorel diceva che «il sublime è morto nella borghesia, che è dunque condannata a non avere più una morale». Anche Michéa parla di morale. Ma qui non si tratta del «sublime», bensì della decenza comune (common decency) tanto spesso celebrata da Orwell.
«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l’uomo a tenere conto dell’altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta dei primi socialisti contro un mondo fondato sul solo calcolo egoistico sia stata così spesso sostenuta da una esperienza morale» . Si pensi alla «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale sociale» di cui parlava Benoît Malon. La «decenza comune», che è mille miglia lontana da ogni forma di ordine morale o di puritanesimo moralizzatore, è infatti uno dei tratti principali della «gente normale» ed è nel popolo che la si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità, il senso dell’onore, la solidarietà ed è all’opera nella triplice obbligazione di «dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento del dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato la protesta contro l’ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire l’immoralità di un mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato e la trasgressione permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta con tutta la sua forza contro quella sinistra «moderna» di cui un Dominique Strass-Kahn è il simbolo e nella quale non si riconosce più. «Da questo punto di vista», scrive Michéa, «il progetto socialista (o, se si preferisce l’altro termine utilizzato da Orwell, quello di una società decente) appare proprio come una continuazione della morale con altri mezzi» .
Come si è capito, Michéa non critica la sinistra da un punto di vista di destra – e ce ne rallegriamo – bensì in nome dei valori fondanti del socialismo delle origini e del movimento operaio. Tutta la sua opera si presenta, d’altronde, come uno sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo delle origini e porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo la difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati spesso l’unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più sfruttati.
Non è un punto di vista isolato. Il percorso di Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove troviamo, in primo luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale Michéa ha dedicato un libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come pure Christopher Lasch, teorico di un «populismo» socialista e comunitario, grande avversario dell’ideologia del progresso , di cui ha contribuito più di chiunque altro a far conoscere il pensiero in Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane Marx critico dei «diritti dell’uomo», i primi socialisti francesi, William Morris, Charles Péguy e Chesterton, l’Antonio Gramsci che sottolinea l’importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari (colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e necessario tanto quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e la sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua denuncia della «sinistra divina», i films di Ken Loach e di Guédiguian, la canzoni di Brassens, senza dimenticare Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche , ecc.
Michéa paragona il liberalismo a un nastro di Möbius, che presenta una «faccia destra» e una «faccia sinistra», ma senza alcuna soluzione di continuità. Ciò significa che tra borghesia di destra e borghesia di sinistra, entrambe eredi della filosofia liberale dei Lumi, ci saranno sempre più affinità oggettive che tra ciascuna di queste borghesie e gli antiborghesi del loro campo. E viceversa, che esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice, si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra. È ciò che constata Michéa quando scrive: «Poco importa, in verità, sapere da quale tradizione storica ciascuno ha tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare i principi della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente violazione ad opera del sistema capitalistico» . In un’epoca in cui la sinistra intende più che mai raccogliere le «forze di progresso», egli non esita a ad aggiungere che è «la patetica incapacità di assumere [la] dimensione conservatrice della critica anticapitalistica a spiegare, in larga parte, il profondo smarrimento ideologico (per non dire il coma intellettuale irreversibile) nel quale l’insieme della sinistra moderna è oggi immersa» .
Non avete ancora letto Michéa? Soprattutto, non dite che un giorno lo leggerete. Leggetelo subito. Immediatamente!
(traduzione di Giuseppe Giaccio)
Mi sembra il solito "oltrismo" tanto in voga a destra, un argomento a cui noi di Indipendenza abbiamo dedicato vari scritti nei numeri cartacei (per chi fosse interessato alcuni si possono trovare sul nostro sito http://www.rivistaindipendenza.org nelle sezioni “Contributi per una teoria nazionalitaria” e “Le novità del sito”) e diverse discussioni anche sul nostro forum (http://indipendenza.lightbb.com).
Veniamo allo scritto di De Benoist. Si parte da un'analisi condivisibile sulle trasformazioni degli spazi politici di "destra" e "sinistra" e dell'egemonia che il liberalismo esercita ormai su di essi. La conseguenza è che oggi, nelle cosiddette democrazie bipolari o bipartitiche, la dicotomia destra/sinistra non costituisce in nessun modo una linea di frattura politica, nonostante sia assolutamente centrale sul piano elettorale. Sin qui –come detto– l’analisi è condivisibile.
Dopodiché però si arriva alla solita conclusione secondo cui, a fronte di una sostanziale convergenza tra destra liberale e sinistra liberale, si renderebbe necessario un analogo avvicinamento tra destra antiliberale e sinistra antiliberale. La tesi, a una lettura superficiale, può certo risultare sensata e convincente. Tuttavia, se si prova a entrare nel merito, rivela tutta la sua inconsistenza e la sua fallacia. Procedo per punti:
– In primo luogo è significativo che l’idea di una sostanziale identità politica tra la destra e la sinistra “mainstream” (liberali e liberiste) è supportata con una certa dovizia di argomentazioni nel merito. Al contrario la comunanza tra destra e sinistra antiborghesi è soltanto evocata come reazione ed è giustificata unicamente dal fatto di avere un nemico comune.
– Uscendo dalle categorie di sinistra e destra (categorie plurali, al cui interno possono essere incluse una pluralità di famiglie politiche) e andando alla sostanza è del tutto evidente che la destra e la sinistra liberal costituiscono lo spazio occupato dai sostenitori del liberalismo capitalista, l’ideologia uscita vincitrice dagli eventi del XX Secolo. Chi sarebbero poi gli antiborghesi di destra? Fascisti, neo-fascisti, post-fascisti, ecc. E gli antiborghesi di sinistra? Comunisti, anarchici, post-comunisti, ecc. Quali sono le novità rispetto allo scenario novecentesco? Due, essenzialmente: la prima è che i rapporti di forza sono assolutamente sbilanciati in favore del pensiero unico liberal-capitalista; la seconda è che tra gli oppositori non figurano solamente i nostalgici del comunismo e del fascismo, bensì anche coloro che si propongono il superamento dell’esperienza novecentesca, prendendo atto delle rispettive sconfitte. Tali superamenti, al netto degli elementi di novità sul piano teorico e dell’analisi, mantengono però ovviamente intatti i nuclei concettuali di fondo, nonché i sistemi di valori di riferimento. Ergo mantengono intatte le differenze tra i rispettivi orizzonti politici e progetti di società. Ragion per cui, l’idea di un connubio tra destra antiliberale e sinistra antiliberale ha sul piano dei contenuti la stessa pertinenza che avrebbe avuto teorizzare l’alleanza tra nazi-fascismo e comunismo contro i regimi liberali negli anni tra le due Guerre Mondiali.
– La realtà odierna sta dimostrando che il sovranismo “di destra” (neo, post, cripto o para-fascista) e il sovranismo “di sinistra” (comunista o socialista) si dimostrino assolutamente alternativi e inconciliabili sul piano politico. Qualche esempio: in Grecia abbiamo il KKE (Partito Comunista Greco), il quale chiede a gran voce l’uscita dall’UE, ma di certo non si allea con i neo-nazisti di Alba Dorata che rivendicano Costantinopoli. E sempre in Grecia abbiamo Syriza che pur non rivendicando apertamente l’uscita dall’euro e dall’UE si è presentata con un programma di fatto sovranista e “di sinistra”. In Ungheria il sovranismo viene rivendicato solo “a destra” assumendo perciò determinati contenuti. Situazione simile in Francia, dove le rivendicazioni sovraniste sono il cavallo di battaglia del Front National, sebbene qualcosa si muova (sia pur timidamente) anche nel Front de Gauche. In Portogallo al contrario l’unica forza politica che rivendica la sovranità nazionale è il Partito Comunista. Nella Repubblica d’Irlanda, in occasione del referendum sul Trattato di Lisbona, a fare campagna per il no fu esclusivamente lo Sinn Fein. Si potrebbe andare avanti con gli esempi, ad ogni modo in nessun caso si produce una convergenza politica tra sovranisti di sponde opposte, in nessun caso ha preso corpo un movimento sovranista caratterizzato dalla retorica dell’oltrismo.
– Come già detto in apertura, le teorie dell’oltrismo arrivano sempre “da destra”, o per essere più precisi da ambienti neo o post fascisti. Non è inoltre un fenomeno recente, basti pensare a figure chiave della destra radicale del dopoguerra come Thiriart o Freda, e ai vari nazional-bolscevichi, nazi-maoisti ecc. A ben vedere poi, il superamento delle categorie di destra e sinistra è un’idea-forza già dei fascismi storici. Quindi veramente nessuna novità.
In questi ambienti si tende poi spesso ad autoattribuirsi le etichette di socialisti, e in alcuni casi anche di comunisti (vedi il comunismo aristocratico di Freda). Sarebbe poi interessante andare a capire quali sono i contenuti di questo “socialismo”. Le etichette sono solo parole, è la sostanza che conta.
– Anticipando una possibile obiezione credo sia giusto sottolineare come non può essere un argomento il richiamarsi a esperienze come quella del CLN, che non fu né un’associazione, né un movimento, né un partito, né una lista elettorale, bensì un’alleanza puramente tattica (come dimostrato dai posizionamenti prima dell’ascesa del fascismo e durante la Guerra Fredda) tra movimenti politici già esistenti e differenziati ideologicamente e operativamente. Un’alleanza che si produsse in circostanze eccezionali ed estremamente contingenti. Mai è esistita una forza politica che presentasse al suo interno una simile pluralità ideologica e culturale.
Di Michéa lessi, nel 2005, un libro che mi colpì: Il vicolo cieco dell'economia. Sull'impossibilità di superare a sinistra il capitalismo, Eleuthera 2004.
Devo andare a rileggerlo. Forse tante idee, economiche, politiche e morali, che credevo di aver maturato grazie a letture e riflessioni, nonché a dialoghi con alcune persone, in realtà le ho tratte da là. Comunque di questo lungo articolo cambierei tre o quattro frasette.
Trovo espressi perfettamente i problemi, le soluzioni, le defninizioni,la distinzione tra socialismo e sinistra, i quali possono essere storicamente alleati o avversari, perché sono due "ideali diversi". Voglio però precisare che sono parecchio giustificazionista sulla alleanza tra sinistra e socialismo, non soltanto sui primi 70 anni ma anche sul periodo successivo al 1968. Questa è una differenza, ma di poco conto, visto che attiene alla "comprensione" o "giustificazione" di un fenomeno passato, adottando un punto di vista realista – insomma, non poteva che andare così; le voci contrarie sono state poche e flebili.
L'articolo mi conferma che sono necessarie prese di posizione che all'inizio lasciano gli ascoltatori o i lettori perplessi e storditi. Bisogna spostare l'asse della politica. Ruotarlo di novanta gradi e girarlo di altrettanti. Bisogna che si scontrino parti che non si sono mai scontrate e che si incontrino soggetti che sono stati su parti avverse (uno di sinistra con uno di centro; uno di centro con uno di destra; uno di destra con uno di sinistra).
La riconquista della sovranità, che è l'ipotesi politica concreta dalla quale occorre partire è in grado di mescolare le carte. Un antiabortista che vuole riconquistare la sovranità diventa mio alleato. E nella assoluta debolezza della prima ora, nella inesistenza di partiti sovranisti significativi tra i quali scegliere, nel lungo periodo di fondazione della parte sovranista, io e l'antiabortista potremo militare nell'unico Fronte che si andrà formando.
Al contrario i militanti della Federazione della sinistra, di sinistra ecologia e libertà o del partito democratico, i quali sceglieranno di restare in partiti che, per le politiche che perseguono o per quelle che opportunisticamenteaccettano, devono essere considerati a tutti gli effetti antisovranisti, sono avversari politici. Si possono e devono avere buoni rapporti con minoranze interne, naturalmente. Ma questi amici devono sapere che uno dei compiti del fronte sovranista sarà di togliere alla sinistra, compresa quella radicale, il consenso di cui gode. I partiti di questi amici vanno attaccati. Vannno moralmente distrutti agli occhi degli elettori.
E' soltanto uno dei primi "paradossi" ai quali assisteremo. Si intravede sullo sfondo un periodo storico affasciante e che lascia qualche speranza. Rischioso ma anche affascinante e fonte di speranza. Le carte stanno cominciando a mescolarsi. L'asse dello scontro politico ha iniziato a muoversi. Non abbiamo più le vecchie certezze. Quelle certezze erano la forza del sistema; le parole d'ordine sulle quali era fondato il consenso.
Quanta confusione .
E’ vero che per gran parte del XIX secolo furono i liberali ad occupare la parte sinistra dei vari parlamenti , ma questo semplicemente per il fatto che il movimento operaio era considerato illegale . Un po’ come oggi d’altronde : anche oggi la parte sinistra dei parlamenti occidentali è occupata da liberali e anche oggi semplicemente per il fatto che il movimento operaio è considerato illegale ( come sappiamo la maggioranza degli attuali lavoratori non hanno nemmeno il diritto di cittadinanza e dubito che i neofascisti desiderino concedergliela )
Poi … L’idea di socialismo va oltre se mai il rispetto delle tradizioni popolari , perché vorrebbe dire rispettarne anche gli aguzzini e gli sfruttatori ( che fanno parte della amggioranza delle tradizioni popolari ) .
Ultima considerazione … L’idea di progresso del movimento operaio non ha nulla a che vedere con l’idea borghese di progresso . L’obiettivo supremo del progresso per Marx non è la crescita infinita di beni (“l’avere”), ma la riduzione della giornata lavorativa e la crescita del tempo libero (“l’essere”). Nessuno quanto Marx ha denunciato la logica capitalista della produzione per la produzione, l’accumulazione del capitale, delle ricchezze e delle merci come scopo fine a sé stesso. L’idea stessa di socialismo –al contrario delle sue miserabili contraffazioni burocratiche– è la produzione di valori d’uso, di beni necessari alla soddisfazione delle necessità umane .
Ottimi gli interventi di Dario Romeo e Tania .
@Stefano D'Andrea , posso rispettare ( anche se non lo condivido ) il tuo obbiettivo di togliere consenso a Rifondazione Comunista . Quello che non rispetto è il tuo strizzare l'occhio ai simpatizzanti neofascisti per raggiungere quest'obbiettivo .
E non credo nemmeno sia onesto , come argomento del superamento della dicotomia destra/sinistra , continuare a definire il PD di "sinistra" . Poichè il PD ha sposato in pieno il neoliberismo , va da sè che il PD è un partito di destra .
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Aggiungo qualche ulteriore considerazione a quanto già espresso nel mio primo intervento.
La critica della modernità, la critica dell’ideologia del progresso (in quanto strettamente connesse con l’ideologia del capitalismo) sono largamente condivisibili. A patto ovviamente di non buttare via il bambino con l'acqua sporca e di non incorrere nell'errore speculare, quello dell'esaltazione a-critica di scenari da Ancien Régime o suppostamente "tradizionali". E difatti le posizioni Pasolini, di Sorel, della Scuola di Francoforte sono incompatibili con quella di Evola.
In relazione al nome più “recente” tra quelli da me citati, Pasolini ebbe intuizioni fortemente anticipatrici, fu un pensatore per certi versi anche “eretico”, ma mai si sarebbe sognato di teorizzare connubi con neo e post-fascisti nel nome della comune avversione al capitalismo e alla modernità, né di porsi “oltre la destra e la sinistra”. Se ne deduce che a sinistra trovano cittadinanza sia l’ideologia del progresso e l’apologia della modernità, sia la critica (anche radicale) delle stesse.
Destra e sinistra sono infatti categorie plurali, potremmo dire due “contenitori”. L’incompatibilità tra sinistra liberale e socialismo c’è sempre stata, ma il socialismo si è sempre comunque situato a sinistra, una sinistra “altra” rispetto a quella liberale.
Il liberalismo tra l’altro è l’unica grande tradizione politica e culturale che ha trovato cittadinanza sia a destra che a sinistra. La vera novità odierna sta nell’egemonia che attualmente l’ideologia liberale e liberista esercita all'interno di entrambi i campi (il che peraltro è una peculiaritàdei paesi occidentali). Ciò è stato reso possibile dalla “conversione” di molti ex socialisti, comunisti, fascisti, ecc. in liberali. Da un lato è quindi giusto sostenere (oggi come ieri, in verità) la non centralità della dicotomia destra/sinistra. Allo stesso tempo parlare invece di superamento e svuotamento è una interessata forzatura. Se determinate tradizioni politiche (comunismo, socialismo, ecc.) si sono situate a sinistra e altre (conservatorismo, tradizionalismo, fascismo, ecc.) si sono situate a destra, vorrà dire che, sia pure su un piano molto generico (e che poi va di volta in volta riempito di contenuti e contestualizzato storicamente e culturalmente), esiste qualche elemento che può essere considerato come una sorta di minimo comune denominatore utile a definire che cos’è la destra e che cos’è la sinistra. Si tratterà ovviamente di qualcosa non sufficientemente caratterizzante da essere centrale (e infatti la sinistra liberale deve essere considerata –assolutamente al pari della destra liberale– il nemico della sinistra anticapitalista), ma nemmeno così insignificante da giustificare la convergenza politica con antiliberali di matrice fascista o reazionaria.
Anch’io vorrei chiarire un punto . Il dirigismo o il liberismo dello Stato borghese non ha nulla a che vedere con la lotta di classe , ma ha a che vedere con le esigenze del capitale : è il capitale che richiede libertà o l’intervento a seconda delle sue fasi . Il Fascismo è stato , in politica economica , liberista e poi dirigista , ma sempre in funzione della classe dominante .
Come sappiamo la prima fase del Fascismo fu caratterizzata da una linea di politica economica ( gestita dal liberista De Stefani , ministro delle finanze ) ultraliberista . Fase ultraliberista per altro in totale controtendenza rispetto al modello di “stato interventista” rafforzatosi durante la Grande Guerra e sopravvissuto durante i primi anni di pace . Fin dal 1923 vennero radicalmente rimossi i vincoli alla libertà d’impresa istituiti durante la guerra ( le famose “bardature belliche” ) e rafforzati poi nel tentativo di frenare , con un tentativo di equa redistribuzione del reddito , l’ondata rivoluzionaria . Questi gli interventi del comico di Predappio per ripagare i suoi finanziatori : esonero delle tasse sui capitali esteri per favorire gli investimenti ; riprivatizzazione dei telefoni e delle assicurazioni sulla vita nazionalizzate da Giolitti ; abolizione delle imposte sui sovraprofitti di guerra , sui capitali delle banche e delle industrie , sulle successioni ; abolizione della nominatività dei titoli , del blocco dei fitti e delle tasse sulle fusioni delle società : queste le principali misure a cui si devono aggiungere i massicci interventi statali diretti ad incoraggiare gli investimenti privati e le operazioni di salvataggio in campo bancario e industriale ( Banco di Roma e Ansaldo ) . Politica filo padronale agevolata dalla costante riduzione dei salari in conseguenza della messa fuori causa dei sindacati e del movimento operaio .
Ma il passaggio , attorno al ’27-’28 , dalla fase liberista a quella dirigista fu semplicemente una conseguenza della crisi delle esportazioni iniziata dal ’25-’26 : le economie europee , che assorbivano le esportazioni italiane , incominciarono a mostrare i segni di una tendenza al ristagno , con una netta contrazione del commercio , una crescita della disoccupazione , dell’inflazione eccetera .. Da qui la decisione di fissare il cambio della lira con la sterlina a “quota 90” , poi l’inevitabile economia “di guerra” eccetera eccetera .
Infatti , cari sovranisti (??) , cosa potrà mai fare uno Stato borghese quando diventa dirigista ? Ma la guerra.. cosa , se non la guerra !?! Ripetete con me : l’unica cosa che uno Stato dirigista borghese può fare è la guerra , la G-U-E-R-R-A .
Ma questo non lo sostiene una comunista libertaria che considera ambigui ( oltre che liberali di destra , ora spiego ) chi preme per il superamento della dicotomia destra/sinistra . Questo lo sostiene Adam Smith nel 1776 , con “La Ricchezza delle Nazioni” , quando teorizza le due vie che può percorrere lo Stato rispetto all’economia : la via “naturale” , dove lo Stato non esagera , non forza gli scambi nemmeno con l’estero , stà in equilibrio rispetto all’economia ; e poi c’è la via che definisce “innaturale” ma possibile , che è quella violenta , in cui lo Stato apre gli spazi all’economia distruggendo quello che incontra : guerra interna e poi esterna . Traduzione marxiana : caduta tendenziale del saggio di profitto . Quindi nessun liberale classico ha mai negato la presenza dello Stato : questa è l’idea neoliberista , ma i fascisti erano dei liberali classici , prima liberisti , poi interventisti . Ed erano “liberali classici” più a destra di molti “liberali” come B.Croce ad esempio che , come sappiamo , in una famosa lettera ad Einaudi argomenta la sua simpatia per comunisti e socialisti .
Non credo abbia senso definirsi “sovranisti” , se non si chiarisce da chi ( da quale classe sociale ) , e in che modo , per quali scopi ( ad esempio : cooperazione con le classi lavoratrici degli altri paesi , oppure priorità agli interessi della “Nazione” ? ) venga gestita questa “sovranità” .
Fabio, il KKE non ha fatto altro che parlare contro syriza. Mentre quest'ultima, che prendeva voti anche verso il centro, accusava anche il KKE. Craxi criticava soprattutto il PCI come Mitterand il PCF. La critica politica volta ad attrarre consenso è sempre destinata ai simili o ai meno dissimili o ai confinanti. Perciò, se Rifondazione e il PDCI dovessero accettare per l'ennesima volta alleanze antisovraniste e, se non liberiste, non contrARIE A RIMUOVERE I PRESUUPOSTI CHE RENDONO IL LIBERISMO OBBLIGATORIO, QUEI DUE PARTITINI DOVRANNO ESSERE DISTRUTTI, DIREI DALLE STESSE PERSONE CHE ANCORA VI MILITANO E LI VOTANO.
Non so dove hai visto che io strizzo l'occhio ai neofascisti. Io non ne conosco nemmeno uno, forse uno che ha quasi cinquanta anni. A me interessano le persone che incontro all'università, al bar, alla villa, in birreria, i clienti. Non so mai o quasi mai a quale partito appartengono. Spesso credo che non abbiano militato in alcun partito negli ultimi venti anni. Parlando, alcuni rivelano di aver capiuto che siamo in una trappola; che abbiamo commesso errori e dobbiamo tornare indietro; che l'euro non funziona. Questi mi interessano. Da come parlano credo che davvero nessuno sia neofascista. Magari hanno votato forza italia; o non hanno votato per dieci anni; o avevano lo zio del CCD e in famiglia hanno votato sempre per questo partito; o magari il padre ancora si dice democristiano. O sono figli di craxiani anticomunisi; o hanno votato sempre il partito della pagnotta e adesso, siccome sono intelligenti, vedono che in gfiro non ce ne è nemmeno uno; o sono piddini (ma questi sono davvero i più duri da persuadere anche soltanto un poco). Queste persone, quando si mostrano disposte a discutere di riconquista della sovranità, di costituzione, di protezionismo, del male derivato dall'accoglimento del principio della concorrenza, mi interessano politicamente. Così come mi interessano i (invero pochi) compagni che per ora sanno mettere in discussione quelli che per loro sono stati lunghi dogmi.
Fabio, non facciamo l'errore di chiamare tutto con il termine neofascismo. Ho scritto più volte e lo ripeto che mi interessa potenzialmente il 95% degli italiani. Non mi interessano nné i neo fascisti né gli stanchi sostenitori della dittatura del proletariato. Mi interessano tutti coloro che vogliono abbracciare una prospettiva democratica, costituzionale, repubblicana e in senso lato socialista; tra questi considero potenziali alleati tutti coloro che hanno compreso che l'Unione europea è il primo grande ostacolo e va rimossa (almeno per tornare al mercato comune). Io avevo un compagno di scuola antiabortista, che allora era figlio di un democrtistiano. Ora credo non sia più antiabortista e vota certamente pd. Mica ogni antiabortista è un neofascista.
Il mio insistere su questo punto vuol significare che un cittadino che è per un economia sociale e popolare, non improntata al principio della concorrenza ma del sano lavoro e della protezione dei soggetti economici tutti, se è favorevole ad abbandonare o distruggere il mercato unico europeo e a riconquistare la sovranità economica e se è favorevole ad abbandonare la NATO e la politica nazista che da tempo la nato va applicando, se è democratico e non è razzista è un mio potenziale alleato, qualunque disciplina (ovviamente non nazista) voglia introdurre relativamente agli extracomunitari, agli omosessuali e alla procreazione assistita. Chi invece muove da posizioni a me contrarie e vuole più europa, è un avversario politico (ovviamente spero sempre che cambi posizione).
Lo ripeto per l'ultima volta. Mi interessa il 95% degli italiani. Come non tutti coloro che si dichiarano di sinistra sono comunisti sono fascisti, allo stesso modo non tutti quelli che si dichiarano di destra sono fascisti (io conosco molti che si considerano di destra ma nessun fascista). Soprattutto mi interessa il quaranta per cento degli italiani che si dichiara di centro o disinteressato alla politica o disposto a seguire chiunque lo convince. Mi interessano poco i militanti incalliti, questo si, di sinistra, di centro e di destra. Quelli ho visto che non li smuovi. Sono naturalmente e logicamente settari. E cercare di persuaderli e rivolgere il lavoro politico nei loro confronti è tempo perso. Purtroppo non mi interessa politicamente, sia chiaro, nemmeno Tania, con la quale abbiamo dialogato diverse volte. La sua visione del comunismo è quella che io avevo venti e più anni fa. Mi sembra fuori del tempo, inefficace, contraddittoria, con un internazionalismo che è davvero cosmopolitismo (Tania stima Negri). Ecco Toni Negri è certamente un mio nemico politico. Già in altra occasione dissi a Tania che a mio avviso è un liberale che non vole esserlo soltanto sul piano economico (concetto che ho ritrovato nell'articolo che stiamo commentando); e che rispetto a questi liberali dimediati preferisco quelli integrali che mi sembrano più coerenti.
Fabio, pensa al 95% degli italiani, esclusi i pochi militanti incalliti che saranno gli ultimi ad abbandonare la nave sulla quale stanno affondando (e quando l'abbandoneranno stanne certo non riconosceranno ad altri alcun primato; saranno sempre sulla cresta dell'onda, fedeli alla nuova linea). Se negli anni a venire si riesce a parlare a quella massa, i migliori si uniranno. Invece qualsiasi discorso limitato ai comunisti o ai socialisti o a coloro che vogliono far entrare tutti gli stranieri o che vorrebbero far adottare bambini a coppie di omosessuali o single o che sono per il congelamento degli embrioni, ecc. ecc. mi sembra un discorso di nicchia e da setta fanatica. Perciò non mi interessa.
L’articolo mi sembra interessante e convincente nella parte in cui chiarisce come si sia arrivati storicamente alla distinzione di destra e sinistra, ma soprattutto quando: le due categorie, che non esistevano nel periodo della rivoluzione francese, cominciarono a essere usate nel tardo Ottocento. Dunque i socialisti delle origini e i pensatori del socialismo non si definivano di sinistra; semplicemente non erano nè di sinistra nè di destra, ma erano coscienti che la borghesia liberale, che sfruttava gli operai, era la stessa che esaltava I valori di “progresso”. I primi socialisti accettavano passato, il principio «comunitario» (la Gemeinwesen di Marx) e i valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società»(Pierre Leroux, teorico socialista) . Molte rivolte popolari cominciavano con la volontà di difendere le consuetudini e le tradizioni popolari contro la Chiesa, la borghesia o i principi.
L’articolo dimostra inoltre come i primi socialisti sono arrivati all’internazionalismo. Non si può evitare di citare per esteso: «sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali» «… solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità». «….il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista». Il patriottismo non deve essere confuso con il nazionalismo (di destra»), così l’internazionalismo non deve essere confuso con il cosmopolitismo (di «sinistra»).
Alla luce di queste premesse storiche e ideali credo che oggi non sia utile chiedersi se gli antiliberisti e gli antiglobalisti arrivino da destra o da sinistra. Se oggi i rapporti di forza sono sbilanciati a favore del capitalismo globale e immorale, mi chiedo se i sovranisti possono permettersi il lusso di allontanare i nostalgici del fascismo e del comunismo. Se un nostalgico di qualsiasi sponda si avvicina alle idee sovraniste ispirate ai valori nazionali e ai principi di economia sociale e solidale della Costituzione della Repubblica, significa che ha già rivisto profondamente i suoi punti di riferimento e il suo sistema di valori; e lo dovrà dimostrare nei nei fatti, nell’impegno e nella concreta azione politica. Non cambiamo solo le società, ma anche gli individui. Perché discriminarli? Fascismo e stalinismo sono storicamente finiti. Per motivi anagrafici, pochi dovrebbero essere i nostalgici. Oggi, più che di nostalgici bisognerebbe parlare di odierni infatuati.
Non so se il superamento delle categorie di destra e sinistra sia un’esigenza o un trascurabile problema dei nostri giorni, però non dimentichiamoci che in altri momenti della nostra storia l’idea non fu estranea e nemmeno ignorata da qualche importante personaggio. Ricordiamo dunque l’appello del Partito Comunista ai fratelli in camicia nera (1936): “facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori; camicie nere ed ex combattenti e volontari d'Africa, vi chiediamo di lottare uniti per la realizzazione di questo programma (…). Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi, fascisti della vecchia guardia e giovani fascisti, per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale dei lavoratori e del popolo italiano. Diamoci una mano, fascisti e comunisti,cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni.Palmiro Togliatti.”
Con buona pace di chi vuole mantenerle e di chi vuole superarle, destra e sinistra, come tutte le categorie e gli schieramenti politici, saranno abbandonate dalla storia. Oggi non ci si divide tra guelfi e ghibellini; tra bianchi e neri; tra plebei e patrizi; e forse neanche più tra borghesi e proletari. Ancora qualche annetto e la globalizzazione ci dividerà tra nativi e immigrati; tra migranti e stanziali. Sorgeranno nuove classi sociali e dunque nuove contrapposizioni politiche. Quasi non esistono più i capitalismi nazionali, se non nei paesi emergenti. E dunque a quali appartenenze guarderà l’individuo? non certo a quella della classe sociale o del ceto professionale. Nessuna appartenenza a un gruppo definito per reddito o mestiere è duratura, se non altro per il fatto che ogni individuo tende a passare, se gli riesce, dalla sua classe sociale a un altra che lo contraddistingue per il maggior censo. La classe sociale vissuta come una gabbia da cui fuggire. Chi davvero vorrebbe radicarsi in una classe? E dunque, per il proprio equilibrio psico-fisico (e oserei dire per la propria felicità), sembra valere più l’appartenenza a un popolo e a una nazione, a una lingua e cultura, a una tradizione e a legami “terragni” sincronici e diacronici, che non a classe o a un ceto, questi sì sabbie mobili, evanescenti e scivolose, labili.
Fabio ,
è vero che ho stima per Negri ( che come saprai è comunista , non certo liberale ) , ma ovviamente non sono d’accordo con tutte le sue posizioni e ovviamente ho stima per tantissimi altri autori , più di Negri . Molto volte mi è capitato perfino di aver stima ed essere stata d’accordo con Stefano D’Andrea , anche se è vero che siamo fondamentalmente su idee inconciliabili .
Luciano Del Vecchio ,
Per molti secoli la Spagna meridionale era più legata al Marocco che all’Europa ; in Inghilterra la dinastia regnante parlava il franco-normanno e stava per consolidare l’unione fra i domini normanni e inglesi e quelli posseduti sul lato atlantico della Francia ; i legami fra la Catalogna e la Linguadoca erano ben più forti di quelli che l’una e l’altra avevano con la Spagna e con la Francia ; l’unione Castiglia-Portogallo poteva realizzarsi al posto di quella Castiglia-Aragona e lo stesso vale per quella tra Borgogna e Paesi Bassi al posto di quella tra Francia e Borgogna eccetera eccetera . Ti assicuro che potrei continuare così per tutte ( tutte ) le nazione inventata del mondo ( come conseguenza di rapporti di dominio commerciali è anche la lingua “nazionale” italiana che stai utilizzando , come tutte le altre lingue “nazionali” )
E non so se l’idea di destra e sinistra “saranno abbandonate dalla storia” ( dipende sempre se esisteranno ancora forme parlamentari di rappresentanza , e se queste forme parlamentari dovranno rappresentare ancora una qualsiasi forma di società divisa in servi e padroni ) … So però che una cosa che la storia abbandonerà certamente saranno le balle sulle “identità nazionali”. L’unica “appartenenza” che un essere umano , che voglia definirsi tale , dovrebbe sentire è quella che lo lega al bambino del Sud-Est Asiatico che gli fabbrica , a 2 € al giorno , i tasti del computer che gli permettono di blaterare su internet di “appartenenza a un popolo e a una nazione, a una lingua e cultura, a una tradizione e a legami terragni sincronici e diacronici, che non a classe o a un ceto, questi sì sabbie mobili, evanescenti e scivolose, labili”
PS : Ultima nota . Come saprai i Socialisti entrano in parlamento a fine ‘Ottocento : è per questo che prima di allora la distinzione destra/sinistra non aveva senso per il movimento operaio . E con buona pace per te l’idea di progresso in Marx è antitetica a quella borghese .
Tania e Luciano, vi ringrazio, per esporre posizioni estreme.
Però, non le condivido, forze per carattere più che per scelta ideale.
Pur cercando di essere un uomo, non mi sento di "appartenere" a una comunità di cui fa parte il bambino che guadagna due euro al giorno. Spero che quel bambino abbia coraggio; mi auguro che abbia capacità di sacrificio; che, sentendosi parte di un gruppo politico stanziato su un territorio, avverta l'esigenza di organizzare diversamente quel gruppo politico, per far sparire il lavoro minorile e per altro. E francamente non mi sento "più cattivo" o meno buono (il buonismo è pericoloso e sospetto in tutte le sue forme, non soltanto nella forma piddina) di chi invece, quasi miracolosamente, direi per grazia divina, si sente di appartenere a quell'inesistente gruppo.
D'ltra parte, muovo da una definizione giuridica di popolo e di stato. Guardo al futuro dei figli, piuttosto che al passato dei nonni. E mi volto indietro per vedere se in un periodo della nostra storia rintraccio una norma giusta ed efficace, non al fine di ammirare la tradizione. Voglio indagare e scoprire il passato, perché mi può essere utile nel futuro, non voglio inneggiare al passato per partito preso.
Quanto ai neofascisti, credo che davvero esista un'ossessione molto diffusa. Ogni giorno ne traggo conferma.
Luciano scrive: "Alla luce di queste premesse storiche e ideali credo che oggi non sia utile chiedersi se gli antiliberisti e gli antiglobalisti arrivino da destra o da sinistra"
Su questo punto non vi è alcun dubbio. Non soltanto è irrilevante la provenienza da destra e da sinistra; bensì qualsiasi provenienza. Accolte le idee del Documento dell'ARS, il soggetto che proviene dalla sinistra estrema o dalla destra estrema, non è più sé stesso. Certo che l'accolgo. Accolgo la nuova persona, che è diversa o sta tentando di essere diversa.
Invece sono in completo disaccordo con la seguente frase: "mi chiedo se i sovranisti possono permettersi il lusso di allontanare i nostalgici del fascismo e del comunismo". Certo che possono: devono. I nostalgici non servono. Hanno problemi psicologici; scelte linguistiche e caratteriali che non riescono ad abbandonare. E vogliamo caricare su di noi il peso di questi soggetti deboli? Costringerci a parlare con loro?
No, non abbiamo tempo da perdere. C'è il 95% del popolo italiano da sondare, da sobillare, da persuadere, da contattare. Francamente dei nostalgici, di coloro che hanno le orecchie foderate e gli occhi bendati, e che parlano una lingua vecchia, non ricca e incapace di inquadrare i problemi, non me ne fotte nulla.
Stefano,
riconosco d'essermi spiegato male, o non a sufficienza. Intendevo dire: nostalgici non più tali. Non più tali per il motivo che, avvicinandosi alle idee e alle proposte dell'associazione sovranista, hanno accettato di riconoscersi nei principi della Costituzione e dunque nell'idea di sovranità così come è definita nella Costituzione, e non come la può intendere una dittatura fascista o comunista. Riconosco che un individuo nel corso della sua esistenza possa mutare opinione, specialmente chi è considerato impropriamente un nostalgico, essendo nato nei decenni successivi alla fine delle dittature della prima metà del '900 o, vissuto in un paese libero, non può dunque coltivare nostalgia, se non di maniera, di regimi che non ha mai conosciuto.
Tania,
gli esempi che porti mi sembra si riferiscano tutti a "lavori in corso", in corso di formazione storica di stati e nazioni. In questa fase tutti gli stati, i popoli e le nazioni sembrano inventate, ma poi alla fine, prima o poi, si "sistemano", si aggregano, si sedimentano. Fai riferimento , giustamente, alla lingua, che è certamente uno dei fattori, non il solo, che concorre a formare un popolo. Tieni anche conto che quegli stati che oggi appaiono trasversali a questi storicamente formati, allora erano proprietà privata di famiglie regnanti, che si spartivano popoli e nazioni a loro arbitrio. E comunque, se tutti i popoli e le nazioni sono inventati, non c'è motivo di appassionarsi alla sorte degli irlandesi, o dei palestinesi, dei baschi o dei ceceni, dei siriani o dei venezuelani. Ogni popolo, al suo interno, è fatto di classi e ceti, e per mantenere un certo grado di civiltà, deve imporsi la giustizia sociale. Ma, opporsi al capitalismo finanziario transcontinentale e globalista, volere il protezionismo e la tutela del lavoro, ha senso se esistono gli stati e i popoli. Se questi non esistono, se sono stati inventati, se tutti non siamo altro che individui isolati e sradicati, abitanti per caso su un territorio, parlanti per costrizione una lingua, consumatori compulsivi di merci e noi stessi merci in offerta, non altro che tubi digerenti, perché mai dovrebbe dispiacerci il dominio illimitato del capitale? Se non abbiamo valori da perdere… dovrebbe bastarci la carta di credito su circuito internazionale.
Innanzi tutto l’articolo è una recensione dell’opera saggistica di Jan-Claude Michéa da parte di Alain de Benoist, per cui non sono le opinioni di de Benoist anche se sostanzialmente possono coincidere.
Quindi – PER DARIO – non capisco il riferimento al”solito "oltrismo" tanto in voga a destra”. Basterebbe infatti leggere la biografia di Michéa per rendersi conto di quanto sia per nulla accostabile alla destra ( per me non lo è nemmeno de Benoist ma è chiaro che a molti fa comodo sostenerlo = divide et impera ).
D’altra parte le citazioni a sostegno delle tesi di Michéa non sono né di Evola né, tanto meno, di De Maistre ma di veri socialisti e veri comunisti.
Nel merito del contenuto, avevo preparato una disamina dettagliata dei passaggi più importanti e ne avevo individuati ben dieci ( il solito fatidico numero ) ma mi sono subito reso conto di correre il rischio di scrivere un commento lunghissimo, impraticabile.
Poi ho letto quello , non breve, di Luciano e ho deciso di dichiarami sostanzialmente d’accordo con lui.
Aggiungo soltanto di aver trovato assolutamente formidabile il recupero di common decency di Orwel nel senso di quelle virtù elementari del popolo ( senso dell’onore, fedeltà, lealtà, solidarietà, generosità, etc ) la cui dimenticanza, rifiuto o disprezzo sono sempre stati il segno distintivo delle ideologie e degli uomini di potere.
E credo che sia stato il dissolvimento di questa common decency– la quale potrebbe dar coscienza ad un vasto fronte di opposizione – sotto i colpi dell’individualismo e del libertarismo a lasciare oggi campo aperto alla dittatura del capitale.
PS : ho ordinato L’impero del male minore di Michéa e domani me lo consegneranno; non vedo l’ora di iniziare la lettura.
Ho riletto il primo commento di Dario, dopo che egli ha scritto su facebook di non aver avuto risposte. Non ho replicato perché sono d'accordo con l'assunto fondamentale che consiste nella diversità radicale, nelle esperienze storiche recenti, nei vari paesi d'europa, di quello che Dario chiama il sovranismo di destra e il sovranismo di sinistra. Si tratta di due strade per ora perdenti. E sinceramente mi verrebbe voglia di pensare a un sovranismo di centro:)
Il mio dissenso riguardava la lettura di Dario, secondo la quale Michéa proporrebbe un'alleanza o addirittura una riunione del sovranismo di destra e di sinistra. Invito Dario a rileggere l'articolo. Michéa non ha proposto nessuna alleanza o riunione. Qui non c'è dissenso. Credo proprio che Dario abbia dato l'interpretazione sbagliata. Non credo che Michéa abbia proposto un'alleanza tra il Fronte de Gauche (il più sovranista nello schieramento di sinistra) e Marine Le Pen.
Il dissenso riguarda, ovviamente, anche l'idea che si tratti del "solito oltrismo" di destra, sia perché Michéa ha una storia tutta di sinistra, sia perché non propone di andare oltre. Il titolo della recensione, che probabilmente è di De Benoist è a mio avviso impreciso. Non riflette il contenuto dell'articolo e men che mai, credo, del saggio di Michéa, almeno come esso è descritto nella recensione.
Mi sembra che il saggio dica qualche cosa che anche io ultimamente ho ripetuto in modo grezzo: mi dichiaro socialista ma non di sinistra (di destra o di centro). Insomma socialismo signifca alcune cose. Essere di sinistra ne significa altre. I due profili non si sovrappongono e dunque non consentono un giudizio di compatibilità-incompatibilità, perché riguardano piani diversi. Storicamente c'è stata un'alleanza tra i due profili che è via via divenuta un mescolamento nelle posizioni di ogni militante, che era sia socialista che di sinistra, fino al tempo presente quando il militante è semplicemente di sinistra (ossia progressista) ma non più socialista (a parte sparute minoranze). Non mi sembra che questo profondo, chiaro e credo addirittura incontestabile ragionamento possa essere considerato il solito oltrismo.
Ho il sospetto che ciò che propone Michéa sia tutta un'altra cosa. Anche io voglio leggere il libro. Ma dalla recensione non emerge nulla di ciò che Dario attribuisce a Michéa. Per utilizzare uno slogan, Michéa propone non il sovranismo di sinistra né quello di destra, né una commistione: propone un sovranismo socialista, che non ha nulla a che fare con Alba d'oro o Syriza e che avrebbe alcune cose a che fare con il KKE.
L'unica frase di Michéa che forse Dario potrebbe citare è quella finale: "Poco importa, in verità, sapere da quale tradizione storica ciascuno ha tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare i principi della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente violazione ad opera del sistema capitalistico". E' chiaro che qua il concetto fondamentale è la "decenza comune", un concetto che va indagato e sviscerato. Ma non si parla di alleanza o di complementarità del sovranismo di destra e di sinistra; né di superamento. Si parla di ritrovarsi su alcune idee, che sarebbero le antiche idee del socialismo – non opposte a quelle del progresso ma diverse e che nulla hanno a che vedere con queste ultime – senza che rilevino le particolari ragioni che all'esito di un percorso politico abbiano condotto ad accogliere quelle idee.
Scrive Stefano:
"Insomma socialismo signifca alcune cose. Essere di sinistra ne significa altre. I due profili non si sovrappongono e dunque non consentono un giudizio di compatibilità-incompatibilità, perché riguardano piani diversi. Storicamente c'è stata un'alleanza tra i due profili che è via via divenuta un mescolamento nelle posizioni di ogni militante, che era sia socialista che di sinistra, fino al tempo presente quando il militante è semplicemente di sinistra (ossia progressista) ma non più socialista (a parte sparute minoranze). Non mi sembra che questo profondo, chiaro e credo addirittura incontestabile ragionamento possa essere considerato il solito oltrismo."
Mi permetto di dissentire. Il fatto che NON CI SIA più la sinistra, come ho tentato di spiegare più volte, rimette in discussione questi ragionamenti. Ci sono, è vero, un sacco di persone che si professano di sinistra. Ma alla verifica dei fatti (quando ad esempio sostengono le missioni di peace-keeping, splendido carpiato semantico) non lo sono. Ci sono radici storiche che identificano il percorso politico della sinistra. Le strade che vedo attualmente percorse dai partiti "di sinistra" vanno in tutt'altra direzione. Quindi o accettiamo (tesi neocon) che la sinistra è questa, uguale alla destra, oppure esiste ancora una memoria storica di ciò che è la sinistra e non coincide minimamente con i fatti politici recenti. Più semplicemente così come la sinistra è stata fatta sparire da destra (la citata Notte dei lunghi coltelli) è stata fatta sparire da sinistra, con il PSI di Nenni che si trasforma nel PSI di Craxi (che spiana la strada a Berlusconi) ed il PCI di Berlinguer che diventa il PD di Bersani.
Non so quindi come si possa essere di sinistra senza potersi individuare in un partito, dato che tutti i partiti sono attualmente di centro. E' un fatto abbastanza univoco nella storia della nostra Repubblica.
@ Emilio: assolutamente d'accordo che bisogna recuperare quel senso comune che una volta valeva più di ogni legge scritta.
Ricordiamoci però che "Meine Ehre heißt Treue"«Il mio onore significa lealtà» era il motto in rilievo sulla fibbia della cintura delle SS.
In una sola frase abbiamo due dei citati valori da recuperare. Tutti con la fibbia delle SS quindi?
Luciano Del Vecchio ,
Le “tradizioni popolari” ( che non c’entrano nulla con il concetto inventato di “nazione” ) non sono affatto anticapitaliste . Quasi tutte contengono strutture sociali di dominio volte al profitto .
Forse volevi riferirti alle “colture tradizionali” , quelle non soggette a coltura intensiva , biologiche , a km 0 , che favoriscono la biodiversità , che seguono le stagioni eccetera eccetera . Ecco queste vanno certamente in una direzione anticapitalista perché , oltre ad essere salutari e incoraggiare la cooperazione e la convivialità , danno una bella sberla in faccia al processo della mercificazione capitalista .
Ma questo non c’entra nulla con le “tradizioni popolari” nel loro complesso . Il “popolo” , le “tradizioni popolari” contengono anche gli aguzzini , la classe dominante , contengono strutture sociali perfettamente capitaliste : soprattutto da noi e nel cosiddetto ex "Occidente" ( nel senso che ormai quasi tutto il mondo si è occidentalizzato ), che ha una "tradizione" particolarmente adatta al capitalismo ecc.. : nelle facoltà di storia in USA , per riassumere questo concetto si usa dire ”From Plato to Nato” (da Platone alla Nato ),
Comunque , rimanendo in tema di “colture anticapitaliste” , l’associazione “Campi Aperti” , http://www.campiaperti.org/ , alla quale le poche volte che posso dç una mano , è composta tutta da compagni . E tutti amici che odiano il PD , che sanno che non esiste una vera sinistra degna di questo nome , ma che sperano rinasca ( alla faccia di Stefano D’Andrea .. scherzo )
@ Tonguessy
Francamente la tua osservazione mi sembra una provocazione dialettica.
Potrei chiederti quale potere non si sia servito di parole d’ordine positive per perseguire il proprio scopo di dominio.
Chi si presenterebbe dichiarando sterminerò i kulaki o gli ebrei?
Per rimanere in tema, in 1984 la guerra è pace.
Ma è appunto perché il popolo perde ( forse sarebbe meglio dire che gli viene tolta ) la common decency che questi inganni riescono.
Almeno così io credo…e spero.
@ Stefano
La mia opinione è che, in realtà, nessuno autenticamente al servizio della politica ( amministrazione per il bene di tutti ) possa aprioristicamente definirsi di destra o di sinistra in modo assoluto e definitivo.
E’ di destra o di sinistra secondo i tempi, i luoghi, le circostanze e le diverse realtà con cui ha a che fare.
In ultima analisi, le nozioni di destra e di sinistra hanno un’importanza molto relativa e ciò che è capitale è realizzare una sintesi vitale dei diversi elementi ( libertà e autorità, eguaglianza e gerarchia, iniziativa economica libera e utilità sociale, proprietà privata e sua funzione sociale ) che le due opposte ideologie ricoprono.
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@ Stefano
Cosa c'è scritto nell'articolo? Ciò significa che tra borghesia di destra e borghesia di sinistra, entrambe eredi della filosofia liberale dei Lumi, ci saranno sempre più affinità oggettive che tra ciascuna di queste borghesie e gli antiborghesi del loro campo. E viceversa, che esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice, si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra.
Cosa ho scritto io nel mio commento? Si parte da un'analisi condivisibile sulle trasformazioni degli spazi politici di "destra" e "sinistra" e dell'egemonia che il liberalismo esercita ormai su di essi. La conseguenza è che oggi, nelle cosiddette democrazie bipolari o bipartitiche, la dicotomia destra/sinistra non costituisce in nessun modo una linea di frattura politica, nonostante sia assolutamente centrale sul piano elettorale. Sin qui –come detto– l’analisi è condivisibile.
Dopodiché però si arriva alla solita conclusione secondo cui, a fronte di una sostanziale convergenza tra destra liberale e sinistra liberale, si renderebbe necessario un analogo avvicinamento tra destra antiliberale e sinistra antiliberale. La tesi, a una lettura superficiale, può certo risultare sensata e convincente. Tuttavia, se si prova a entrare nel merito, rivela tutta la sua inconsistenza e la sua fallacia.
Dopidiché ho motivato per punti la mia posizione. In uno di questi ho affrontato il discorso sul sovranismo, dal momento che è un ambito pratico su cui si misura la plausibilità delle tesi che l'articolo affronta da una prospettiva più generale. E soprattutto dal momento che nell'ambito dell'ARS la tua idea è quella di unire tutti i sovranisti, indipendentemente dal modo in cui declinano il loro sovranismo. Ora, i fatti dicono che le tesi di De Benoist, di Michéa, tue e di tanti altri non trovano una corrispondenza nella realtà.
@ Emilio
L'idea del superamento delle divisioni destra/sinistra (ciò che ho definito con questa brutta parola, "oltrismo") è storicamente un elemento centrale del bagaglio politico di tanta destra radicale (fascismo, neo-fascismo, ecc.). Questo è un fatto, non una mia opinione. Ho citato vari esempi, ma se ne potrebbero fare altri. Al contrario queste tesi non hanno mai avuto grande fortuna "a sinistra", e anche questo è un fatto. L'adesione di alcune singole figure (non c'è solo Michéa, se è per questo) non muta la sostanza del discorso.
L'articolo è scritto da De Benoist, il quale parla del libro di Michéa perché evidentemente ravvisa una corrispondenza con le tesi da lui sempre sostenute. Dopodiché ci sarebbero varie osservazioni da fare nel merito: che ai primi socialisti non importasse nulla dell'etichetta di sinistra mi sembra fuori discussione, e lo stesso si può dire per i comunisti. E difatti la contraddizione destra/sinistra non è centrale e spesso non lo è stata nemmeno in passato. Chi crede nella sua centralità accetta la logica del bipolarismo. Non è né il mio caso, né quello di indipendenza, né quello di nessuno che graviti intornoad ARS. Tuttavia, il fatto che i primi socialisti e non si definissero di "di sinistra" non fece mai in modo che pensassero di trovare convergenze con chi si proponeva di combattere il capitalismo borghese da una prospettiva tradizionalista o reazionaria. Il fatto che ai comunisti non importasse nulla della categoria "di sinistra" nom non fece mai in modo che si alleassero coi nazi-fascisti contro i regimi liberali. Non a caso quella che poi è divenuta la sinistra di matrice socialista e comunista è assai differente da quella liberale (che sarà anche quella egemone oggi nei paesi occidentali, ma non è LA sinistra). Anche in questo caso dunque l'affermazione secondo cui esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice, si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra non sta in piedi.
So bene poi che De Benoist rifuta l'etichetta di "destra", tuttavia le idee-forza che su cui si fonda il suo pensiero politico sono sempre le stesse: Impero, Europa, comunitarismo (negli ultimi anni si è aggiunta a dire il vero anche la decrescita). È su questi contenuti che si fonda il dissenso mio e di Indipendenza, non sulle etichette o sul suo passato politico.
A tale proposito faccio una riflessione. Colpisce che proprio coloro i quali teorizzano l'esaurimento e lo svuotamento delle categorie di destra e sinistra finiscano con l'utilizzarle costantemente, attribuendo ad esse significati e valenze in maniera piuttosto arbitraria, senz tenere conto della pluralità di queste due categorie. Non è mai esistita LA destra e LA sinistra, bensì LE destre e LE sinistre. In relazione a questo ripropongo la risposta che ho dato a Luciano Dl Vecchio su fb, sempre in merito a questa discussione: Dici di apprezzare il passaggio dell'articolo in cui si sostiene che i primi socialisti non erano né di destra né di sinistra, dal momento che non avversavano il passato, le tradizioni, le radici e l'appartenenza ad un popolo. Mi sembra perciò di capire che a tuo giudizio l'idea di radicamento non possa mai stare "a sinistra", cosa che però è smentita dai movimenti di liberazione nazionale e da varie figure intellettuali che da sinistra hanno criticato l'ideologia del progresso (Sorel, Scuola di Francoforte, Pasolini, Latouche, ecc.). Se fosse come dici tu la "vera" sinistra sarebbe quella liberale e liberista (nella quale andrebbe inclusa perciò anche la destra mainstream), e gli anticapitalisti sarebbero da considerare, a seconda dei casi, o né di destra né di sinistra oppure apertamente di destra. Questo perché l'equazione che mi sembra tu faccia (tutto sommato in linea con l'articolo che ha originato la discussione) è sinistra=ideologia del progresso, globalismo e sradicamento, contrapposta a destra=radicamento e critica della modernità. In realtà "progresso" e "conservazione" sono stati di volta in volta rivendicati e/o criticati sia da destra che da sinistra. Il punto è che al di là delle etichette sovrastrutturali valgono i contenuti strutturali che si danno alle categorie.
Dario, "si renderebbe necessario un analogo avvicinamento"?
Non mi sembra che nella recensione sia scritto questo. Sibbene: «Poco importa, in verità, sapere da quale tradizione storica ciascuno ha tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare i principi della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente violazione ad opera del sistema capitalistico»; oppure: " esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice. si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra" (nota: "si situino a sinistra" o "provengano da destra"). Ti sembra la stessa cosa? A me no. A me sembra che tu hai voluto far dire a Michéa ciò che tu temi.
Soprattutto nella recensione c'è molto altro, che a te interessa poco e che tuttavia suppongo sia il cuore del libro di Michéa, che ora coorre leggere.
@Dario
se de Benoist parla di Europa non è per preclusione verso l'universale, anzi è il contrario.
Perchè è soltanto con le radici ben ancorate nella propria cultura che ci si può confrontare con l'altro in un rapporto interculturale che ravvivi le reciproche identità ( C'è poi anche l'idea che la cultura millenaria dell'Europa, se recuperata, possa ancora arginare l'americanizzazione dilagante ).
A questo proposito, in un saggio sull'ideologia dell'identico, de Benoist sostiene appunto che le identità non sono acquisite una volta per sempre ma si arricchiscono nell'incontro-rapporto con l'altro, il diverso.
Ed è una delle sue maggiori critiche al mondialismo di stampo liberale-americano che invece tende ad omogenizzare ogni cultura, appunto l'ideologia dell'identico.
Aggiungo, per ulteriore chiarezza, che il titolo originale dell’articolo, pubblicato su Diorama, è semplicemente “ Jean-Claude Michéa”, nella rubrica “Profili”.
Saluti, Emilio.
@Emilio:
la mia era chiaramente una provocazione. Dato i tempi che viviamo sono ben contento che gli uomini ricomincino a considerarsi tali e quindi facciano buon uso di parole e mezzi.
La verità storica però mostra ben altri e preoccupanti aspetti.
Dobbiamo tenerne conto per evitare che cose pratiche come saper vivere in comunità si trasformino in abusi approfittando delle stesse parole, svuotate dei significati originali.
Non ti sembra che ormai gli scaffali dei significati siano stati tutti svuotati dall'indifferenziato postmoderno?
Rimettiamo quindi quei significati al loro posto e stiamoci molto attenti, che fanno molto comodo a certo populismo
@ Emilio
Giustamente de Benoist sostiene che le identità non sono acquisite una volta per sempre ma si arricchiscono nell'incontro-rapporto con l'altro, il diverso. Come si concilia però tutto questo con l'idea dell'esistenza di una millenaria cultura europea?
Peraltro una cultura che accomunerebbe popoli diversi per lingua, storia, religione, alfabeto, costumi, ecc. e allo stesso tempo li separebbe da popoli a volte assai più affini di altri continenti. Per fare un esempio, sul piano storico-culturale l'Italia ha più in comune con l'altra sponda del Mediterraneo e con alcuni paesi latino-americani (Argentina, Uruguay, ecc.) oppure con i paesi scandinavi o gran parte di quelli slavi?
Tra l'altro, in merito alle idee di Europa, di Impero e di comunitarismo (al netto delle varie declinazioni) sono apparsi diversi scritti su Indipendenza (nella rivista cartacea). Alcuni sono disponibili anche in rete, nel caso ti andasse di leggerli. Ti segnalo
http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Eurasia%20prima%20parte.htm
http://www.rivistaindipendenza.org/Teoria%20nazionalitaria/Eurasia%20seconda%20parte.htm
Saluti
@ Stefano
Ti sei dimenticato la parola "ancora" quando hai riportato tra parentesi il passaggio "si situino ancora a sinistra" o "provengano da destra".
Ad ogni modo, cos'altro dovrebbe significare se non ciò che ho scritto?
Tra l'altro, oggetto della discussione non è tanto il libro di Michéa (che tra l'altro mi par di capire nessuno ha letto), quanto la relativa recensione di De Benoist e dei concetti che attraverso di essa lo stesso De Benoist fa passare. Nell'articolo c'è dunque molto del suo pensiero, che -vedi- conosco piuttosto bene perché leggo ciò che scrive, così come del resto leggo tante altre cose distanti dalle mie posizioni e dalla mia sensibilità.
Sicché il giochino di squalificare il tuo interlocutore facendolo passare per il settario prevenuto con me non funziona molto :-)
Tra l'altro, proprio perché la mia conoscenza di De Benoist non si ferma a questa recensione, so anche quali sono le idee-forza e i nuclei concettuali intorno a cui ruota la sua prospettiva politica: come ho già detto Impero, Europa, comunitarismo (guarda caso tipici dell'area destroradicale da cui proviene, sebbene lui li declini in maniera originale ed "eterodossa"). Un prospettiva politica quindi incompatibile con quella che porto avanti insieme agli altri compagni di Indipendenza.
Infine nuovamente sulla recensione.
Le argomentazioni di De Benoist (e probabilmente anche di Michéa, ma su questo procedo con cautela) sono condivisibilissime quando criticano la sinistra liberale, quando evidenziano l'incompatibilità tra socialismo e sinistra liberal, quando sottolineano l'involuzione culturale in seguito a cui tanti socialisti e comunisti si sono convertiti in liberali di sinistra. A tale proposito, si tratta di considerazioni e analisi che non hanno fatto solo De Benoist e a Michéa.
Non sono condivisibili invece quando fanno della sinistra liberale LA sinistra, quando cercano forzatamente di collocare fuori dalla sinistra chi da una prospettiva socialista o comunista ha criticato la sinistra liberale, l’ideologia del progresso, lo sradicamento culturale, senza per questo sostenere tesi "oltriste". Non sono condivisibili, le argomentazioni di De Benoist, quando, anziché sottolineare giustamente la non centralità della contraddizione di destra/sinistra, ne prospettano addirittura la totale assenza di significato, pretendendo di far passare l'idea che alla comunanza tra sinistra liberale e destra liberale debba corrispondere la comunanza tra sinistra antiliberale e destra antiliberale.
Ora, nei miei vari precedenti interventi spiego argomentando il perché non condivido certe tesi. Da parte mia quindi non ho più nulla da aggiungere alla discussione, che altrimenti rischia di diventare sterile e ripetitiva.
Chi legge giudicherà quali argomenti sono più solidi.
A presto
Dario,
se usciamo dal piano delle idee astratte e andiamo a ciò che pensano le persone, scopriamo ( e adesso proviamo a immaginare) che le persone che condividono parola per parola il documento, si dividono su argomenti che nel documento non abbiamo toccato: Reco un solo esempio.
Uno dice che bisognerebbe far entrare tutti gli extracomunitari che venissero in italia con permesso di soggiorno e magari concedere la cittadinanza con la massima facilità.
Un altro invece sostiene che questa è una tesi da liberale o da borghese, perché lo stipendio di un bracciante è di euro 850 e gli extracomunitari non chiedono i contibuti, sicché i contadini fanno lavorare solo loro. Anche perché moltissimi lavorano una giornata e mezza (dodici ore), con risparmio notevole del contadino. Sostiene allora il tizio che lo stopendio di un bracciante dovrebbe essere di 1200 euro al netto dei contributi e che per far ciò sarebbe necessario tutelare in modo enorme la nostra agricoltura (per questo apprezza il programma dell'ARS); e che gli extracomunitari che non prendono contributi andrebbero considerati e trattati dai bracccianti italiani che vogliono lavorare in regola come si faceva una volta con i crumiri che non scioperavano ("mazzate alla schiana", mi è stato detto: "punirne uno per educarne cento"). Sostiene inoltre il Tizio che ormai siamo al punto per cui a 1200 euro al mese (1800 se si lavora 12 ore per cinque giorni a settimane), i giovani italiani ricomincerebbero a fare i braccianti; e che qualora fossero in molti a lavorare, molti extracomunitari che oggi campano senza delinquere sarebbero costretti a delinquere, con la conseguenza che è quantomeno dubbio che si debbano lasciar entrate tutti coloro che vogliono.
Per me possono stare nell'ARS entrambi. Nessuno dei due, infatti, sostiene tesi incompatibili con il Documento. Sono entrambi di sinistra? Sono entrambi di destra? Uno è di sinistra e uno è di destra? Non lo so e non mi interessa. Il secondo è certamente socialista e perciò mi sta più simpatico. Ma forse anche il primo si considera socialista ed effettivamente lo è.
Quindi, nell'ARS possono stare coloro che sono socialisti e coloro che, più moderatamente, sono per un'economia sociale e popolare (non i liberisti).
Probabilmente, mentre tutti direbbero che il primo è di sinistra; alcuni sosterrebbero che il secondo è di destra (non perché sia razzista; nella sua posizione non vi è nulla di razzista; semplicemente perché non è "buono" – però a ben riflettere può darsi che l'altro, senza volerlo, produca effetti più "cattivi"); magari, però, il secondo, si qualifica di sinistra e dice di venire da una storica famiglia comunista. Come la mettiamo?
E' semplice. Entrambi entrano nell'ars e militano. Chi avrà più forza, più energia, più passione, chi militerà di più e con più capacità creerà la sezione. Un giorno, a Dio piacendo, saremo chiamati a prendere una posizione politica sul problema (tra dieci anni) e allora verificheremo cosa pensa sul problema la maggioranza di coloro che nel frattempo avranno aderito all'ARS.
PS Io continuo a sostenere che le due frasi non abbiano il medesimo contenuto: "esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice. si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra" e ""si renderebbe necessario un analogo avvicinamento". Inoltre, io non ho modificato di una virgola il mio pensiero politico da quando ho scritto il Manifesto del Fronte popolare italiano, dove l'ho espresso. Eppure allora mi autoqualificavo di sinistra e socialista; mentre oggi mi qualifico semplicemente socialista. Mi sono reso conto, infatti, che io ero di sinistra perché ero socialista e per nessuna altra ragione aggiuntiva. Perché indicare un medesimo contenuto di pensiero con due qualifiche?
@ Tonguessy
“Non ti sembra che ormai gli scaffali dei significati siano stati tutti svuotati dall'indifferenziato postmoderno?”
Mi trovi completamente d’accordo e mi spiace di aver equivocato la tua osservazione.
@ Dario
Leggerò senz’altro gli scritti in rete che mi hai segnalati.
Tuttavia mi “scappa” una replica sull’identità europea.
Tu dici “Giustamente de Benoist sostiene che le identità non sono acquisite una volta per sempre ma si arricchiscono nell'incontro-rapporto con l'altro, il diverso. Come si concilia però tutto questo con l'idea dell'esistenza di una millenaria cultura europea?
Peraltro una cultura che accomunerebbe popoli diversi per lingua, storia, religione, alfabeto, costumi, ecc. e allo stesso tempo li separebbe da popoli a volte assai più affini di altri continenti. Per fare un esempio, sul piano storico-culturale l'Italia ha più in comune con l'altra sponda del Mediterraneo e con alcuni paesi latino-americani (Argentina, Uruguay, ecc.) oppure con i paesi scandinavi o gran parte di quelli slavi?”
Io non trovo contraddizione con quanto sostiene de Benoist in quanto è proprio della cultura europea l’essersi formata grazie all’apporto di diversi e plurimi incontri. Ora non più, perché è succube del pensiero unico liberal-liberista.
Per esempio, citi i paesi scandinavi ed è proprio da là che sono arrivati i longobardi ( anche se la loro lunghissima emigrazione fa sì che li si reputi comunemente germanici ) e se il Papa di allora non avesse chiamato Carlo Magno l’Italia sarebbe diventata Nazione già nel IX secolo grazie a…degli scandinavi!
Per quanto riguarda l’altra sponda del mediterraneo, beh, ca va sans dire.
Non ricordo, infine, che de Benoist – per inciso non che io pensi che lui sia la Bibbia – neghi affinità con i paesi latino-americani.
Insomma, come ho già scritto de Benoist non nega l’universale ma semplicemente pensa che questi sia plurimo ; che l’Europa sia (stata) un esempio di questa pluralità ; che l’americanismo, invece, incarni l’ideologia dell’identico.
Saluti a tutti, Emilio.