Dove negli ultimi anni l’Unione Europea ha rischiato più volte di cadere? Una domanda la cui risposta salta fuori in modo quasi automatico: è sull’immigrazione che il Vecchio Continente ha dato in diverse occasioni l’idea di disgregarsi da un momento all’altro, almeno sul fronte politico. I Paesi del sud scalpitano da anni per avere una sostanziale modifica del trattato di Dublino e gestire in modo coordinato le richieste d’asilo e l’accoglienza. Quelli del nord invece sembrano non voler molto cambiare lo status quo, visto che chi gestisce le frontiere meridionali funge da parafulmine delle emergenze migratorie del Mediterraneo. Quelli dell’est non vogliono sentir parlare di accoglienza, nemmeno sotto forma di quote da suddividere in proporzione alla popolazione. Ogni qualvolta i capi di Stato e di governo dell’Ue si riuniscono per parlare di immigrazione, difficilmente salta fuori una fumata bianca. Di questo il presidente russo Vladimir Putin ne è ben consapevole. Tanto da vedere nell’immigrazione un’arma capace di piegare, almeno parzialmente, l’unità europea sul fronte ucraino.
La gestione del flusso costante dall’Ucraina
La storia recente parla chiaro. Quando la pressione migratoria diventa difficilmente gestibile nel Vecchio Continente e motivo di lite tra i vari governi, l’Ue decide di scendere a patti e assecondare la controparte. Nel 2016 Erdogan voleva soldi per chiudere i confini, ospitare i siriani che scappavano dall’Isis e non far risalire lungo la rotta balcanica i migranti verso il nord Europa. Su input della Germania, alla fine in quello stesso anno l’Europa ha deciso di staccare un assegno da tre miliardi di Euro e girarlo ad Ankara, con la promessa anche di elargire questa somma nelle stagioni successive. Più di recente, il presidente bielorusso Alexandar Lukashenko voleva il riconoscimento politico dall’Europa dopo che Bruxelles non aveva considerato valide le elezioni che hanno permesso il suo reinsediamento. E l’allora cancelliere tedesco Angela Merkel, nello scorso mese di ottobre, ha alzato la cornetta per chiamare Lukashenko non appena la crisi migratoria generata dalla rotta bielorussa ha messo in difficoltà la Polonia e l’area baltica.
L’attacco militare all’Ucraina ha ovviamente generato, a partire dal 24 febbraio scorso, un flusso migratorio con pochi precedenti a livello globale. Come sottolineato da Francesca Mannocchi su La Stampa, sono almeno sette milioni i cittadini ucraini che hanno abbandonato il loro Paese per riversarsi in Europa. Ancora una volta è la Polonia, per ragioni geografiche, a rappresentare il Paese più esposto. Per adesso il sistema di accoglienza ha tenuto. Anche perché l’empatia e l’immedesimazione con la tragedia del conflitto ha spinto sia i polacchi che i cittadini degli altri Paesi del Vecchio Continente a collaborare. Ma l’emozione iniziale potrebbe ben presto lasciare il passo alle pragmatiche esigenze legate al costo dell’ospitalità.
Ed è su questo che Putin potrebbe puntare. L’Europa del resto sta affrontando una crisi economica molto importante. Provata dall’emergenza coronavirus, nel momento della ripresa sono intervenuti diversi fattori che hanno scatenato una nuova spirale preoccupante. L’impennata dei prezzi e dell’inflazione sta incidente e non poco nei timori di governi e cittadini europei. L’impatto di oltre sette milioni di ucraini in una situazione del genere potrebbe essere visto sotto una cattiva luce anche da chi fino a oggi si è impegnato nell’accoglienza. In poche parole, il Cremlino è ben consapevole che l’Europa non è in grado nel lungo termine di reggere un continuo flusso migratorio dall’Ucraina. Ragione quindi per credere, almeno nella visione delle autorità russe, che prima o poi il Vecchio Continente si muoverà per una mediazione o per, quanto meno, ammorbidire le proprie posizioni nei confronti di Mosca.
Lo spettro di una crisi generata dalla mancanza di grano
C’è poi un’altra partita che Putin sta giocando sul fronte migratorio. Non è legata direttamente alla guerra in Ucraina, bensì a uno dei suoi più drammatici potenziali effetti collaterali. Ossia la crisi alimentare. Il conflitto ha bloccato l’export del grano ucraino, da cui dipendono molti Paesi del nord Africa e del medio oriente. Regioni in cui, giorno dopo giorno, trovare un pezzo di pane sta diventando sempre più difficile. Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno italiano Luciana Lamorgese ha parlato di un possibile aumento dei flussi migratori legato alla crisi alimentare. Al momento si sta assistendo a un boom di sbarchi nel nostro Paese, ma è alquanto difficile accostarlo alla carenza di grano. Eventuali effetti in tal senso si vedranno nel lungo termine. Quando cioè, a causa dei prezzi molto alti dei generi di prima necessità, gli Stati coinvolti dalla crisi potrebbero subire un processo di grave instabilità capace quindi di far aumentare i flussi migratori verso l’Europa.
Uno scenario al momento solo potenziale e non reale, ma che si aggiunge alla lista di armi a disposizione di Putin. Il capo del Cremlino sa che nel Vecchio Continente un nuovo flusso di migranti generato dalla carenza di grano è in cima alle preoccupazioni. E che dunque l’Europa potrebbe anche in questo caso dover, prima o poi, scendere a patti.
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