L’ostinata ricerca. Ricardo e la misura invariabile del valore
DA GAZZETTA FILOSOFICA (Riccardo Evangelista)
La teoria del valore di David Ricardo, un vero rompicapo dell’economia politica di cui Marx saprà acutamente servirsi, ha posto le basi per definire la distribuzione dei redditi nel capitalismo come un processo conflittuale. Motivo per cui è oggi importante riscoprirne i fondamenti.
Nella sua Storia dell’economia, piccolo capolavoro della divulgazione d’autore, John Kennet Galbraith introduce in questo modo l’economista David Ricardo:
« È il personaggio più sconcertante e, sotto certi aspetti, il più controverso nella storia della sua disciplina; sconcertante perché la natura e la profondità della sua influenza sulla scienza economica sono tutt’altro che chiare; controverso perché agli occhi di molti tale influsso ha reso un servizio meraviglioso alle persone sbagliate: Marx e i marxisti. » (J. K. Galbraith, Storia dell’economia)
Un giudizio tutt’altro che esagerato: effettivamente siamo di fronte a un autore difficile, a tratti oscuro, con una prosa grigia e un metodo rigidamente deduttivo attraverso il quale, muovendo da una proposizione evidente (o presunta tale), arriva a conclusioni ritenute inevitabili. Nei suoi aspetti più originali e anche in forza di discordie interpretative ancora irrisolte, rappresenta probabilmente il caso scientifico più interessante del pensiero economico.
David Ricardo nasce a Londra nel 1772 da una famiglia ebrea di antiche origini portoghesi e, dopo una lunga attività da agente di cambio che lo aveva reso benestante, nel 1815 pubblica l’opera in cui s’imbatte per la prima volta nel problema che lo tormenterà per tutta la vita da infaticabile studioso: l’origine e la misura del valore, nonché le leggi che determinano la distribuzione dei redditi nella società capitalistica. Il titolo didascalico, Saggio sull’influenza di un basso prezzo sul grano sui profitti del capitale, non deve trarre in inganno: pur facendo riferimento a una questione di politica economica del tempo (il dibattito del Parlamento inglese sulle Corn Laws, relativo all’opportunità di aprire all’importazione del grano straniero), lo scritto, per quanto breve, ha una portata che deborda largamente dagli argini contingenti.
Piero Sraffa lavorò per oltre vent’anni alla ricostruzione del pensiero di Ricardo e alla ricerca di documenti inediti che facessero luce sui passaggi più controversi delle sue opere. Del resto, come avverte lo stesso nell’introduzione alla monumentale edizione delle opere, per comprendere il pensiero di Ricardo vanno sempre distinte le conclusioni pratiche, legate alla sua filosofia politica impregnata di utilitarismo benthaniano e liberismo cavalcante, dalla cornice analitica più generale. È proprio Sraffa, allora, che può condurci con cura lungo il tortuoso sentiero ricardiano, iniziando con l’indagare quello che è passato alla storia del pensiero economico come la bizzarria di un “modello grano”. La tesi di fondo sostenuta nel piccolo saggio è grosso modo la seguente: dato che in agricoltura il capitale è della stessa natura del prodotto (grano come mezzo di sussistenza per i lavoratori e come semente, ma anche come prodotto), allora il valore totale della produzione può essere interamente misurato in termini fisici, senza riferimenti e unità di misura ulteriori. Inoltre, poiché in un sistema concorrenziale il profitto deve essere per definizione uniforme, diventa possibile determinare contemporaneamente il saggio generale del profitto (cioè di tutti i settori della produzione) facendo riferimento a quello realizzato in agricoltura. Scrive Sraffa, provando a chiarire i passaggi essenziali del ragionamento di Ricardo:
« Se deve darsi un saggio uniforme del profitto in tutte le attività, saranno i valori di scambio delle altre attività in rapporto ai rispettivi capitali (cioè in rapporto al grano) a doversi adeguare in modo d’assicurare lo stesso saggio del profitto realizzato nella produzione del grano, dato che in questa nessun cambiamento di valore può mutare il rapporto tra il prodotto e il capitale, che consistono entrambi della medesima merce. […] Il vantaggio del metodo ricardiano d’approccio è che, sia pure a costo di considerevole semplificazione, diventa possibile comprendere la determinazione del saggio del profitto senza bisogno di un metodo che riduca ad una comune unità di misura un insieme eterogeneo di merci. » (P. Sraffa, Introduzione ai “Principi” di Ricardo)
Il “modello grano”, per quanto logicamente ineccepibile, si allontana però davvero troppo dalla realtà di un capitalismo industriale in espansione, nel quale l’agricoltura stava rapidamente perdendo la sua centralità. Il problema non tarda a metterlo in evidenza il pastore anglicano ed economista Thomas Malthus, il cui rapporto con Ricardo è stato ricostruito sempre da Sraffa attraverso la pubblicazione delle numerose lettere che i due studiosi, grandi amici ma tenaci avversari politici, si sono scambiati nel corso della loro vita. Scrive molto semplicemente l’alto prelato inglese «In nessun ramo di produzione il prodotto ha esattamente la medesima natura del capitale anticipato. E quindi non è corretto fare riferimento ad un saggio materiale del prodotto.» (ivi)
L’autorevole opinione di Malthus è stata con ogni probabilità decisiva per convincere Ricardo a percorrere un’altra strada, ma allo stesso tempo a non cambiare direzione: il suo ambizioso sistema teorico, del resto, era stato costruito per decifrare le leggi che governano l’economia politica e individuare i sentieri di sviluppo di quella società capitalistica che sembrava non ammettere possibilità d’interferenza umana. Inizia con questi presupposti l’impresa più ardua e per certi aspetti eroica di Ricardo: la ricerca di una teoria generale del valore e della distribuzione in grado di prescindere tanto dai singoli settori della produzione, quanto dai mutevoli prezzi di mercato, indipendente quindi da ogni tipo di relazione tra variabili fisiche o monetarie (salari, profitti e rendite), ma anzi diventando il presupposto e la misura ultima di queste.
Sotto il costante incitamento di James Stuart Mill, Ricardo decide così di lavorare in maniera febbrile a un testo ben più articolato del precedente per trovare la soluzione definitiva al problema di tutta la sua vita da studioso. La prima edizione dei Principi dell’economia politica e della tassazione, questo il titolo dell’opera della maturità, vede la luce nel 1817 e si apre non a caso con un capitolo intitolato Sul valore. Il punto di attacco è in questo caso l’opera maggiore di Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, pubblicata nel 1776, in cui è contenuta una teoria del valore di tipo additivo: in estrema sintesi, Smith ritiene che il valore di ogni bene prodotto corrisponda alla somma dei valori dei suoi fattori (rendita, profitto e salari), definendo il risultato della somma come il prezzo naturale. In un sistema di concorrenza, quest’ultimo deve coincidere con il prezzo di mercato.
Ricardo non è per nulla soddisfatto della soluzione proposta dall’economista e filosofo scozzese: se il valore è composto da una mera somma di remunerazioni, allora cosa determina il valore di quest’ultime? In altri termini: possono le rendite, i profitti e i salari determinare il valore se essi stessi necessitano di una misura del valore per essere determinati? Per Ricardo la teoria smithiana aveva un evidente vizio di circolarità che la rendeva gravemente difettosa.
Data la mancanza di realismo del “modello grano”, la soluzione al dilemma del valore sembra prendere, per Ricardo, la stretta via di un criterio immune tanto dai vizi formali quanto dalla mutevolezza fenomenica dei prezzi. È ancora Sraffa a mostrarci l’approdo dell’impervia ricerca attraverso il contenuto di una lettera del 1820 destinata al solito Malthus, nella quale Ricardo cerca di riassumere l’ingarbugliato contenuto dei suoi Principi:
« Mi si può chiedere che cosa intendo con la parola valore, e in base a quale criterio posso giudicare se una merce ha cambiato o no di valore. Rispondo che non conosco altro criterio per dire se una cosa è cara o a buon mercato tranne il sacrificio di lavoro sopportato per ottenerla […]. Mi sembra proprio una contraddizione dire che una merce è aumentata di valore mentre continua ad essere prodotta nelle stesse condizioni di prima. »
Se Ricardo, per venir fuori dal circolo vizioso smithiano, vuole determinare un valore assoluto, ossia definire un criterio di misurazione indipendente dagli accidenti del mercato, allora l’obiettivo diventa possibile solo grazie all’ancoraggio del valore stesso a un’unità di misura invariabile nel tempo e nello spazio. Tutte queste caratteristiche le possiede, seppur in modo imperfetto, soltanto il lavoro umano. Scrive ancora Ricardo:
« Se avessimo una misura di tipo invariabile, attraverso cui misurare la variazione delle altre merci, ci avvedremmo che il limite massimo che queste possono permanentemente raggiungere, ove siano prodotte nelle condizioni postulate, è in ragione della quantità supplementare di lavoro occorrente per la loro produzione, e che esse non possono affatto aumentare, se per la loro produzione non occorre una maggiore quantità di lavoro. » (D. Ricardo, Principi dell’economia politica e della tassazione)
Molti studiosi contemporanei, pur riconoscendo l’importanza dell’opera, si sono chiesti cos’abbia spinto una mente acutissima come quella di Ricardo a una soluzione per certi aspetti atavica del problema relativo al valore, che per giunta già Smith aveva scartato, ritenendola adatta solo a «quello stadio primitivo dell’agricoltura che precede il progresso delle manifatture» (A. Smith, La ricchezza delle Nazioni) e dunque l’accumulazione di capitale. Ad esempio, Robert Lekachman ritiene che in Ricardo «ciò che legittimava il lavoro come misura del valore non era altro che una combinazione di praticità e solidità psicologica» (R. Lekachman, Storia del pensiero economico). Alessandro Roncaglia sottolinea invece come nella teoria del valore-lavoro ricardiana permangano degli elementi metafisici causati da una confusione tra due piani analitici: la ricerca di una misura esatta del valore e il problema del fondamento, o dell’origine ultima, del valore stesso.
È indubbio che in Ricardo il problema della misura del valore e quello del suo fondamento tendano a coincidere: trovare quest’ultimo rende anche possibile, di per sé, una sua determinazione quantitativa. Ecco la ragione per cui la misura invariabile del valore rappresenta il culmine di tutto il suo sistema, il punto d’approdo agognato, che rende intellegibile la società capitalistica mettendo ordine nelle sue leggi di distribuzione dei redditi tra le classi sociali.
Il metodo teoretico e deduttivo, allora, diventa uno strumento di cui Ricardo si serve eccellentemente per procedere dall’astratto al concreto, individuando le priorità logiche del discorso scientifico e giungere a una comprensione ritenuta oggettiva della realtà. L’operazione, se vogliamo, conduce a porre il primato dell’universale sul particolare, ossia del valore in sé, che Ricardo definisce assoluto, sui prezzi di mercato, espressione della variabilità e quindi inutilizzabili per un procedimento d’analisi da cui giungere a conclusioni inattaccabili.
La ricerca di una misura invariabile del valore lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni, tanto che ancora nel suo ultimo saggio, pubblicato nel 1823 a poche settimane dalla morte e intitolato emblematicamente Valore assoluto e valore di scambio, scrive come mosso da un’insoddisfazione dei risultati sino ad allora raggiunti, che a ragione riteneva non al completo riparo dagli attacchi successivi:
« È il costo di produzione che deve in ultima analisi regolare il prezzo delle merci. E non, come spesso è stato detto, la proporzione tra l’offerta e la domanda: la proporzione tra offerta e domanda può in effetti per un qualche tempo influire sul valore di mercato di una merce, fino a quando non sia offerta in quantità maggiore o minore, a seconda che la domanda sia aumentata o diminuita; ma questo effetto sarà solo temporaneo. » (D. Ricardo, Valore assoluto e valore di scambio)
Nella sua caparbietà intellettuale, Ricardo impersona il coraggioso paradosso di chi continua a ricercare un principio primo proprio in una società, quella capitalistica, in rapida e inarrestabile trasformazione. Anche qualora la dinamica della domanda e dell’offerta modificasse i prezzi, questo l’approdo ricardiano, essa sarebbe solo una variazione apparente, un movimento superficiale che non può ingannarci sulla natura delle leggi più profonde dell’economia politica. Non è, pertanto, il prezzo che esprime il valore, ma è quest’ultimo, determinato dai costi di produzione e in ultima istanza dal lavoro, il centro di gravità attorno a cui i prezzi possono muoversi.
Ricardo, probabilmente senza rendersene conto, aveva acceso una miccia potente. L’opposta convinzione successiva secondo cui i prezzi (compreso il salario) dipendano solo dalle variazioni soggettive della domanda e dell’offerta e che il valore assoluto sia un concetto senza alcun fondamento logico era già pronta a farsi strada, dirigendosi contro le rivendicazioni sindacali e ogni riformismo sociale. Nel frattempo, però, l’idea di Ricardo aveva fatto strada. I primi a coglierne l’intrinseca valenza contestativa dell’ordine esistente furono i cosiddetti socialisti ricardiani, che avevano tratto conclusioni chiare e inequivocabili dalla teoria del valore: se il lavoro è veramente fonte di tutto il valore, allora i lavoratori hanno diritto a tutto il prodotto e i capitalisti sono degli espropriatori. La giustificazione del profitto, che in Ricardo era perlopiù implicita e conseguente al naturalismo della sua filosofia politica, perdeva di colpo ogni fondamento.
Fu però Marx, qualche anno dopo, che sviluppando organicamente il concetto di lavoro astratto riuscì a distinguere il valore di scambio della forza lavoro (rappresentato dal salario) dal valore d’uso del lavoro stesso (rappresentato dalla capacità di creare valore una volta impiegato nel processo produttivo). La differenza tra il valore creato attraverso la produzione di altre merci, qualità peculiare del lavoro umano, e il salario, mantenuto al livello di sussistenza, genera il plusvalore, di cui si appropria il capitalista e determina lo sfruttamento connaturato al modo di produzione capitalistico.
Se la potenza storica delle tesi marxiane non ha eguali, è stata l’ostinata ricerca di una misura invariabile del lavoro da parte di Ricardo che ha permesso a Marx di sostenere la struttura invariabile dello sfruttamento capitalistico. Le grandi idee, si sa, portano a conseguenze inaspettate. Per cui, terminando, è forse il caso di convenire con l’economista scozzese Alexandre Gray, che qualche decennio fa scriveva: «Se Marx e Lenin meritano un busto nella galleria degli eroi rivoluzionari, da qualche parte, in seconda fila, dovrebbe esserci posta un’effige di Ricardo.»
FONTE: https://www.gazzettafilosofica.net/2023-1/giugno/l-ostinata-ricerca/
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