A una cinquantina di giorni dalle prossime elezioni presidenziali, che si preannunciano già scottanti, l’Argentina si prepara all’ennesima presa di posizione che, senza ombra di dubbio, condizionerà i prossimi decenni di vita nel Paese australe.
Nel bel mezzo di una crisi economico-finanziaria di bibliche dimensioni e a pochi giorni dall’ammissione nei BRICS (nei quali, però, formalmente l’Argentina entrerà solo dopo le presidenziali), si gioca la partita tra l’oficialismo assistenzialista, rappresentato dall’attuale ministro dell’economia peronista Sergio Massa, e il libertarismo estremo proposto dal deputato anarco-capitalista Javier Milei. “Between a rock and a hard place”, direbbero gli anglosassoni.
Il fantomatico centrismo della terza candidata, Patricia Bullrich, sponsorizzata dall’ex-presidente Mauricio Macri (che però, del tutto prevedibilmente, si è avvicinato molto a Milei nelle ultime settimane), sembra non trovare posto in questa corsa che si presenta radicalizzata e radicalizzante, ma che in realtà puzza di stantio e ribollito: il peronismo, difatti, è rimasto pressoché invariato dall’ascesa di Néstor Kirchner nel 2003, e, dall’altra parte, molte delle proposte di Milei (inclusa quella della dollarizzazione) sono semplici rimestamenti delle politiche di Carlos Menem (ironicamente peronista) e Domingo Cavallo (suo Ministro dell’Economia dal 1991 al 1999).
I principali temi che influenzeranno gli elettori argentini, e di conseguenza le sorti del Paese, in questa corsa, sono molteplici, ma in ordine di importanza possiamo riassumerli in due principali filoni: quello riguardante l’inflazione e la dollarizzazione, e quello riguardante la povertà e la sicurezza. Di pari importanza sono la politica estera del futuro esecutivo e il comportamento nei confronti dello strategico settore energetico e minerario (vera ricchezza del Paese sudamericano e motore dell’industria interna), temi di cui però gli elettori, afflitti in gran parte da condizioni di vita sempre più precarie, si curano poco o pochissimo.
A margine, ma in realtà punto centrale per gran parte degli elettori, troviamo anche la cosiddetta “battaglia culturale” che il peronismo kirchnerista sta portando avanti da quindici anni. Trattasi della medesima battaglia che il progressismo liberale sta imponendo anche in Europa e negli Stati Uniti e che negli ultimi anni è sfociata nell’incubo woke.
Inflazione e dollarizzazione
Il tema principale su cui si concentrerà gran parte del dibattito elettorale sarà l’inflazione, che a luglio ha toccato l’apice del 113% annuale. Questo dato si aggiunge a quello dei precedenti cinque esercizi, tutti al di sopra del 40%, con un picco del 93% lo scorso anno. L’inflazione cumulativa dal 2018 ad oggi ha toccato il 1100% (era solo del 450% un anno fa), il che significa che per comprare un qualsiasi prodotto x che costasse 100 pesos nel 2018, oggi ne sarebbero necessari 1200.
Il potere d’acquisto del cittadino medio, già di per sé infimo per via di quasi un secolo di politiche macroeconomiche completamente inadeguate e di una corruzione galoppante, è stato completamente eroso in soli cinque anni, e questo potrebbe incidere parecchio sul risultato elettorale.
Se, però, in qualsiasi altro Paese al mondo questa ultima affermazione sarebbe con certezza coniugata all’indicativo, per quanto riguarda l’Argentina il condizionale è d’obbligo, giacché la situazione non è assolutamente inedita. Chi ha vissuto il crac finanziario del 2002 e la precedente, durissima, recessione del 1998-2001, infatti, ricorderà sicuramente il proprio potere d’acquisto ridotto a circa un quarto nel giro di pochi giorni (non pochi anni), quando il BCRA (Banco Central de la República Argentina) fu costretto a sospendere il Plan de Convertibilidad, il marchingegno di menemiana invenzione che fissò artificialmente il rapporto 1:1 tra peso e dollaro per quasi dieci anni, dando il via ad una dollarizzazione de facto dell’economia argentina, di cui ancor oggi si sta pagando il prezzo.
In occasione di tale sospensione, per sopperire alla mancanza di liquidità, il governo bloccò anche i conti dei correntisti, che avevano effettivamente risparmiato in dollari per un decennio, in quello che poi diventò celebre come corralito. Quando i ritiri dai conti correnti furono sbloccati un anno dopo, non solo il tasso di scambio ufficiale tra dollaro e peso era sceso appunto a circa 4:1, ma la disponibilità di dollari era così scarsa che gli scambi dovettero essere principalmente effettuati su mercati paralleli a tassi ancora più alti.
Chi scrive questo articolo rimembra vivamente i disastri causati dalle politiche degli anni ’90, nonostante la tenera età dell’epoca e la nube di oppio in cui viveva gran parte della allora ancora esistente classe media lavoratrice, imbambolata dalla novità dei prodotti di importazione e dalle panzane di Menem e Cavallo.
Il Plan de Convertibilidad imponeva dei limiti piuttosto bassi in merito all’emissione monetaria e la privatizzazione coatta che accompagnò la dollarizzazione dell’economia argentina portò la percentuale di PIL prodotta da attori esteri fin sopra il 90%, causando una fuga di capitali senza precedenti e lasciando il BCRA senza riserve. I vari governi provinciali e il governo federale (che nel frattempo aveva cambiato casacca con l’arrivo del radicale Fernando De La Rúa nel 1999, ma che aveva tenuto Cavallo all’Economia) si videro costretti ad emettere, tra il 2001 e il 2002 e in maniera parallela alla valuta legale, dei mini-bond, coi quali i privati cittadini furono costretti a commerciare per mancanza di altri liquidi. Questi erano ancorati al valore del peso (e dunque inizialmente al dollaro) e garantivano un interesse del 6% annuo al loro riscatto. Più si era prossimi alla scadenza, più i mini-bond (quelli nazionali vennero denominati lecop, quelli della Provincia di Buenos Aires patacones) acquisivano valore, almeno in teoria. All’atto pratico, il valore effettivo di questi pezzi di carta straccia, usati da banconote per necessità per un buon biennio, era stato completamente eroso al termine fissato in dicembre 2003 e dicembre 2006, grazie ad una svalutazione del peso che portò l’inflazione nel solo 2002-2003 a risalire fino al 40% e il tasso dollaro-peso nei mercati informali ad avvicinarsi a 10:1 per parecchio tempo. Si concludeva così il primo esperimento di dollarizzazione in Argentina, che centrò per molti anni l’obiettivo deflazionario che si era posto, salvo dover far dietrofront e far riscoppiare l’inflazione quando inevitabilmente crollò il delicatissimo e menzognero castello di carte che i paladini del liberismo monetarista avevano costruito.
Chi era già adulto tra il 1989 e il 1990, invece, si ricorderà l’iperinflazione dell’epoca: al 3089% sotto la Unión Civica Radical di Alfonsín prima e al 2314% sotto il peronista Menem poi. Chi lo era già nel 1975 ricorderà il Rodrigazo, che per mano e volontà della P2 e della Triple A (Alianza Anticomunista Argentina) escogitò un piano per svendere il Paese ai capitali stranieri attraverso la liberalizzazione dei mercati energetici (sfruttando lo scompiglio creato dalla crisi petrolifera) e la svalutazione coatta del peso. Questa mossa, utilizzata da svariati governi nel corso degli anni, è nota come “licuadora” (frullatore), in quanto, svalutando la propria moneta, i costi in valuta locale diventano relativamente più “digeribili”, soprattutto per multinazionali e aziende di medio-grandi dimensioni che dispongono di riserve in dollari. Tale shock consegnò al Paese il primo di sedici anni di fila di inflazione a tre cifre.
Per onestà intellettuale e anche per capire le intricate logiche della politica argentina di oggi, vale la pena ricordare che, nel 1975, il Governo era presieduto dalla seconda moglie di Perón, María Estela Martinez detta Isabelita, icona del tanto decantato terzo peronismo che è, in larga parte, padre dell’attuale kirchnerismo. Molti dei componenti del governo di Isabel Perón (come in quelli di Héctor Cámpora, Raúl Lastiri e nell’ultimo governo dello stesso Juan Domingo Perón dal 1973 al 1974), però, tra cui l’ideatore del Rodrigazo, il viceministro dell’Economia Ricardo Zinn, furono poi funzionari essenziali nella realizzazione dei piani neoliberisti in Argentina sia durante i governi dell’ultima giunta militare (dal 1976 al 1983), sia durante quello del peronista Menem (dal 1989 al 1999). Zinn, in particolare, si è guadagnato un posto speciale all’inferno per aver dato il via al cambio di paradigma che fece gradualmente ritornare l’Argentina ad una logica pre-sviluppista, deindustrializzando lentamente il Paese attraverso le privatizzazioni, l’aziendalismo e la concentrazione dei capitali nelle mani di pochi fedelissimi al sistema, molti di questi dei veri camaleonti politici (vedasi ad esempio Franco Macri, padre dell’ex-presidente e proprietario di SEVEL Argentina S.A., che beneficiò enormemente dagli “aiutini” sia dei governi peronisti come quelli di Isabelita e Menem, sia delle giunte militari di Onganía, Lanusse e poi Videla).
In un Paese dove storicamente, negli ultimi cento anni, l’inflazione mediana è stata superiore al 30% e dove gli anni di inflazione a cifra singola si contano sulle dita di una mano, questo è e rimarrà, giocoforza, il tema principale da affrontare.
La dollarizzazione, invece, rimane uno strumento utile a combattere questa inflazione galoppante e duratura, ma che in passato si è già rivelato non solo inefficace, ma anche estremamente dannoso per l’economia, per via della sua natura privatizzante che, fondamentalmente, rende molto più semplice aumentare (attraverso la fuga di capitali), non diminuire (come credono gli anarco-libertari seguaci del capelluto Milei) il tanto dibattuto deficit delle riserve di valuta.
L’alternativa a ciò rimane sempre lo sviluppismo di prebischiana memoria, di cui il kirchnerismo ha di volta in volta dimostrato di non voler sapere assolutamente nulla, preferendo da sempre l’assistenzialismo che fin dai tempi di Perón ha oliato i meccanismi corrotti del potere, e relegare l’Argentina allo status quo di “esportatore netto” di coloniale origine e liberale concezione. Il tempo ci dirà se l’ingresso nei BRICS (e una eventuale obbligazione economica nei confronti di una Cina estremamente sviluppista), che è a rischio se non dovesse vincere Sergio Massa, farà virare i peronisti verso pianificazioni economiche più ragionevoli.
Povertà e sicurezza
Tema legato a doppio nodo a quelli dell’inflazione e della dollarizzazione è quello della povertà, che nell’ultimo anno si avvicina al 40% della popolazione totale (con un 9% che vive in stato di indigenza), numero del tutto simile a quelli del 2002, del 1989 e del 1975, all’alba di gravissime crisi strutturali che presentavano al tempo stesso una inflazione molto elevata, quanto o più di quella di oggi, e che furono un preambolo per lunghissimi periodi di sofferenza economica.
Ad oggi, le soluzioni dell’una e dell’altra parte sembrano essere tutto tranne che concrete, e dettate in maniera spiccata dal clamore elettorale, con Milei che promette che non abolirà gli ammortizzatori sociali creati dal kirchnerismo, e Massa che spera che l’attuale situazione economica non precipiti prima delle elezioni e blatera in maniera vaga di “uguaglianza sociale” e di aumento dei piani di welfare.
Il dato della povertà è significativo perché, a differenza delle altre crisi menzionate poc’anzi, che alla povertà accompagnavano un tasso di disoccupazione talvolta al di sopra del 20%, oggi il dato non supera il 6,5%. Questo significa che esiste una larga parte di popolazione che vive sotto la soglia della povertà pur essendo impiegata. Quello che il dato nasconde, invece, è il tasso di informalità di questa occupazione, che negli scorsi tre anni ha sempre superato il 50%.
Dunque, prima di parlare di ulteriori ammortizzatori sociali, servirebbe una politica per incentivare il lavoro formale. Ma per farlo occorre un piano macroeconomico radicalmente diverso da quello che ha dettato i ritmi dell’economia argentina negli ultimi 50 anni. Un ritmo che non tenga conto di voti di scambio e di quid pro quo, ma che si focalizzi realmente sull’aumentare il benessere dei cittadini attraverso il lavoro. Nessuno dei candidati sembra realmente intenzionato ad implementare tale piano.
Per altro canto, la crescita della povertà in Argentina è sempre stata accompagnata da un forte aumento della delinquenza, talvolta anche quella di natura violenta, e di un generale malcontento della popolazione riguardo il bassissimo livello della sicurezza pubblica. Dagli anni ’70 in poi, ma in particolare dopo il 2000, è esploso anche il numero di quartieri informali, le cosiddette villas miserias, soprattutto nella città autonoma di Buenos Aires e nella omonima provincia, dove il numero di persone che abita in tali alloggi supera il milione (circa il 6% della popolazione).
Nella sola capitale, il numero di abitanti delle villas miserias è aumentato da circa 45.000 nel 1960, quando rappresentavano un fenomeno abitativo puramente transitorio, a quasi 300.000 alla fine dello scorso anno.
Si tratta naturalmente di luoghi dove vige l’illegalità, che offrono un tetto sicuro agli attori del narcotraffico; dove gran parte dei bambini e ragazzi decide di abbandonare gli studi; dove gli standard costruttivi non rispettano le più basiche norme di sicurezza; dove il 90% delle abitazioni non è allacciata alla rete idrica o fognaria, e spesso e volentieri non riceve altri servizi di base come l’energia elettrica.
Negli anni, molto è stato detto di questo problema abitativo, sia da parte di chi promuoveva attivamente l’eradicazione dei quartieri, sia da parte di chi avrebbe preferito l’urbanizzazione. La realtà, però, è che sono fallite sia l’una che l’altra proposta: solo una villa miserias è stata eradicata negli ultimi vent’anni (la Villa Riachuelo), e solo una parzialmente urbanizzata (la famosa Villa 31, nel cuore della capitale), peraltro dopo vent’anni di attesa e numerosi problemi causati da quella parte di inquilini che rimane estremamente ostile alle autorità.
Se in passato le forze politiche si dividevano sulla soluzione da adottare per risolvere la problematica, oggi l’eradicazione sembra aver perso terreno per dar spazio a proposte di urbanizzazione dalle più varie sfaccettature. Nel caso specifico delle prossime elezioni, i libertari che fanno capo a Milei sarebbero per ridurre al massimo la spesa pubblica destinata a questa tematica (che in realtà è già meno dell’1% nel caso della città autonoma di Buenos Aires), accusando il governo attuale di praticare “pobrismo” e di “normalizzare la marginalità”, mentre il kirchnerismo guidato da Massa rivendica i grandi progetti di urbanizzazione (per lo più irrealizzati, va detto, anche per via di pandemia e attuale crisi finanziaria) che sono stati portati avanti dall’ultimo governo e vorrebbe espanderli.
Storicamente, il peronismo in tutte le sue forme ha sempre avuto un grande interesse ad occuparsi attivamente di questi quartieri informali, in quanto essi gli hanno sempre garantito un’enorme bacino di elettori, nonché di alleati politici in tempi di opposizione e di dittatura. Le villas sono state e sono tuttora, infatti, strettamente legate soprattutto a movimenti fondati dal terzo peronismo quali La Cámpora, i piqueteros, il Movimiento Villero Peronista e altri più strettamente legati alla lotta armata e al terrorismo, ovvero l’ERP, le FAR, Montoneros e quei Descamisados che nel 1969 (nel pieno della dittatura di Juan Carlos Onganía) assassinarono il popolarissimo sindacalista della CGT Augusto Vandor, reo di aver per primo ideato un “peronismo senza Perón”, e di aver rifiutato il cambio di paradigma da sviluppismo ad assistenzialismo imposto dal terzo peronismo.
Quello delle villas rimane l’emblema della povertà argentina e uno delle principali problematiche sociali da risolvere nel Paese, nonché tema di grande dibattito all’interno della società argentina, non solo in tempi di elezioni.
Politica estera ed industriale
Sebbene siano argomenti che avranno più seguito all’estero che non tra gli effettivi elettori argentini, ogni candidato possiede una visione ben definita della politica estera ed industriale che dovrebbe seguire il Paese. Dunque, è bene analizzare quelle che a primo acchito possono sembrare strategie diametralmente opposte, ma che in realtà, andando oltre la propaganda elettorale, hanno più punti in comune di ciò che si possa inizialmente pensare.
Milei ha sbraitato, nel suo consueto modo, che non commercerà “con Paesi comunisti” (riferendosi in particolar modo a Cina e Brasile), che metterà in discussione l’ingresso nei BRICS e che gli alleati “naturali” dell’Argentina sono Stati Uniti e Israele. Nel giro di qualche giorno, però, il deputato libertario aveva già cambiato idea, rettificando che non si sognerebbe mai di intervenire nel libero mercato, e che ogni impresa sotto un suo ipotetico governo sarebbe stata libera di intrattenere rapporti commerciali con chiunque. Evidentemente, deve essergli arrivata una chiamata da uno dei tanti industriali che sostiene (politicamente e soprattutto finanziariamente) la sua candidatura, che deve avergli ricordato che Cina e Brasile sono di gran lunga i due principali partner commerciali dell’Argentina. Business is business, insomma. Tutto cambia perché tutto rimanga com’è, ovvero poco mercato interno e molto, moltissimo export.
Riguardo i numerosi piani di welfare, dai quali attualmente dipende la vita di molti argentini, Milei ha riferito che non ha intenzione di toccarli, ma non ha spiegato come intende finanziarli in uno scenario macroeconomico deflazionistico e restrittivo come quello che propone.
In modo del tutto similare, Massa ha di recente girato incessantemente l’Asia in cerca di compratori per i numerosi prodotti agroalimentari argentini, oltre ad aver chiuso numerosi simili accordi col Brasile, che vorrebbe peraltro utilizzare lo yuan per questi scambi in vista dell’ambizioso piano di diventare una vera e propria potenza di riferimento in America Latina, con l’endorsement della Cina. Ciò alimenta ulteriormente l’immagine dell’Argentina “esportatrice netta” che perdura da almeno trent’anni. L’idea del kirchnerismo, infatti, non è di per sé quella di diminuire il numero di poveri attraverso l’occupazione, o di aumentare i salari medi attraverso lo sviluppo di un mercato interno che è stato completamente distrutto dal peronismo di ogni confessione, ma di continuare a propagare l’ottocentesco modello mercantilista e risolvere le problematiche sociali attraverso l’assistenzialismo, a sua volta finanziato parzialmente dall’innalzamento delle imposte sulle esportazioni (e parzialmente dall’emissione monetaria, ça va sans dire), creando un circolo vizioso per cui gli elettori, dipendenti dallo Stato in maniera cronica, continueranno a tornare all’ovile ad ogni tornata.
Questo è uno dei punti che causa molti cortocircuiti tra gli “intellettuali”, i terzomondisti e gli analisti politici europei e nordamericani di una certa corrente, che vedono nel peronismo una “sinistra classica” (quella che in Europa “sembra essere svanita”, direbbe qualcuno), dimostrandosi per l’ennesima volta incapaci di andare oltre il bipolarismo e di analizzare i fatti per quello che sono: il peronismo, soprattutto nella sua fase attuale, è, in larga parte e al netto di situazioni finanziarie catastrofiche (che comunque ha contribuito a creare), il principale fautore dell’ondata di povertà vigente nel Paese da più di due decenni, nonché della crescita dell’informalità, della precarietà e delle disuguaglianze sociali, se non altro perché è stato al governo in 17 degli ultimi 21 anni. Ciò è dovuto a politiche industriali (salvo alcune nazionalizzazioni, come quella di YPF, che sono degne di nota) completamente inadeguate. La riprova è che, considerando i valori aggiustati all’inflazione (operazione che diventa faticosa quando si trattano economie iper-inflazionistiche), oggi il PIL nominale argentino è agli stessi livelli del 2010, e il PIL pro capite fatica a sfondare quota 12.000 US$ da prima della recessione del 1998.
A chi vede invece nel peronismo la soluzione perché vi si rispecchia “ideologicamente”, il cortocircuito solitamente arriva quando scopre che fu lo stesso Perón ad offrire un rifugio e addirittura l’asilo politico a nazisti del calibro di Erich Priebke, Josef Mengele, Adolf Eichmann e Ante Pavelić, giocando un ruolo chiave nell’organizzazione delle ormai celebri reti di esfiltrazione naziste in collaborazione con la Chiesa Cattolica, la OSS (poi CIA) statunitense e la Spagna di Francisco Franco, che anni dopo ospiterà Perón a Madrid durante il suo esilio, dal 1960 al 1973.
Per aggiungere legna al fuoco, Perón salì al governo (come segretario del Lavoro inizialmente, come Ministro della Guerra e vicepresidente poi) come attore di un golpe militare che spodestò un governo semi-legale, che a sua volta, nel 1930, aveva spodestato un governo legittimo (quello del radicale Hipólito Yrigoyen) tramite l’azione delle Forze Armate. In questo periodo, denominato Década Infame (1930-1943) per via della enorme regressione culturale, politica ed economica subita dai cittadini argentini, Perón ascese velocemente nei ranghi dell’Esercito Argentino, salendo di grado da maggiore a generale di brigata nel giro di pochi anni.
Fu proprio dall’esperienza del governo de facto Farrell-Perón tra il 1945 e il 1946, nei colpi di coda della dittatura militare chiamata Revolución del ’43, che nacque, come spiegava già cinquant’anni fa il brillante storiografo Félix Luna, e forse tramite un disegno premeditato, prima l’anti-peronismo, poi il peronismo. Vale a dire che Perón andò ad occupare uno spazio politico creato ad hoc per lui, una specie di finta-opposizione populista al liberalismo che aveva dominato la scena durante la Década Infame voluta dai governi di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Serviva una forza politica che sedasse le rivolte dei sindacati, e soprattutto ne eliminasse dall’interno le correnti pericolose, come quella comunista e quella anarchica. Perón dunque strinse un patto con la corrente sindacale socialista e si candidò alla presidenza nelle elezioni del 1946, nelle quali fu di fatto ancora proscritto l’yrygoyenismo.
Sebbene furono fatte numerose concessioni ai lavoratori argentini durante i suoi primi due governi, l’economia del Paese rimase prettamente legata all’export, non furono toccati gli interessi economici delle potenze europee e nordamericane e le vitali importazioni soprattutto nel settore energetico alimentarono di volta in volta la creazione di moneta che, inevitabilmente, catapultò l’inflazione alle stelle e ridusse le riserve monetarie in maniera più che sostanziale.
Una storia che sembra ripetersi di volta in volta, infinitamente, senza possibilità di scampo.
Col senno di poi, si può dunque affermare senza alcun tentennamento che Perón e il peronismo non miravano a creare una economia sovrana, ma a mantenere lo status quo precedente attraverso un modus operandi più moderno, ovvero attraverso alcune concessioni ai lavoratori, la completa polarizzazione e personalizzazione della politica e una quantità inimmaginabile di propaganda, propagata attraverso i nuovi canali di comunicazione nel frattempo diffusisi, nonché tramite appositi apparati para-partitici.
A corroborare questa tesi è il fatto che nel corso della storia, Perón e i peronisti rinunciarono a tutto (persino alla loro identità e collocazione politica all’interno del classico schema sinistra-destra, fin da subito mandato in soffitta) tranne che allo strumento tramite il quale si arrivò alla prima presidenza di Perón, ovvero il controllo dei sindacati. Persino durante l’esilio, infatti, in occasione delle elezioni del 1958, fu chiesta garanzia al candidato radicale, Arturo Frondizi, di non “infiltrarli”, in caso di vittoria, con elementi della UCR. In cambio, Perón dal Venezuela (dove si trovava all’epoca) avrebbe appoggiato la candidatura di Frondizi e avrebbe evitato che i suoi creassero disordini durante il suo governo.
Col passare degli anni e della stagione keynesiana in Occidente, dalle concessioni ai lavoratori si passò più propriamente all’assistenzialismo (in alcuni casi, vere e proprie mance elettorali), ma il centralismo dei sindacati rimase, e tutt’oggi, il peronismo di stampo kirchnerista trova in loro una fonte inestimabile di potere, senza la quale il partito crollerebbe nel giro di poche settimane.
Tutti questi passaggi storici sono propedeutici ad una buona comprensione della attuale situazione.
Tornando al presente, un capitolo a sé merita il rapporto con la Cina, con la quale Milei minaccia di voler interrompere i rapporti diplomatici. Il gigante asiatico, difatti, nel tentativo di conquistare influenza politica nella regione, finanzia attivamente e profumatamente progetti infrastrutturali ed industriali nel Paese sudamericano, tra cui alcuni (come ad esempio la diga Néstor Kirchner nella provincia di Santa Cruz, il progetto energetico più ambizioso della Cina in tutta l’America Latina, e la centrale nucleare Atucha III a Buenos Aires) di fondamentale importanza per l’indipendenza e l’autonomia energetica. Peraltro, negli accordi bilaterali sino-argentini vige la clausola del cross-default, vale a dire che se l’Argentina si ritirasse anche da solo uno di questi progetti, la Cina dichiarerebbe il default del debito argentino anche nei confronti di tutti gli altri progetti.
Passando all’altra sponda dello spettro elettorale, sebbene favorisca necessariamente il peronismo, la Cina sembra aver sviluppato una certa allergia alle politiche “attendiste” che hanno caratterizzato gli ultimi due governi di questa matrice politica, bloccando ad esempio i fondi per la già menzionata centrale nucleare Atucha III in seguito ad un tentennamento argentino causato da un ammonimento statunitense.
Oltre che finanziatrice di gran parte dei progetti industriali, la Cina è anche il partner commerciale numero 2 dell’Argentina (dietro solo al Brasile) e il maggior acquirente di soia, oggigiorno il prodotto argentino per eccellenza. Interrompere i rapporti o giocare con la pazienza dei cinesi metterebbe a rischio un settore iper-redditizio che, in assenza di un mercato interno in grado di trainare l’economia, mantiene a galla il Paese. L’attuale crisi finanziaria, e la conseguente mancanza di riserve di valuta estera con cui saldare i debiti, infatti, deriva in buona parte anche dalla inusuale siccità che l’anno scorso ha colpito le campagne.
Difficile in definitiva che da una parte Milei rompa effettivamente i rapporti con Pechino, in quanto si inimicherebbe gran parte degli industriali che lo sostengono, così come è difficile che il kirchnerismo continui a tenere il piede in due scarpe e utilizzi la Cina come un semplice bancomat per saldare i debiti derivanti della propria inettitudine macroeconomica.
Qualcosa dovrà inevitabilmente cambiare, le promesse elettorali saranno inevitabilmente infrante e rimarrà senz’altro quell’alone di corruzione e populismo che ormai olia gli ingranaggi della politica argentina da novant’anni. Ciò che è certo con ogni probabilità è che la variabile cinese sarà la grande protagonista del prossimo decennio argentino.
Come spiegava il leader venezuelano Nicolás Maduro in conferenza stampa qualche giorno fa, “è un mondo nuovo”.
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